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Il trittico   di Arturo Cammarata (scrivi all'Autore)  

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Da San Cataldo a Catania e ritorno: 4 settembre 1774 1935 2011

Sommario del trittico

 

Prefazione

Vecchie ferite

Prima parte : Alla memoria di mia madre e di mio padre

Seconda parte

Terza parte

Quarta parte

Quinta parte

Sesta parte

Settima parte

Ottava parte

Nona parte

Decima parte

Undicesima parte

Dodicesima parte

La collina di mia madre

Seconda parte

Terza parte

Quarta parte

Quinta parte

La depressione

Sesta parte

Settima parte

La spuma della risacca

Una cento, mille voci di bimbi

La siepe

“Tra la mia casa e il mare: ”

L'aldilà e l'aldiquà

Strade parallele

Le cugine e i cugini di campagna

Ricordi e memoria

Vento di tempesta

Morire a 16 anni

Delirio

La panchina

La caduta degli Angeli

 

 

Mia madre e Mio Padre

           

PREFAZIONE

Questa storia l’ho scritta per le persone che mi vogliono bene e continuano a passeggiare sul mio cuore, con le mani dietro la schiena e non mi danno calci negli stinchi, né cercano il pelo nell’uovo, ma si accontentano di quello che posso offrire. Una cosa è certa, questa è una storia partorita dal profondo del cuore, con piccole verità qua e là, con molti strafalcioni, dovuti alla mia, modesta cultura. Quelli che arricciano il naso e credono di possedere la scienza infusa, quelli che non si daranno la pena di leggermi e mi cestineranno, ritornino pure a letto, tanto con loro o senza, mi avventurerò lo stesso verso l'epilogo di questa mia storia. Perdonate la mia tecnica e gli errori d'ortografia e se vi riuscirà facile, leggetemi. Tanto, così è.

Ricostruire tassello dopo tassello, il grande o il piccolo mosaico genealogico di una famiglia è come fare un grande viaggio nell'incognito. Svolgere una qualsivoglia ricerca storica non vuol dire andare a caccia d’ascendenti illustri per ricostruire le origini del proprio ceppo familiare, ma risalire all'indietro, con la memoria, nelle generazioni e nei secoli, grazie alle fonti disponibili, è doveroso. Chi non ha memorie da raccontare, non ha futuro. Chi possiede i ricordi dei suoi avi, a buon titolo, si sente immortale.”

Vecchie ferite

Alla memoria di mia madre e di mio padre:

Prima parte :

Eravamo giovani, figli del ventennio infame, abitavamo in via del Teatro Massimo n°17 e questa è la storia di una famiglia senza pretese, che si svolse in Sicilia e più esattamente a Catania. La nostra casa era situata, sette piani più sotto del settimo cielo, un piano terra-terra che malgrado si trovasse a quel livello, si prendeva e non si prende più, per un grattacielo solo perché, cinque gradini le davano la sensazione di non essere un volgare basso. In quella casa non ci veniva il sole e nemmeno le nuvole. Un piccolo balcone che dall’ammezzato dava nell’enorme cortile del n°15, si lasciava bagnare da un sole pallido e smunto, come i figli di quell'ultima guerra. Per vedere il cielo, bisognava andare in piazza del Teatro Massimo. In quella casa, oltre a noi, c’erano venuti ad abitare i topi, che erano grossi come conigli e non avevano alcun rispetto per noi, contendendoci il poco spazio vitale che mamma faceva bastare. Quelle bestiacce non amavano la nostra compagnia ma solo quello che possedevamo: venti sacchi di grano e dieci galline; e c’erano una cagna e una gatta che non erano capaci d'impensierirli, anche se cercavano di catturarli, riuscendovi solo di tanto in tanto. I topi non temevano nessuno, anzi,

animali domestici e umani, battevamo in ritirata. Per bambini e grandi, era l’inferno. Il solo a non aver paura, come al solito, era papà. Noi, a più riprese, avevamo risentito e subito l’umiliazione di chi doveva vivere in quelle condizioni: sette piani più sotto del settimo cielo! Papà e mamma avevano tanti soldi, con i quali, se l'avessero voluto, avrebbero potuto comprare l’appartamento del settimo cielo. Ma Papà, l'altruista, il cittadino del mondo, diceva e lo ripeteva incessantemente:

“A cosa ci servirebbe comprarlo! Presto il comunismo andrà al potere e avrà bisogno di tutti noi e di tutte le case. Non reclamate nulla e non complicatemi la vita. I topi, dopotutto, sono bestie simpatiche e creature di Dio. Non lamentatevi. Per voi, tutto va bene; negli appartamenti dei ricchi, il partito della giustizia, ci metterà i poveri. Adesso, poche chiacchiere e contentatevi di quello che passa il convento!”

Papà ne era convinto e da tempo immemore aspettava l’arrivo dei comunisti al potere e in quell'ottica, metteva in pratica la sua militanza in seno al partito delle giustizie a venire, dividendo il nostro benessere con i suoi poveri. La nostra tavola da pranzo, l’aveva fatta fabbricare in maniera intelligente, per aggiungere più posti a tavola. Ai suoi compagni di partito, dava tutto ciò che per noi era di vitale importanza, così, per colpa della sua generosità, restammo condannati a vivere con quei topi, che si nutrivano col grano della collina di mia madre. Le galline odiavano quelle bestiacce, ma come noi le temevano! Fu in quel periodo là, che il credo politico di mio padre mi rubò l'infanzia e la sua ragione. Mi ricordo, che spesso, quando osavo affrontarlo, mi diceva: “Calati giunco, che passa la piena”. Era convinto di possedere la verità e la speranza per un domani migliore, diceva che ero testardo e duro di comprendonio, ma aveva torto, perché io, suo figlio, vedevo oltre la siepe delle sue utopie ed ero certo che presto se ne sarebbe accorto anche lui. Non l’ascoltavo più, mille e una ragione, mi spingevano a vivere la vita contro corrente! A mia sorella e ai miei fratelli, voglio dire una cosa:

-Se non vi trovate d’accordo con questo mio racconto, non fa niente, ma non ridete di me; non l'ho scritto per voi. Voi conoscete il nostro passato, e lo raccontereste col metro delle vostre budella; questa storia è per i miei figli, affinché possano diventare migliori di me!

Questa voglia di scrivere m'è venuta a causa di una vecchia fotografia che mi ricorda nonna, nonno e i loro tre primi figli: Michelangelo, Peppino e nostro padre Vincenzino. E' grazie a loro, se ho intrapreso queste ricerche, e ora fermiamoci per qualche pagina e ritorniamo indietro nel tempo. 4 settembre 1950; in via del teatro massimo, dove si stava festeggiando il mio anniversario con i piatti di mamma e le crespelle di ricotta dei fratelli Stella. Mi ricordo che, tra un piatto e l’altro mio padre, che non accettava la mia maniera d'interpretare la vita, ancora una volta, mi tirò fuori, dalla sua coppola:

“Calati giunco che passa a china!”. Non gli risposi e lo lasciai dire senza tenergli testa. Ora che sono vecchio e lui non c'è più, spesso mi chiedo: Perché cercava sempre di correggermi? Cosa facevo di male?Per me, quella sua frase suonava come un’eresia! Papà non era stato diverso da me e non si era piegato mai davanti ai potenti e ai prepotenti. E quel giorno, e tanti altri, dopo di quello, continuò a stuzzicarmi per motivarmi, nella speranza, secondo lui, d'insegnarmi a vivere. E senza rendersene conto, con i suoi consigli e con il suo credo politico, avrebbe incasinato la sua e la mia vita! Ed io che mi prendevo per Masaniello, non accettavo l'idea che potesse avere ragione. Mi ricordo che, da quell’ultima volta, incominciai a vivere senza regole, senza mai abbassare le corna, e come fanno certi uccelli, cagai nei nidi degli altri e ogni volta che mi chiudevano i coglioni in gabbia, metaforicamente, la sfasciavo come non l’avrebbe fatto “ l'uccellino della comare... Che non sapeva volare!” Cantavo sempre più forte e quando la mia voce dispiaceva o faceva male, continuavo ancora e ancora. Se i cattivi pensieri cercavano d’accecarmi l’anima, resistevo e volavo sempre più lontano. Mi trasformavo in pipistrello, ma avendo scelto il peggiore degli uccelli, cieco e sordo, mi spezzavo le ali. Quante fermate per raccomodare il timone e le ali, per non rompermi l'osso del collo; tentavo di ragionare e volare basso ma spesso, non riusciuscivo. Poi, dopo brevi soste, sazio e rassicurato, mi rimettevo a spiccare timidi voli, ma sempre maldestri. Imparai a mangiar poco, a non restare mai nello stesso posto, a passare il mare senza farmi inghiottire dalle

paure, a non essere tributario di una donna, d’un padrone e nemmeno di una casa. Vagabondo senza meta! Il tempo passò inesorabile e quando i miei voli diventavano impossibili, mi fermavo e rimpiangevo di non aver dato ascolto a mio padre! E in tanto arrivava l’età ingrata e facevo mille domande, ma il tempo passava lo stesso; A venti anni chiesi a mio padre:

“Chi furono i nostri antenati?” Ed egli mi raccontò una storia che smarrii per strada. Di una cosa sola ero certo, che nonno Cristofaro doveva esser nato tra 1850-60 ed era stato figlio di un certo massaio Michelangelo. Per qualche anno mi bastò, anche perché era il tempo nel quale la mia vita stava per diventare aceto. Era come se, qualcuno, m’avesse messo una palla al piede, cosa che mi sembrava quasi vero. A mio padre, insistentemente, chiedevo come avrei potuto fare per liberarmene, convinto che conoscesse la maniera migliore per giocare con i colori dell’arcobaleno, senza farmi male ma lui, come d’abitudine, non aveva mai il tempo, perché era preso dal suo debordante credo politico! 4 settembre 1996, quanto tempo è passato d'allora! 46 sei anni e non sembra ieri, perché si vede e si sente. Eravamo riuniti nella villa ai piedi dell’Etna, proprietà di mio fratello Cristofaro; Papà e Mamma non c'erano più, ma la loro tavola era là, per accoglierci come se fossero ancora tra noi; in mezzo alla sala da pranzo la tavola, come quando eravamo bambini, quando la cara immagine di Mamma, disponibile e pronta era vigile su di noi. I nostri volti invecchiati dal tempo, li trovavo patetici e senza nerbo. Eravamo ancora quattro fratelli e una sorella. Le nostre compagne, sono meravigliose, ma quel giorno, senza i nostri cari genitori, c’era solo tanta nostalgia e tanta tristezza, troppi silenzi, poche gioie; la nostra infanzia era volata via senza aver saputo trovare il tempo per insegnarci l’amore fraterno. Quel giorno, se l’avessimo voluto, avremmo potuto dire certe frasi, posare la mano sulla spalla dell’altro, felicitare il fratello per la sua riuscita e dirgli: “Sai, ti voglio bene!” Nessuno parlò. Il silenzio s'impossessò di noi e divennero monologhi, come quando, raramente c'incontriamo, per non dire nulla! Fui io a rompere l'imbarazzo e il monotono silenzio che come per il passato, opprimeva i miei e i loro perimetri d’aria; ma tutta quell'atmosfera non m'impedì di domandare se qualcuno di noi si ricordasse di quello che raccontava papà, a proposito dei nostri antenati. Eravamo seduti sul terrazzo, per la pausa caffè, parlando del più e del meno. Ogni uno di noi, convinto d’essere il depositario privilegiato dei racconti di papà; sembrava (la torre di Babele...). Poi, mio fratello Cristofaro mi disse di andare a trovare le cugine Sanfilippo. La loro mamma Giuseppina, sorella di nostro padre era morta a 105 anni e durante la sua lunga vita aveva scritto un diario nel quale aveva messo di tutto: miseria, nobiltà e (tutti quanti). Insieme a Dominique andammo a rendere visita alle quattro figlie di zia: nubili, immacolate e spose di Dio! Furono di una gentilezza inimmaginabile; biscottini all’anice, liquore della nonna, tanta gentilezza e il diario della loro mamma, sul tavolo, che potei leggere in largo e in lungo. C’era di tutto ma confuso: date, personaggi e soprattutto sembrava che qualcuno, avesse cercato, goffamente, di salvare l’onore della nostra famiglia, nascondendo i crimini d'un antenato assassino. Non mi ci volle molto per capire che la bisnonna Giuseppina Falzone, che visse in Brasile e si occupò dei nipotini, ma sopratutto della nostra zia Giuseppina Sanfilippo, calunniò la memoria del nostro trisavolo Michele suo suocero, per salvare l'immagine travisata del suo sposo. La nostra bisnonna fece da balia a Giuseppina e per proteggere la famiglia, in quel periodo delle loro vite, mentì e fece girare la storiella che il colpevole di quei delitti, non era il suo uomo ma suo suocero, il padre del massaio. Zia Giuseppina, per colpa della sua nonna, fu indotta in errore. Sua madre e sua nonna, gli avevano raccontato una storia arrangiata e insieme, per anni, accusarono il trisavolo! Sentivo odore di bruciato; non potevo accettare quella versione dei fatti. Ci salutammo e ci promettemmo di rivederci al più presto.

Quella storia e la calura di un mese d’agosto torrido, ci seguirono fino a Raddusa; quel giorno sulle terre dei miei, c’era mio fratello Ciccio. Dovevo e volevo vederci chiaro, c'erano troppe imprecisioni in quel diario. La zia raccontava che il trisavolo e la sua famiglia erano arrivati da Sutera con un carro carico di speranze e qualche soldo e queste notizie erano scritte così, nero su bianco, nel giornale intimo di zia; col trisavolo c'era la sua sposa Filippa Incardona che portava in braccio il piccolo Michelangelo in fasce e un fratellino più grande di lui. Era vero? Eccomi davanti al municipio, dove speravo di trovare le impronte del mio trisavolo. Quanti figli! Troppi nomi e perché, Michelangelo di Michele chiamò il suo primogenito Salvatore e questo bimbo morì dopo

qualche mese?

Un anno dopo nacque un altro bambino e anche quello si chiamò Salvatore e pure lui morì. Alla luce di quei due cadaveri, che Michelangelo mi sbatteva sotto agli occhi, suo padre si sarebbe dovuto chiamare Salvatore e poi, perché, come in una maledizione, “i Salvatore” di quella famiglia, appena nati, morivano? Mi occorreva l’atto di nascita di Michelangelo. Entrai nel municipio del villaggio e lì, all’ingresso, una Madonna in carne e ossa mi apparve, abbagliato dalla sua bellezza bruna e appetitosa, intruppai come un vecchio gallo in calore e caddi davanti alla sua visione. Quegli occhi mi avevano stordito, ma riuscii lo stesso a parlare:

-“Buongiorno signora, potrebbe indicarmi l’ufficio dell’anagrafe?”

-“Certo, si trova fuori dal municipio, alla vostra destra, la seconda a sinistra, poi sempre dritto fino alla piazza del mercato”

Ringraziai, salutai e insieme a mio fratello lasciammo le nostre libidini ai suoi piedi e a malincuore andammo per quella strada. Eccomi nell’ufficio dello stato civile (stile; leviti tu, ca mi cci mettu iu!). Sembrava che quel luogo non fosse stato mai toccato dal progresso e nemmeno da Dio! Un’unica stanza, una donna, due uomini, un piccolo bancone e noi due:

-"Buon giorno!”

-“Desiderano?”

-“Mi chiamo Arturo Cammarata, vivo in Francia, dove da qualche tempo mi è venuta la voglia di sapere chi furono i miei antenati e cosa ci fecero in questo villaggio.”

L’omino occhialuto, perché miope, senza nemmeno rispondermi, si girò verso il suo collega:

-Filippo, a voi sapiri l'urtima? Senti ccà! Ancora n'autri dui ca cercuno i loro antenati! Divintau na moda!

-Cosa vuole?-

Quell’atmosfera, da presa per i fondelli, mi gelò e mi compresse l’entusiasmo, impedendomi di chiedere l’atto di nascita di Michelangelo, figlio di Michele. La derisione dell’omino con gli occhiali mi fece abbassare il tiro e la voce.

“S’è possibile, vorrei l’atto di nascita di Cristofaro Cammarata che era mio nonno.” L’omino sbuffò come chi ne avesse le scatole piene e i crampi allo stomaco. Ogni anno, durante le vacanze estive, arrivavano, con qualche soldo in tasca e su vetture di grossa cilindrata, quelli con i pantaloncini corti, che una volta ripartiti e rientrati nei loro luoghi di residenza, raccontavano ai propri figli: “ Nella tua famiglia ci sono stati nobili e forse anche un Principe!” L'impiegato tirò fuori dal suo armadio a nomi, un contenitore di legno, consunto dal tempo e dall’incuria e poi disse;

-Vediamo se c'è? Oh! Eccolo! L’ho trovato: Cristofaro Cammarata, di Vincenzo e d’Arcangela Conti, nato a Ramacca nel 1931 e trasferitosi a Raddusa appena nato.”

-"Scusi, a piedi?”.

Il mio humour non lo fece ridere e senza incazzarsi:

-"Ha visto che l'abbiamo trovato?”

A sentire lui ero nipote di mio fratello che aveva 5 anni più di me. Non sapevo se arrabbiarmi, oppure no:

-“Signore ufficiale dell’anagrafe, potrebbe dirmi il suo nome?”

L’omino sorrise e poi:

-“ Perché, vulissi chiedere la mia mano, a me matri?”

Non si poteva dire che non fosse spiritoso.

-“Egregio signore, le ho chiesto il certificato di nascita di (mio nonno,) e lei non l’ha trovato e questo posso anche capirlo, perché vedo che ha troppo lavoro. Mio nonno è nato a Raddusa! Da Michelangelo e Giuseppina Falzone! Lei! Il guardiano del faro l’ha perduto, ma da buon cacciatore di teste, ha trovato mio fratello che non gli ho chiesto! Mi rendo conto che lei ha qualifica e forse è anche raccomandato. Cerchiamo d'essere seri, o devo pensare che lei, non ha voglia di fare il suo lavoro! La prego, si dia da fare, in fondo è uno dei suoi tanti e svariati compiti o mi sbaglio o è meglio che giri dall’altra parte del bancone e mi serva da solo? Sono certo che, in gran parte, la mia famiglia è nata qui! In questo fottuto e sperduto villaggio senza storia e senza titoli! E’ qui e

solo qui che potrò trovare le informazioni che cerco.” L’uomo rimase impressionato per il tono della mia voce, ma senza scomporsi, mi disse:

-“Ritorni in municipio e si rivolga alla bibliotecaria e chieda il libro del professor Allegra, dove troverà tutte le informazioni che cerca, di persone e cose”

Ritornammo al comune di Raddusa! Ma prima di liberarlo della mia presenza, solo per un attimo, lo guardai fisso negli occhi, come i personaggi del film (Per un dollaro di più!) Poi, senza dirgli nulla, lo salutai senza rancore, né pena, perché forse, il lavoro che faceva, non era sempre appassionante. Rieccoci davanti alla porta della biblioteca, busso ed entro, Oh! La brunetta di prima. Com’era strana la vita, chi l’avrebbe detto che ci saremmo rincontrati. Ma lei, sembrava che m'avesse dimenticato. Distrattamente annoiata, mi concesse appena uno sguardo stupito e poi disse:

-“Cosa gli manca ancora?”

-“Mi chiamo Cammarata e mi manca la mia storia.”

-“Ah! Lei si chiama Cammarata e cerca la sua storia, e dove l’avrebbe perduta?Vediamo, qui da noi? Egregio signore, se non lo sa, gli dirò chi sono io. Mi chiamo Lidia Fontana e mia madre, è una Cammarata e forse, la sua storia e la mia son la stessa cosa mio caro signor Cammarata, e ora: vuol dirmi chi era la zia Bianca?”

-“La sorella di mio padre”

-“Allora siamo cugini, venga fra le mie braccia e mi chieda quello che vuole, anche un paniere di fichi d'india fuori stagione ed io, vado e torno!” La strinsi al petto, senza dimenticare che era mia cugina. Finalmente un parente vivo e che boccone: profumo di zagara, di mirtillo e nipitella, mi inebriò, facendomi l'effetto di una carezza antica. Non avrei voluto staccarmi più da quel corpo pieno di frescura e d'odore di mandorla amara, e com'era bella! Però, era mia cugina! Peccato, bisognava farne astrazione e comportarsi come Dio raccomandava. Fu lei che, garbatamente, spezzò quell'incantesimo e mi allontanò da sé, perché sentì l'alito del desiderio che mi albergava. Lidia, abbandonò il suo posto di lavoro, come fanno tutti nel regno delle due Sicilie quando arriva un amico; uscimmo fuori e andammo a casa di sua madre, con la quale, viveva ancora la nonna, che era stata la moglie d’un Salvatore, sopravvissuto all’ecatombe dei “Salvatore” e che era stato cugino di mio padre e che ora, senza saperlo, forse, erano seppelliti insieme, nello stesso luogo, ( il cimitero di Raddusa). E mentre cercavo di capire, ripensai al diario di zia Giuseppina e al suo contenuto. Quando avrei scoperto la verità? Lidia ci fece capire che sua nonna non aveva più la memoria al posto giusto. Abbracciammo le decane della famiglia e ritornammo dall’omino con gli occhiali, per rompergli ancora una volta i cogliomberi. Vedendoci arrivare e prima ancora che Lidia gli dicesse:

- Ciao, caro cognato!

Egli si mise le mani ai capelli e rivolto a noi:

-“Ancora ca siti”?

Lidia cercò di calmarlo e con la gentilezza che la distingue, disse:

-Sentimi bene e non scuotere la testa, tu sei mio cognato e loro sono cugini miei, quindi, anche se non ti va, trovami i loro morti, che per parentela sono anche i tuoi. Miracolo delle famiglie allargate, quel figlio di una ballerina impertinente, ci trovò tutto quello che, un’ora prima non aveva saputo cercare! Nel dubbio, per non sbagliarmi, gli chiesi di Michelangelo, figlio di Salvatore, ma non c’era nessun Michelangelo, che avesse avuto un padre di nome Salvatore e quel fatto era strano! Eppure, in Sicilia e nel sud d’Italia c’era l’usanza che ai primogeniti si attribuissero i nomi dei nonni paterni e agli altri pargoletti che seguivano, quelli dei nonni materni. Che cosa era accaduto tra Michelangelo e suo padre? Visto che fino a quel momento non ci avevo capito nulla, decisi di chiamare il trisavolo, signor X!

Gianni esclamò: ” eureka!”

Michelangelo Cammarata, nato il 6- dicembre 1806 a San Cataldo, morto a Raddusa il 18 maggio del 1887 all’età di 81 anni, figlio di Michele e Filippa Incardona,” a quelle parole, fui io a dire: “eureka!” Avevamo trovato la filiera! Non mi ci volle molto per capire la ragione per la quale, la moglie di Michelangelo aveva mentito alla sua nipotina Giuseppina. Nostra nonna, pure lei, mentì.

Carmela Costa, moglie di nostro nonno, della quale dicevano che aveva il pelo sul ventre, ( omertosa), non amava immischiarsi in quella storia di delitti. Fuori, nella piazza di Raddusa, incontrammo mio cugino Cristofaro, figlio di zio Peppino, e anche lui le sparò grosse, ma per fortuna mia, mi diede un’altra pista; pare che il trisavolo non fosse venuto mai a Raddusa e Michelangelo non era arrivato da Sutera e nelle braccia di sua madre. A sentire il cugino, arrivò a 21 anni, da San Cataldo, in fuga verso un luogo dove poter trovare asilo e immunità. A San Cataldo, per una questione d’onore, aveva ucciso due uomini. Suo padre non lo perdonò mai ma non lo lasciò sulla paglia e dandogli armenti e denaro lo mandò a Raddusa, dove, c’era uno zio, cugino di suo padre e omonimo:

Raddusa, da quel giorno, sarebbe diventata la sua nuova patria, qui comprò una masseria e divenne un signorotto. Egli, sapeva leggere e scrivere e questo gli avrebbe facilitato la vita. Raddusa, in quei tempi di vacche magre, offriva asilo a chi, per un verso o un altro, si fosse macchiato di crimini nei loro luoghi di residenza. I fuggiaschi, se avessero voluto rifarsi una nuova vita, potevano profittare dell’occasione che offriva il Marchese; ma a condizione di non ritornare più nel loro paese natale. Michelangelo, cercò di volare basso, ma non era nel suo stile e presto, si fece una reputazione solforosa. A 30 anni, per un destino crudele, uccise un suo figlio, e per una strana coincidenza, anche questo si chiamava Salvatore; scherzi del cavolo! Piccolo massaro da strapazzo, sanguigno e violento, fece paura a tanti. Un’aureola di “ attenti al lupo” ornò il suo capo e fece tremare la gente. Tutti conoscevano il suo passato, ed egli se ne vantava, e la gente passava lontano da lui, dai suoi beni e dalla sua donna. Suo padre che era un gentiluomo, non cercò di recuperarlo e condannò in blocco le sue strane attitudini. Michelangelo se ne fregò e decise di non imporre il nome del padre a suoi maschi. Ne sapevo abbastanza, ma per averne il cuore netto, sarebbe stato meglio di andare a Sutera, e poi, se ne fosse stato il caso, nel villaggio di Cammarata, che era omonimo al nostro nome di famiglia. Con due vetture e in sei, partimmo per l’avventura: Dominique, Ciccio, Daniela, mia sorella Carmela e Bracco-Baldo Zangara, un ibrido che, in quel tempo, rendeva la vita impossibile a mia sorella. 10 Km prima di arrivare a Cammarata, ci fermammo nel piazzale di una stazione di rifornimento, facemmo il pieno e chiedemmo cosa dovevamo fare per raggiungere quel villaggio, che dava l’impressione di cadere dalla sua montagna. Il gestore fu gentile ma intrigante come una comare e ci chiese s’eravamo turisti e cosa venivamo a fare in quel giorno d'afa. Gli spiegammo le ragioni del nostro viaggio, ed egli, incuriosito e affettuoso come tanti siciliani, si mise a nostra disposizione. Eloquente e gran parlatore, si diede a raccontare di posti che conoscevamo per sentito dire. Poi, dulcis in fundo, ci consigliò di metterci in contatto con un parroco del villaggio che aveva scritto, un libro sulla città di Cammarata. Partimmo verso la casa del prete, ma prima d’imboccare l’ingresso ci fermammo sotto all’insegna di quel villaggio che portava il nostro nome, per farci fotografare. Tre Cammarata a Cammarata: Ciccio, Arturo e Carmela.

Ci spaparanzammo sotto a un'insegna, sulla quale, ignoti pseudo - mafiosi della zona, s'erano divertiti a schioppettate. Terminata l'operazione foto, c'incamminammo e ci perdemmo lungo le viuzze tortuose dell’antica casba del quartiere della chiesa madre. Quante manovre per arrivare alla casa del prete scrittore, che non trovammo perché era in seminario all’estero; mille altre manovre per liberarci da quei dedali. Un asino e una capra ci cedettero il passo, anche se erano loro che venivano da destra. Ci ritrovammo, ancora una volta, alle porte del paese. La strada s’inerpicava verso la cima della montagna, per portarci all’hotel del falco, una terrazza a picco sulla valle occidentale della Sicilia; le case di Cammarata cinturano, ancora oggi, a più livelli, la montagna che sembra un presepe montato su un’enorme scala monumentale di modeste e colorate case di contadini.

Le nostre vetture si arrampicarono come muli sperimentati e man mano che salivamo, l’altitudine ci annunciava un vento di frescura e la possibilità di passare una serata temperata e calma. Eccoci arrivati davanti all’albergo, una gomitata a mio fratello:

-Voi vedere che quando gli consegniamo i passaporti, il commesso ci dirà:

- Toh! Tre Cammarata? Per caso, siete della famiglia del barone?

L'uomo, indifferente e apatico, non ci cagò per nulla; poi, ci diede le chiavi delle tre camere e tese

la mano, solo per incassare i soldi. Com’era possibile tanta indifferenza? Forse il paese debordava di famiglie Cammarata e la nostra presenza, lo lasciava indifferente, va sapere perché! Intrigato e allo stesso tempo seccato, chiesi l’elenco telefonico della provincia di Caltanissetta. Lo sfogliai con rabbia, e poi, con stizza, lo gettai sul bancone! Nessun Cammarata nelle pagine. “Vuoi vedere che, qualcuno, per dispetto, ha strappato i fogli o forse, la famiglia Cammarata, al posto del telefono, ha ancora il tam-tam, perché non si fida di quell'arnese?!” Sconcertato, chiesi se in paese abitavano famiglie che si chiamavano come noi; risposta:

- A memoria d’uomo, nessun Cammarata, a Cammarata. Cercai di mascherare la mia delusione e lasciai cadere la conversazione, andando nella mia stanza.

Aprii la porta finestra che dava nella valle e lì, delirando di gioia triste e mesta, m’immaginai d'essere un falco e mi lasciai prendere dalla voglia di librarmi nei cieli della mia martoriata terra e virtualmente, lo feci. Quel balcone è un buon punto d’osservazione; un’atmosfera di strane e antiche sensazioni mi venne accanto e poi, mi si posò sul petto come a volermi penetrare fin d'entro all'anima che si mise a far le fusa. Rovine d’altri tempi e cicale canterine sembravano dire:

” scendi e confonditi con la natura.” Uomini piegati in due dalla fatica e con le schiene bruciate dal sole e dai tanti bisogni atavici, sotto ai raggi dell'astro di fuoco, m’ignorarono perché avevano fame! Tutto intorno, recinti di fichi d'india per tenervi dentro vacche e pecore si stendevano a perdita d'occhio. Non sarebbe stato difficile di capire che il paese di Cammarata e la mia famiglia, erano solo un volgare caso d’omonimia! I Cammarata che quella sera c’erano, nel giro di 50 Kmq, eravamo noi tre: Arturo, Ciccio e Melina! Dove erano passati i fondatori dell’antica cittadella medievale, che non riuscivo a resuscitare! Dove era andata e com’era cessata la dinastia del nobile Barone Cammarata, che aveva fondato quel borgo(?!) Non mi persi d'animo e andai a cercare nella biblioteca del villaggio e poi nell'unica libreria di quell'antico borgo, dove comprai il libro del parroco missionario. Non chiedevo il mondo da bere! Ma volevo che la mia storia fosse piena di gloria. Il comune di Cammarata? 13 mila abitanti adesso, nella preistoria, furono molto meno!

 

13500 anni prima della nostra epoca, quando i primi uomini vi s’istallarono, un mio antenato, in una delle sue grotte che si chiamano ancora (dell’acqua fredda), forse accese un fuoco e guardandosi intorno, chiamò quel luogo con quel nome, che forse era il suo: Kammarac? All’inizio, chi portò quel nome, fu la montagna, poi il villaggio che era stato costruito a forma di presepe o di camerata. C’è chi assicura, che furono i fenici che dicevano: ( cumu, costruito a vutta, botte, camera e poi così, di seguito, fino ad arrivare al nome di Cammarata! Oppure, fu a causa delle sue grandissime grotte, che gli arabi le imposero il nome di Charmat, ( vino). Le sue colline erano ricche di vigne ma tutte queste mie deduzioni, non restano che delle supposizioni e nient’altro. Ci sono quelli che fanno rimontare la nascita del paese ai tempi dell’invasione normanna del 1050, quando questi si batterono contro gli arabi per la conquista di quelle terre ricche d’acqua. La data della realizzazione del villaggio non è certa ma si pensa che debba essere accaduto verso l'anno mille e i tantissimi conquistatori che la sottomisero, la chiamarono con i nomi più strani. I conquistatori furono tanti e di razze diverse; spesso, le assegnarono nomi convenzionali ma quasi sempre, in rapporto con i luoghi della loro provenienza. Arrivarono i Normanni e si dissero, perché non, Cammeratam, oppure Camerata come le loro colonie nelle regioni di Bergamo e d’Ancona. E’ storicamente risaputo che, spesso, il nome dato dai conquistatori ai loro nuovi villaggi,nasca dalla nostalgia per il paese d'origine. Leggendo e andando avanti nelle spiegazioni del prete, le notizie più importanti che potei cogliere, furono quelli di una certa: Lucia da Camerata. Lei e tanti altri, vissero nell’omonimo feudo, fondato dalla famiglia Effrem, in quel di Bitonto, nei pressi di Bari. Con Lucia giunse un arcivescovo che s'era macchiata l’anima di crimini di lussuria e per questo motivo era stato scacciato dalla corte normanna di Bari. Con la cugina Lucia, venne alla corte di Ruggero 1°, in Sicilia, per cercarvi protezione e profitti. Lucia era la pupilla di Ruggero e in breve tempo divenne la reggente di quel territorio. Forse fu a causa della sua presenza che il villaggio si chiamò (Cameratam), che in tedesco vuol dire camerata, in quanto compagno di lavoro o di ventura. Non mi restava che accettare questa ultima ipotesi e dire che era meglio discendere dai normanni che figlio d'altre etnie. Ma quello che avevo appreso, non mi bastava. Dovevo andare a

Sutera che sembrava la copia conforme di Cammarata. Era una miniatura e come l'altro villaggio,stessa disposizione, case sparpagliate che s'incollano al costato della collina. Sutera era stata teatro di una grande battaglia, detta dei vespri.

Nel 1232, il suo castello, era diventata la fortezza dove avevano imprigionato il principe Phileppe D’Anjou che, dopo lunghe trattative, sarebbe stato restituito ai francesi. A causa e per colpa del trattato di Caltabellota, arrivarono i vincitori, gli aragonesi, che si appropriarono di gran parte della Sicilia. Il desiderio d'autonomia delle famiglie feudali della nostra terra di Sicilia scatenò battaglie e complotti degni dei Borgia. Quella gran fetta di Sicilia dovette subire ben tre secoli di dominazione spagnola, col risultato di secoli d’oscurantismo e cancellazione della cultura normanna; gli spagnoli seppellirono lo splendore passato e gli sforzi dei nostri precedenti padroni. A parte queste informazioni, niente accadeva, né veniva in mio aiuto. Neanche lì, nessun Cammarata. Decisi di andare a San Cataldo; ma la notte prima, ai piedi dell’immobile di mia sorella Melina, alcuni marioli m’avevano scassato la vettura, e così, prima di andare in missione a San Cataldo, riparammo il vetro e solo dopo qualche ora di imprecazioni e bestemmie, partimmo verso il villaggio del trisavolo, ma senza dimenticare di passare per Raddusa e raccogliere altre informazioni e poi, continuare sulla strada di San Cataldo. Lidia e suo marito Carmelo c’invitarono a pranzo e alla loro tavola vennero anche Gianni dell’anagrafe e sua moglie. Il pranzo fu succulento; Lidia ci regalo il libro del professor Allegra, che scoprii essere un nostro lontano cugino. Il suo lavoro da certosino racconta la storia del villaggio e quella di certe figure umane.

Seconda parte    [torna all'indice]

Raddusa è un piccolo centro agricolo senza pretese e al confine della provincia di Catania e quella di Enna, dove la gente va, solo per dovere. Raddusa era ed è ancora, un villaggio senza storia, dove, a parte la festa del grano, non accade nulla. Villaggio incolore e con un vissuto di sofferenze indescrivibile.

-Dal 1330 al 1735, fu un feudo banale e sempre nelle mani dei potentati d’allora. Mi sembra inutile elencare le moltitudini di nobili che dominarono quel feudo. Una cosa è certa, ed è mio dovere dirvelo, per rassicurarvi,

nessun Barone Cammarata profittò mai di quella gente. I nostri avi furono onesti lavoratori ed ebbero le mani pulite, e forse è per questo, che vissero come tanti siciliani. IL primo barone fu: Vincenzo Maria del Toscano, Marchese di Marianopoli, ossia Manchi o Manca e Raddusa. Dal 1735 al 1938: i marchesini e le marchesine si riprodussero ininterrottamente con la benedizione della santa romana chiesa e quella del Dio dei ricchi. Ma per adesso portiamoci, col pensiero, al 1809, data, nella quale il marchese di quell'epoca, per bonificare le sue terre paludose, fece venire un gran numero di disperati e fra loro, qualche povero bandito, in cerca di riscatto e un pezzo di pane per i suoi figli, e quel suo gesto, sarebbe servito per trasformare il suo feudo in un villaggio. In poco tempo, quelle masserie morenti, sarebbero diventate un comune. La manodopera, a buon mercato, riempì le tasche del marchese e dei suoi amici nobili. Le miniere di zolfo e di sali potassici reclamavano carne fresca. Leggendo i documenti storici del tempo, mi presi per uno di loro, per un povero cristo qualunque. Cercai e con la mia duttile fantasia, ci riuscii, e il Dio del caso mi fece entrare nella loro pelle. Era come se ci fossi anch’io in quel luogo, anche s’era una favola amara; me li vidi arrivare dai quattro punti cardinali dell’isola: criminali e brava gente, insieme e tutti con il desiderio di rifarsi una nuova vita! Fu solo per bisogno che misero le loro vite al servizio del marchese, ma i meno ingenui sapevano che le delusioni li aspettavano alle porte del feudo. Non tutti erano stupidi, molti di loro erano navigati e sapevano come sarebbe andata a finire quell'avventura, che era la solita storia che non andava d’accordo con gli interessi del padrone, che per diritto divino e dinastico si sarebbe preparato a sfruttarli e forse, a frustarli. E loro, come si faceva a quei tempi, avrebbero piegato, ancora una volta, le schiene, per trasformarsi in animali da soma! Chiedo scusa al professor Allegra per avere interpretato maldestramente il suo libro; ma sì dà il caso, che mio padre conosceva tanto quanto lui o forse più, l'epoca della quale stiamo parlando! Raddusa, per il mio papà, fu un paese costruito su terre malsane e abitato da povera

gente al servizio d’un padrone senza scrupoli e d'incerte origini.

Il 12 aprile del 1809, il signore marchese ottenne il diritto di trasformare il suo feudo in villaggio. Quel diritto glielo diede il Borbone Ferdinando, Re delle due Sicilie: " Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me!"

Chissà se il mio antenato si trovò tra quella folla di disperati? Nella lista di quelli che ricevettero i primi lotti di terra c’eran tre Cammarata: Liborio, Michele e Calogero;

e allora? Pensai che quel Michele potesse essere il mio trisavolo e mi lasciai imbarcare nel dubbio, come s’era lui l’assassino in questione. Volete vedere che zia Giuseppina aveva ragione? Chiesi a Lidia di fissarmi un appuntamento col parroco di Raddusa, un’ora dopo ero nella curia della chiesa madre. Quel prete era e forse è ancora, un bel l'uomo che sapeva di mafia cristiana e libidine umana. Si presentò con maestria divina, e dalle sue moine, capii il successo e il carisma che aveva con le donne del contado e il poco tempo che avrebbe potuto accordarmi. Prese i registri delle nascite, battesimi, matrimoni e decessi. Si sedette in faccia a me; e là, una giostra interminabile di Cammarata e di famiglie imparentate con noi, mi fece girare gli occhi, senza riuscire a chiarirmi le idee. Che casino e com'era difficile districarsi in mezzo a tutti quei nomi. Mi sembrò come se la metà della popolazione fosse imparentata con noi. Uscii dalla chiesa più confuso che persuaso. A quel punto, mi resi conto che bisognava prendere il toro per le corna e andare oltre, e metaforicamente, infilai la bestia della mia testardaggine nel cofano e partii alla volta di San Cataldo. Sull’autostrada Catania-Palermo, non smisi di pensare ai due Michele. Quale era il mio? Quello che non si era spostato mai da San Cataldo o quello che era sbarcato con l’orda selvaggia? Quale dei due era il mio antenato? Una cosa era certa: avevo due Michele sulle braccia e un Michelangelo che era nato a San Cataldo e non a Raddusa, ed io, era là che stavo andando o no? Il sole di quel giorno picchiava sulle lamiere della mia Toyota, che sembrava fondere sull’asfalto molle delle strade dei feudi mafiosi.

Dominique era rassegnata e come Gelsomina nel film “la strada”, mi guardava con l’occhio stanco ma ubbidiente. Al bivio per Enna-Caltanissetta, mi apparvero le montagne della provincia nissena che si mostravano come frontiere invalicabili. Dopo curve e contro curve e tantissimo tempo a consumare le gomme su strade sconnesse, San Cataldo apparve in tutto il suo squallore. Rassomigliava a una vecchia cicogna stanca e imbalsamata, che da secoli, se ne stava seduta di traverso, sul culo. La saracinesca dell’ufficio dello stato civile stava per chiudersi, facendomi il broncio e allo stesso tempo, cercava d’attirare l’attenzione dell’impiegato, che voleva rientrare a casa perché era l'ora di pranzo. Gli feci segno di aspettare, ma lui mi rispose:

“Niente da fare, venga nel pomeriggio, per adesso, vado a mangiare”!

Da dietro la griglia, insistetti e gli dissi che venivo da molto lontano, da Parigi e che mi ero fatto 3000 Km per non mancare quell’appuntamento. L’effetto fu sorprendente. La saracinesca si rialzò a metà e come al solito, un portoghese rompi- palle, s'accodò a me, seguendomi e approfittando. L’impiegato mugugnò ma volente o nolente, ci fece entrare:

-Allora? Prima il signore che viene dalla Francia:

“Che cosa cerca”?

-“ Desidero l'atto di nascita di Michelangelo Cammarata, nato a San Cataldo il 6 dicembre del 1806”

L’impiegato, sconcertato e per niente felice, anche se si chiamava Clemente, si grattò la testa, mentre io, me ne stetti zitto e attesi, che l’uomo recuperasse i sensi. Potevo ritenermi fortunato, visto che non avevo chiesto l’atto di nascita di Michele, che doveva essere nato tra il 1770-1780. I nostri sguardi s’incontrarono e dalla sua espressione capii perché i miei interlocutori prendevano quell'aria sconcertata, ogni qualvolta chiedevo di morti che non avevano più i documenti in regola, né vite ripercorribili. Che avessi chiesto la luna? Clemente Favata, così si chiama il simpatico signore del comune, rise e mi disse:

“Vi auguro di trovare queste informazioni nei registri della chiesa madre di questo triste villaggio, a condizione che questi documenti esistono ancora!”. Il clero e i suoi archivi ritornavano, ancora una volta a complicarmi le ricerche. Sapevo quello che mi aspettava e ancora una volta fui certo che mi sarei imbattuto con scritture all’inchiostro di china, sbavature, calligrafie storte e in lingua

latina, ma non potevo e non dovevo abbandonare le mie ricerche e anche se fosse andata male, a cosa sarebbe servito lasciarsi abbattere. Favata continuava a demolirmi il morale e come se non bastasse, rincarava la dose:

-A condizione che gli incendi, i saccheggi e le rivoluzioni non abbiano inghiottito tutti i documenti! Potrei accompagnarvi, ma devo andare a mangiare e poi, anche i preti fanno la stessa cosa e poi, la pennichella in grazia di Dio e con la Bibbia in mano... Ritornate alle tre, mio figlio si farà il piacere d’accompagnarvi.

La gente rancava il passo, perché era l'ora di pranzo, le strade si facevano deserto e un certo languore stuzzicava l’appetito. Un ristorante, una terrazza vuota, nessun cliente e due cavie consenzienti: mia moglie ed io; due piatti di maccheroni alla Norma, due fritture miste, mezzo litro di bianco d'Alcamo, il conto e poi via, dove tutto intorno a noi si trasformava in abbandono, sporcizia e noia: il selciato profumava di oleandri e puzzava di spazzatura. Un cane randagio e un barbiere sulla porta della sua bottega mi consigliarono di farmi tagliare i capelli. Dominique, come un’ombra, continuava a seguirmi e a fare tappezzeria. L’ora dell’appuntamento si avvicinava. Puntuale come un orologio solare, il figlio di Favata spuntò dal fondo della strada e ci venne incontro. Lo feci salire in macchina e lui, fiero delle bellezze del suo paese, prima di condurci in chiesa, volle che facessimo un giro per la città, come se c’era qualcosa da vedere. Quella che non era più una bella cittadina, era diventata, poco a poco, un luogo sinistro e povero in risorse. Le miniere del contado erano quasi tutte chiuse, l’agricoltura batteva l’ala e i suoi abitanti invecchiavano in notti e giorni d’indifferenza senza fine. Questa era San Cataldo, una cittadina che era stata regalata a un Principe toscano che viveva ad Arezzo, ma comandava solo a San Cataldo. Finita la visita lampo ci trovammo nella piazza della chiesa, che era deserta di vita e di belle case. Dimenticavo di dire che c’erano e ci sono sempre, le carceri e davanti ai suoi portoni, tante donne che aspettavano di vedere i loro uomini, che sicuramente, non erano tutti colpevoli dei crimini che la giustizia comoda del sistema gli appioppava. Nella chiesa, i registri che trovammo, erano mangiati dai tarli e dai topi, che solo a pensarci, mi facevano schifo a toccarli; era la solita storia, documenti per i poveri che partivano dal 1805 e quelli più remoti? Erano finiti in fiamme. Cerca che ti cerca, trovammo l’atto di battesimo di Michelangelo. Finalmente, stavo per trovarmi davanti ai miei primi antenati sicuri o tali. Michele Cammarata e Filippa Incardona, padrino e madrina, due Cammarata: uno si chiamava Michele e l’altra Lucia. Volete vedere che quel Michele che giunse a Raddusa nel 1809, era il padrino di Michelangelo? Con la cartella piena d’informazioni e la testa incasinata, rientrammo a Catania. Ci restavano ancora dieci giorni di vacanze che consumammo per visitare la Sicilia in largo e in lungo e poi, come ogni cosa bella, arrivò l’ora di rientrare a Parigi. La vecchia Toyota non scalpitò più, anzi, ferita nell’orgoglio per la violenza subita, ai piedi dell’immobile di mia sorella, e con un vetro rotto, e poi incerottata e carica all’inverosimile, di agrumi e regali dei nostri parenti, come un ammasso di ferraglia, riprese la strada per riportarci in Francia.

Dolce Francia bel paese della mia tranquilla vecchiaia; eccomi sulle tue terre e davanti all’imbarcadero, col traghetto che ci permetterà di sbarcare sull’isola verde che si trova in mezzo alla Senna, in quel di ( Juziers).

La Sicilia era ormai lontana, dietro di noi, si era ritirata a malincuore, tra l'Italia e la Tunisia. Ci aveva lasciato andare, riprendendosi la sua bellezza selvaggia, le sue mille violenze, il suo calore e la sua dolcezza. In un mese di vacanze, la mia vecchia carretta aveva percorso 7000 Km. Di lì a poco, il traghetto ci avrebbe trasbordato sull’isola d’Arturo. La nostra casa era lì che aspettava, posata su palafitte, e ora è ancora là, ma non mi appartiene più; e quel giorno, come un’amante fedele, ci accoglieva con la solita gioia di sempre, come persone amate. Era poca cosa, ma era la nostra casa sulla Senna, in mezzo all'acqua e spesso mi faceva sentire come Robinson Crousoe. Era circondata dai fiori e dagli arbusti selvatici, che facevano piacere a vedersi. Sulla terrazza, troneggiava, una pianta di fichi d'india, regalo di mia sorella e di Bracco-Baldo. Il cactus, ci aspettava immobile, come a ogni ritorno, per domandarci notizie della sua calda e antica terra di Sicilia, da dove l’avevamo estirpato. Ora non c'è più, è morta; l'aria inquinata di Parigi me l'ha ucciso. Scaricato e sistemato tutto, mi sedetti sul banco della terrazza e guardai in basso verso il

fiume che lentamente se ne andava, per raggiungere il mare della Manica e poi, accarezzare la costa inglese. Una breve pausa e uno sguardo verso l'orizzonte, che mi trasmetteva ancora la voglia di ritornare indietro, 2300 km per raggiungere la mia terra lontana e il desiderio che mi riprendeva. Il dovere e la fine delle vacanze m’incatenavano l'anima e m’inchiodavano al mio posto per tutto quel che avevo da scrivere, e prima di perdere la memoria, spensi la mia voglia di Sicilia e mi misi al tavolo da lavoro. Prima d’iniziare quell'enorme lavoro, feci una premessa e dissi a me stesso:

-dedico questo mio delirio alle nostre vecchie cicatrici, a noi cinque Cammarata, ai nostri figli, ai loro e a tutta la gente che s’imparenterà ancora con noi. Queste famiglie, fino ad oggi, sono state: gli Incardona, i Costa, i Macaluso, i Giordano, i Mirci, i Bonetta, i Savi, i Sanfilippo.

Le nuove cicatrici siamo noi che col tempo, diventeremo le vecchie cicatrici dei nostri figli.”

Ora, con calma e senza spingere, vi racconterò la vita dei nostri antenati. Era il 1829, Michelangelo Cammarata arrivò a Raddusa e, forse andò a vivere nella casa dello zio Michele. Forse e forse, visto che le certezze sono poche, per riuscire meglio la storia avrei dovuto scavare di più, tra le macerie di tutti i miei.

Se l’avessi fatto, oggi, avrei più d’una verità e tanti ricordi a disposizione, ma questo non è stato possibile. Prenderò come buona, la data del 1829. Fu in quell'anno, che Michelangelo e la sua sposa, si presentarono davanti all’ufficiale dello stato civile per dichiarare la nascita della loro prima figlia Rosaria. Grazie a quella data, avrei capito molte cose. La mamma di Michelangelo si chiamava Filippa, mentre quella d’Apollonia, la sua sposa, si chiamava Stefania Giordano; cosa dovevo fare per accettare quel nome, che non era quello delle nonne? Forse c'era una ragione o forse no, la causa di quella mancanza di rispetto, era dovuta a quel fatto di sangue di San Cataldo o quei due non erano padre e figlio? Che bel rompicapo! Ripresi in mano il diario di zia Giuseppina e lasciai scorrere le pagine, la lista dei loro bambini vivi e morti, c’erano tutti.

1832, un maschio e non lo chiamarono Michele. Quello fu il primo Salvatore della serie dei bimbi morti; un affronto di più per suo padre, sempre che questo fosse realmente il nostro trisavolo!

1834, un altro bimbo, un altro Salvatore ancora e anche questo morì!

1836, una bimba e stranamente la chiamarono Filippa. Volete vedere che, padre e figlio, avevano firmato l’armistizio, ed era la pace?

1838, un maschio, che chiamarono Michele, miracolo; Non chiedete il perché. Non mi ci ritrovo più! Rinuncio a capire. Continuiamo, se possiamo, a seguire lo zighi e lo zaghi di Michelangelo. 1842, una bimba, alla quale imposero il nome di Giuseppa-Maria, in onore di chi e perché non la chiamarono Stefania?

I849, Apollonia moriva tra le braccia di Michelangelo, lasciandogli cinque figli: due del suo primo matrimonio e tre suoi. Il massaio aveva 43 anni e tanta voglia di fare all’amore e i suoi piccoli avevano bisogno di un’altra mamma. Da mesi, senza abbandonare la presa, corteggiava Giuseppina Falzone di venti anni più giovane di lui. Quella giovenca, nonostante la sua età, una volta conquistata e ingravidata, sarebbe stata costretta a mettersi a letto per non perdere i neonati. Ebbero 9 figli che aggiunti ai precedenti divennero 14, bazzecole!

1853, un maschio, che chiamò Ignazio e non Cristofaro, come suo suocero.

1854, Concetta,

1855, Cona; 1857 Salvatore, quello che sarebbe stato il figlio di sette anni che, per disgrazia, avrebbe ammazzato in contrada la Mendola!

1858 nasce nostro nonno Cristofaro. Come era strano; la memoria andava e veniva.

I860 una bimba, Antonia e nemmeno lei, avrebbe portato il nome della nonna materna che a quei tempi si chiamava Calogera! La bimba morì qualche giorno dopo.

1861 nacque Filippo, il capostipite di alcuni nostri cugini brasiliani.

1867 Rosario, il nonno dei nostri cugini di Aidone.

Nel I871, moriva di tubercolosi Michele, che era nato dall’unione con Apollonia. Aveva gli anni del Cristo. Lo stesso anno nasceva un maschio e in onore del fratello morto lo chiamarono Michele. Questo è quell’altro fratello che con nonno, Filippo e la loro mamma, vedova di Michelangelo, sarebbero andati in Brasile.

Le ore scorrono e passa il tempo, ed io soffro del mio solito mal di schiena, forse è meglio che mi riposi un poco e poi, ritornerò a scrivere. Siamo nel mese di settembre e fuori, sulla terrazza, fa bello vivere. Gli uccelli cantano, le anatre, nelle acque sporche della Senna, cercano di fare l’amore senza correre rischi. La tristezza mi prende e mi scuote sopra un'altalena d’emozioni incontrollabili; cerco di nascondermi dietro la scena della mia quotidianità, ma una vecchia e logora lacrima, mi sputtana senza ritegno. La mia fragilità non mi lascia in pace, s’apparecchia sul volto e il dolore della mia vecchia e stanca vita s'imprime e poi corre verso un passato che si è scucito. Dominique mi guarda e con dolcezza lascia partire la sua mano verso la mia, l'afferro e come sempre, mi stringo a lei, che m'insegna a battermi contro i miei incubi. Non dico nulla, alzo gli occhi al cielo e a denti stretti, domando al Dio del caso d’aiutarmi a sconfiggere i cattivi sogni che mi servono una vita non stop e una lunga fila di pause di freddi silenzi che mi fanno tanta paura, e poi mi scuotono e mi spingono a guardare l’acqua della Senna che corre verso il mare, mentre la chiatta dei miei ricordi e dei miei rimorsi per gli atti mancati, si arresta e scarica sulla battigia della mia capanna, quel che resta di un’esistenza che mi sono persa dietro di me e che mi mette il cuore al tappeto, come un pugile che ha disimparato a battersi. Poi, ogni mattino, col sole o con la pioggia, l'atleta che non sono stato mai, si rialza e ritorna sul ring della sua infanzia, quando sognava storie belle e possibili! Dominique capisce e mi lascia solo ad aspettare il crepuscolo che annuncia la sera e spegne il giorno sulla terra. E' in quei momenti là, che il sole, parla alla luna e gli sussurra: “Te lo raccomando, aiutalo a superare quest'altra ambascia!”. E intanto, mentre io fantastico, fuori incomincia a fare freddo, ed io rientro e ritorno a scrivere, mentre la voglia di sapere e ricordare, mi riprende.

Apro l’album delle loro e delle mie foto. Vincenzo Cammarata in uniforme di sottufficiale dell’esercito italiano. Le foto sono tante: ci sono loro e anche io, i miei e i loro figli, mamma, in una posa ammaliatrice d'altri tempi. A un tratto, i miei occhi focalizzano la foto più bella, tra tutte quelle: nonna, nonno e gli zii, Michelangelo, Peppino e nostro padre di appena tre anni, tutti in mini uniforme della marina brasiliana. Nonno era di piccola taglia e in quella foto se ne stava seduto, con nostro padre in piede tra le sue gambe e ai due lati gli altri due figli. Nonna, dall’alto della sua mole, troneggiava e vegliava su i suoi quattro nani, quelli che Dio gli aveva dato. Più guardavo quella foto e più mi rendevo conto che Cristofaro, Ciccio ed io, gli rassomigliamo come gocce di una stessa fonte. Quella visione, mi dava una certa emozione, intrigandomi e spingendomi a cercare di capire com'erano stati da bambini. Dimenticare i ricordi che furono quelli di papà e quella terra di Sicilia, che era ed è ancora, un miscuglio di passioni e civiltà passate, non sarebbe stato possibile, né scordare i malori lasciati cadere sulle teste dei nostri antenati come mine vaganti, che reclamano vendetta e attenzione per i nostri morti, quelli che mi hanno marcato a fuoco! Quella sera, volli fare il punto e con calma, tutto divenne più facile e con un po’ di fantasia, m'ingegnai a entrare e uscire dal loro passato e poi, nelle terre del Marchese Vincenzo - Maria di Raddusa, per andare in quel lontano 1809. Rividi e rivisitai quei luoghi e toccai col cuore, quelle lunghe carovane di disperati: donne, uomini e bambini, chi a piedi e chi intasati nelle carrette tirate da buoi e vacche che aravano i campi di giorno e davano il latte per i loro figli, al crepuscolo di giorni di fatica collettiva; rivedo quelle carovane che arrivavano e si sistemavano alle porte del feudo, che presto, sarebbe diventato un villaggio col comune, ma senza anagrafe, con la chiesa e tanti devoti, che in quei tempi di grande disperazione, non si sapeva dove metterli. E tutti in movimento, coinvolti nella vita, sotto un cielo in eterno sposalizio di pioggia e sole che riempiva e svuotava il giorno di luce e oscurava la vista. Una piccola virata per ritornare sul funzionamento dello stato civile e l’anagrafe che solo nel 1860 sarebbe diventato comune autonomo con ufficio di stato civile, ma Ramacca era più importante e antica. Raddusa in quei tempi viveva solamente per esistere!Quel giorno di quel primo esodo, in terra promessa, la folla era tanta e molti non erano più giovani; bivaccavano, intasati, davanti alla reggia del Marchese, in attesa d’un domicilio che avrebbero dovuto costruirsi con le proprie mani: Tanta miseria e poca nobiltà non bastarono e Raddusa” che non era” e doveva penare per crescere. I poveri che vi giunsero, anche se non si conoscevano, cercarono di afferrarsi per mano per costruire strade, chiese e piccole case fatte di tufo e su terreni di piccole dimensioni, magnanimamente offerte dal marchese. Le peggiori terre gli

furono assegnate, a condizione di sgobbare, non so per quante ore, gratis per il nobile signore, (cu li palli e lu stemma in manu!), i nobili erunu signuri e andavunu rispittati! Gli anni passarono, davanti alle speranze sorde dei poveri più male che bene. Il paese divenne un gran cantiere, mentre sulla casa di Michelangelo, di lì a poco, si sarebbe abbattuta una gran tragedia.

Era il 28 settembre del 1857, era un giorno senza imprevisti e il massaio stava arando le sue terre, aspettando che il piccolo Salvatore portasse il mangiare da casa, ma il bimbo non arrivava e lui si spazientiva. Senza sapere, né chiedersi per quale ragione non era ancora lì, verde di rabbia, vedendolo spuntare, gli lanciò il raschietto col quale puliva la lama dell’aratro. Questa è la versione ufficiale, ma sarà stato vero? Il piccolo non ebbe nemmeno bisogno di fingere e cadde al suolo tramortito. Il massaio, uomo maldestro, lo sgridò:

“ levati, che non ti ho fatto nulla, vuoi evitarti una sacrosanta e meritata correzione?” Il bimbo non rispose. La morte, per mano del padre, l’aveva colpito per l'ultima volta. Michelangelo pensò: “Finge e per paura di rappresaglie, giace e fa il morto.” Arrestò il cavallo, mise il freno all’aratro, per non perdere la bestia e l’aratro; avanzò di buon passo per vedere meglio, per sincerarsi se la caduta non fosse solo per fare un po’ di teatro e quando lo raggiunse, gli s’inginocchiò accanto, scosse il corpo del bimbo:

“Finiscila, dai, ti perdono, andiamo a mangiare”. Il corpo rigido del suo ragazzo gli gelò l'anima. Impietrito, come chi sente d’averla fatta grossa, rendendosi conto che l'irreparabile era accaduto, sbiancò in viso. Salvatore era morto e lui, l’assassino del suo bimbo. Pianse di disperazione e strinse Salvatore al petto, mentre la sua camicia si macchiava del sangue dell’innocente figlio. In quel momento, non c'era dolore più grande, ed egli si sentì impazzire. Sollevò il piccolo da terra e stringendolo al cuore corse verso casa; Giuseppina Falzone stava sulla porta. Vedendo la scena, pensò a un colpo di sole. Non poteva immaginare mai che il suo uomo gli aveva ammazzato il piccolo Salvatore, agnello di Dio, anima innocente. Il padre mise nelle braccia della sua donna il corpo inerte del figlio, convinto che l’amore della madre avrebbe potuto ridargli la vita! Il piccolo Salvatore non c’era più: grida e pianti a non finire; Michelangelo si prostrò ai piedi della sua donna e chiese perdono a Dio e a lei. Giuseppa ebbe pietà per il suo uomo e disse:

“Corri in chiesa, prima che il popolo e la legge facciano giustizia di te.” Un’ora dopo, la piazza debordava di gente che reclamava la sua testa. La madre e il parroco, a stento, riuscirono a calmare gli animi. All’interno della chiesa, solo e maledetto, egli implorava Dio di prendergli la vita e sprofondargliela all’inferno! Ma Dio, non pagava il sabato e questo, la gente di allora, lo credeva e com’era nelle sue abitudini, quel giorno, non ascoltò la sua supplica e lo lasciò vivere per tantissimo tempo ancora, nel dolore fino a 81 anni! Dopo la predica, la legge dello stato e quella degli uomini lo lasciarono perdersi, il paese gli voltò le spalle e lui se n'andò di qua e di là con la sua follia. Dove era Dio in quei momenti, quando l’uomo colpiva i suoi simili? Chi di loro due erano il vero colpevole? Dio o Michelangelo? Il massaio, secondo la versione di Giuseppina Falzone, non voleva ammazzare ma il diavolo? Non mi si consideri un blasfemo, io sono ateo e questo lo sanno tutti, e non dovrei condannare un Dio nel quale non credo e col quale non ho rapporti, cercò solo d’interpretare i pensieri e i sentimenti di Michelangelo. Anche io ho perso un figlio, che non ho ammazzato. No! Non ero stato io! I cristiani con i quali parlo dicono che il mio bimbo non è morto e vogliono farmi credere che ora siede alla destra del Dio Padre supremo! Quindi, piuttosto che essere ipocrita come certa gente che crede in Lui, io remo contro corrente, e mi schiero dalla parte del massaio, accusando Dio come unico responsabile.

E ora, lasciamo Michelangelo in piena tragedia, col rimorso che gli consumerà la vita e facciamo una vasta panoramica su quei tempi torbidi, nei quali, la gente di Sicilia si lasciava menare per il naso.

45 anni prima, era stata l’epoca di Napoleone e poi, come per tutte le storie dell’umanità, il suo impero s’era sfasciato; i potenti che l’avevano battuto a Waterloo ed esiliato sull’isola d’Elba, dopo un certo tempo e solo perché faceva paura a tanti, lo esiliarono a Santa - Elena, come un vecchio scarpone. Una volta liquidato, gli antichi padroni del mondo cristiano, ritornarono sulla scena dei nuovi equilibri politici e geografici dell’Europa. Malore ai vinti! Quante vendette si consumarono! Ferdinando di Borbone, umiliato da Napoleone pretese e ottenne la restituzione di Napoli e di tutto

il sud dell’Italia. Il regno delle due Sicilie rinasceva senza che nulla potesse cambiare. Ferdinando ritornava più cattivo di prima. Ai siciliani non restava che calare la testa e pagare, per aver osato drizzarsi in piedi. Con i nuovi equilibri, il potere del Borbone rinviò alle calende greche tutte le speranze e le rivendicazioni del nostro popolo. Di tanto in tanto, qualche figlio di buona donna, nobile e interessato, si spogliava dei suoi beni, ma piuttosto che donarli ai poveri, li regalava alla chiesa. Il ricco era furbo, spesso forte e ci sapeva fare, da tempo immemore aveva capito come navigare nelle acque torbide dei poteri. In seno alle loro famiglie era d’obbligo, d'avere un figlio negli affari di stato e un altro, nel clero. Erano passati otto anni tra chiacchiere inutili e piccole cospirazioni. Poi venne l’insurrezione del 1820-21 che come un vento di rivolta ritornò a soffiare sulla terra dei miei avi; il popolo, manipolato dagli utopisti e dagli intellettuali d’allora, in una sommossa condita dal malcontento generale e fomentata da qualche nobile dimenticato, (al momento delle spartizioni,) scese in strada al grido di: “abbasso il Borbone!”

Purtroppo l’avventura si trasformò, come molti vini, in pessimo aceto. Il Re, individuati i capi della rivolta picchiò forte, eliminando fisicamente centinaia di zotici. Con quelle esecuzioni, colse l’occasione per toglierci qualche privilegio ottenuto grazie allo statuto speciale del quale godeva la Sicilia. 25 anni passarono tra terrore e morte. Il Re Borbone fece tabula-rasa di tutti i più elementari diritti umani. La convenzione di Ginevra era là da venire! Poi arrivò il 1848: numero fatidico e carico di cattivi presagi. Quante volte, nella nostra vita, abbiamo detto o sentito, dai vecchi siciliani:

Smettetela ho faccio succedere il 48! Se non volete che succeda il 48, non provocatemi.” Quante cose significò per noi siciliani, il dire o fare il quarantotto? Ancora una volta, quell’anno là, furono ancora gli intellettuali, certi nobili in cerca di vendette e tanti figli di contadini che non avevano dimenticato la morte dei loro padri, che non avevano capito la lezione. La gente scese in piazza, al grido: “ A morte l’invasore.” Il popolo credeva che fosse arrivato il momento di fare i conti col padrone. La sete di libertà li fece uscire dalle loro tane: straccioni, affamati e senza paura, per piazzarsi davanti alla morte che sarebbe arrivata inesorabilmente, prendendo padri e figli. Più della metà della popolazione meridionale s'era ribellata. La vittoria sembrava essere alle porte del nostro piccolo mondo d’allora, ma Ferdinando fece scendere, sulla scena del delitto un’armata di mercenari, che come un rullo compressore schiacciò quell’ennesima illusione! Egli fu crudele e ingiusto come solo i potenti di allora, sapevano essere.

Quando cerano loro (mamma e papà) più Carmela, nostra sorella

Da sinistra a destra: Cris, Franco, Arturo e Rodolfo

                        

1860: dodici anni erano passati e il popolo siciliano si era, quasi, rassegnato. Madri, figlie e spose:

Col nero, colorarono i loro abiti, che le avrebbero trasformate in quadri di dolore. E come se non bastasse, ancora una volta, due nuove figure vennero per farli sperare: “Rosolino Pilo e Giuseppe Garibaldi”, eroe dei due mondi che, avrebbe dovuto rompersi la famosa gamba, molto prima d'imbarcarsi a Quarto, e poi, sulla strada di Solferino, dove fu ferito. Dal canto suo, Rosolino Pilo, convinse i nostri avi e li mandò ancora al macello; Garibaldi illuse il popolo siciliano, perché essendo uomo pieno di contraddizioni deluse e aggravò il caso siciliano. Il suo torto fu quello di credersi capace di cambiare il mondo. Egli sapeva parlare alla schiuma della speranza della gente, e ancora una volta, ingannandoci, senza volerlo, spinse il popolo pecorone, a partire all’attacco! Tutti per uno e uno per tutti, ma cosa avevamo a spartire con i piemontesi? Garibaldi, senza i picciotti siciliani, non sarebbe andato molto lontano e non avrebbe mai sospettato che, nel 2010 la lega avrebbe conquistato il Piemonte, facendone l’appendice o l’appendicite della Padania. E allora, così com’era nelle sue abitudini, promise terra, libertà, giustizia e parità di diritti. Senza i nostri ragazzi, ancora oggi, l’Italia sarebbe divisa, in stati e borghi; e i padani? Non avrebbero bisogno di gridare: “ Alla secessione!” Avrebbero già il federalismo, la loro regione storica e la loro razza celtica. Quando i nostri picciotti si batterono per loro, a parte un pugno di bergamaschi, dove erano gli antenati di Bossi? N'era valsa la pena? I picciotti siciliani e i resti dei mille garibaldini, rigettarono in mare l’esercito del Borbone, che non ci teneva a morire, costringendoli a indietreggiare e a trincerarsi sull’Aspromonte, per contenere la furia delle camicie rosse. Calabresi e siciliani fianco a fianco e al grido di: Viva l’Italia e Viva V. Emanuele Re, combatterono e misero in fuga l’armata di Ferdinando che se ne fotteva dei poveri e della Sicilia. L’entusiasmo che scatenò Garibaldi e la sua armata di descamisados fece paura al Re savoiardo, che non poteva e non voleva l’avanzata del prode Giuseppe. Quindi, sapendo leggere e scrivere inviò un messaggero, al prode Giuseppe che sapeva leggere e obbedire, ordinandogli d’aspettare a Teano. Dal Piemonte, il Re V. Emanuele, come se si trattasse di una bella vacanza campestre, attraversò l’Italia del nord, senza incontrare nessuna resistenza. Un grande spettacolo, di lì a poco, si sarebbe rappresentato alle porte di Napoli: due popoli, diversi ma fratellastri, si sarebbero incontrati a Teano. I biondi del nord: occhi azzurri e divise di buona fattura e dal sud i nostri giovani riccioluti, dal passo deciso e mafioso, determinati, straccioni da sempre ma fieri d’essere alla fine di quell’avventura, italiani a tutti gli effetti! Il generale e il suo Re, si strinsero la mano e poi, patatim e patatam, confondendo, a minchia co bummulo,( l’anfora col pisello), consumarono o piuttosto, fecero abortire un momento storico che avrebbe potuto cambiare il nostro destino: l'eroe dei due mondi si fece gettare come un calzino sporco. L’armata Brancaleone fu smobilizzata e gli uomini costretti a rientrare nelle loro tane, delusi e incerti sul loro avvenire, non restandoci che, ritornare a spidocchiarsi. A Bronte e a Maletto, i cafoni del posto presidiarono il castello e le terre di Maniace, perché gli era stato promesso mari e monti, come se fosse cosa possibile. L'ultimo atto vergognoso, dell'accoppiata vincente: Vittorio Emanuele - Garibaldi, fu quello di tappare la bocca a quei tanti poveri cafoni siciliani. La folla, accampata, stava reclamando le terre del contado che gli erano state promesse se si fossero battuti per la patria. Come risposta, ricevettero le palle dei moschetti dei soldati di Nino Bixo, che non si trovava lì per caso, ma per far rispettare l’ordine e proteggere i beni del duca, amico dei potenti di quel momento. Nino B, era là per eseguire gli ordini di Garibaldi, che a sua volta, li aveva ricevuti dall’infame savoiardo. Ambasciatore non porta pena ma intanto, quell'ambasciata avrebbe dato la morte: 200 baldi giovani caddero sotto al fuoco amico/nemico. La nuova Italia, quella dell’avvenire, già allora, impartiva la giustizia, dando la morte ai suoi figli più bisognosi. Viva l’Italia! Nonno Cristofaro, a quell’epoca, aveva 12 anni e viveva con i suoi, quel terribile momento storico. Suo padre, aveva 54 anni e a causa della tragedia del piccolo Salvatore, era invecchiato precocemente, ma questo non lo faceva morire, perché Dio era capriccioso e non voleva. Michelangelo si guardava intorno, gridando:

- morte! ( come in vitti na crozza supra a nu cantuni), e reclamando il perché di tutti quei cadaveri e perché Dio restasse a guardare, senza muovere un dito? E quel giorno, il mio bisnonno, tenendosi aggrappato alla mano della sua sposa, cercò di capire i contorni e le ragioni profonde dell'essere e del non essere e in un impeto di disperazione chiese alla sua donna:

- Perché, adorano questo Dio latitante e indifferente alle sofferenze umane? Verso di me, odio e condanna mi hanno sprofondato nella disperazione e nella follia! Io uccisi per una questione d’onore e poi per il mio piccolo Salvatore, fu solo una disgrazia! E' vero che nulla accade senza la volontà di Dio! Due pesi e due misure: a Lui, si perdona tutto, a me, il banco degli accusati e dell’infamia. Sono anni che vivo nel disordine dell’anima, mentre Dio esercita su di me la sua vendetta selvaggia!

“Taci!” Disse la sua sposa, che staccando la mano da quella del suo uomo, finì per dire:

-Con quale diritto, parli così di Dio? Chi sei tu per credere di possedere la verità assoluta?

Terza parte     [torna all'indice]

26 settembre del 1996. Non abito più sull’isola d’Arturo. Sono a San Michele chef-chef, ma non dimenticherò mai di un certo giorno, nel quale, essendo ancora su quell’isola, stavo seduto, per qualche tempo ancora, sul terrazzo di quella baita in mezzo alla Senna. Era la 23° ora di una notte tiepida e calma. Una pioggia d’emozioni cadeva su di me, accompagnata da speranze che cercavano d’inocularmi sensazioni che mi sfuggivano tra le dita e cadevano sette terrazze più sotto del mio misero cielo! Cercavo d'acchiapparle, ma non ci riuscivo. Ma che vita era quella mia vita; che non era altro che menar il can per l’aia; bisognava levare il culo dalla sedia e guardare, più da vicino quello che succedeva intorno a me. E quella sera, lo feci e senza pensarci su due volte, mi piazzai al centro della terrazza, cercando, virtualmente, d’immaginare quel che restava di quel secolo che andava spegnendosi. Il delirio mi spinse a declamare due righe d’una vecchia poesia siciliana di Giovanni Formisano, amico di mio padre e mio:

“Secolo crudele, vai via, porta con te il sangue e le lacrime che mi hai fatto versare, tu mi hai dato poco amore e poca pace!”

Come al solito, nessuno mi rispose e il mondo non si curò di me e passò oltre. La frescura di quella notte che cambiava di temperatura, a fasi alterne, mi diede la pelle d’oca e mi fece rientrare all'interno della mia modesta casa di legno. Mi riposizionai al tavolo da lavoro e cercai di accendere la voglia di lavorare alla mia storia. Allora avevo un vecchio ordinatore antidiluviano e me la cavavo meno bene che adesso, ma lo trascuravo e spesso scrivevo con la matita, per facilitare le cancellature. Quella sera avevo poca voglia di scrivere, ma volli tentare di buttare qualche frase, pestando sulla tastiera del mio ordinatore, anche perché non avevo sonno. L’album delle mie fotografie e quelle degli altri era davanti a me, accanto alla macchina da scrivere, altro marchingegno che non usavo quasi mai, una vecchia Olivetti. Distrattamente, mi misi a sfogliare quella raccolta di volti a me cari e all'improvviso, accadde quello che credetti impossibile, gli occhi di nonno catturavano i miei. Cos’era mai quel fenomeno? Cosa mi stava accadendo? Quale fenomeno ottico si stava manifestando? Sognavo o ero desto? Una vocina, come se fosse quella del grillo parlante:

- Fai attenzione al suo sguardo magnetico e non lasciarti incantare; stai per essere plagiato, tuo nonno è uno stregone!

Ma non ebbi il tempo e lui, birbante d’un nonno, mi catturò e mi trovai, con tutta l’anima mia, nella trappola delle sue passioni seppellite, mentre i suoi occhi mi vincevano e soggiogavano! Chissà! Era un sogno? Una realtà? Accadde l’impossibile?! E allora? Ero vecchio anche io, non lavoravo ed ero pensionato preoccupato solamente del tempo che non passava, così come avrei voluto e non avendo nulla da fare, dissi:

Alla guerra, come (a la guerre) e mi misi a parlare con quella foto come se fosse nonno, in carne e ossa.

-lo sai, che fin dalla mia più tenera età, il mio desiderio più grande era quello di potermi sedere sulle tue gambe e farmi coccolare da te, il nonno che non ho mai conosciuto.

-Neanche io ti ho conosciuto, ma so chi sei e fin dove andrai. E ora, nipotino mio, ti piacerebbe di tentare un esperimento?

-Ma va là, nonno!

- Non temere e stammi bene a sentire, a condizione che lo desideri veramente; vedrai com’è facile. Sappi che con la forza della volontà, puoi venire a Raddusa, alla vigilia della nostra partenza per il Brasile. Hai capito? Vieni a trovarci!

-Nonno, tu devi essere stato matto! Questo è un sogno! O forse sei solo un falso morto che viene a rimuovere le macerie dell'impossibile. Non esistono i messaggeri dell'aldilà. Non è vero, che due persone come noi possano dialogare, come se nulla fosse. Non mi sembra razionale!

-Nipotino mio fingi, provaci Sam, che ti frega e che ti costa, prendi tutto come se fosse un gioco e se va, va, se non va, ( sucu di pala ca ci va) “olio di gomito”, e poi, in caso contrario, ci salutiamo e amici come non lo siamo stati ancora! Coraggio e non farmi aspettare inutilmente. Chiedi in prestito alla mitologia greca Pegaso e raggiungimi.

Non so come, né perché, accadde tutto come l'aveva previsto lui! Il cavallo arrivò, mi prese in groppa e mi portò via. Cavallo generoso, che come me, non sapeva quel che l’attendeva a Raddusa. In meno che non si dica, arrivammo in Sicilia. Eccoci davanti ad una montagna di concime stallatico che impestava l’aria! Proprio così! Ero a Raddusa, non c’era ombra di un dubbio, anche se papà, non l’aveva raccontata a quel modo e con quei cattivi odori, né in quella condizione ambientale! Che mi fossi sbagliato di luogo? Il villaggio era molto più piccolo di come me l’aspettavo, le strade erano in terra battuta e alle dieci di quel mattino, nemmeno un cane nelle strade, le porte delle case erano sprangate dall’interno e marcate col segno della croce, fatto con la calce stemperata. Conoscevo quelle macchie, erano quelle del colera. Nonno, volutamente? Aveva mentito! Non m’aveva detto come stavano le cose:

“ Volete vedere che stava cercando di farmi vivere una forte emozione?” Cos'era quel luogo e in quale merda mi ero ficcato? La paura m’afferrò per mano e come una sola persona, c’incamminammo lungo il corso principale; a duecento metri vidi la piazza, dove, davanti alla chiesa, ad attendermi, avrei dovuto trovare mio nonno. Un cane e un ragazzino. A parte quei due esseri minuti e spauriti, lo spiazzo era deserto; il piccolo uomo mi si avvicinò e tirandomi per la giacca, cercò di scuotermi da quel mio torpore:

-Che minchia ci fai qui? Dovevi raggiungermi nel 1894, non l’hai capito? Oggi siamo, nel 1867, ho nove anni, i tuoi zii e tuo padre non sono ancora nati e qui, stiamo vivendo un’epidemia di colera!

-Nonno, lo vedo da me! Non c’è bisogno che mi fai un disegno. Vorresti farmi credere che mi sono sbagliato d’epoca? E’ colpa mia?

-Sì e no ma prendiamolo come un segno del destino.

Rimasi talmente scosso, che sarei ripartito per dove ero venuto, volatilizzarmi, ma non mi fu possibile, Pegaso, da buon filone, se n’era volato via e con lui, la speranza di tornarmene nella mia epoca e in braccia a Morfeo, dov'era incominciata quella strampalata avventura. Sconcertato e impaurito, caddi, affranto, sui gradini della chiesa, poi mi alzai e mi misi a correre in lungo e in largo, mentre nonno mi lasciava fare. Tanto dove potevo scappare e poi, era sì il mio sogno, ma principalmente era la loro storia e non la mia! Merda! Quel bimbo che non sapevo ancora bene se fosse veramente mio nonno, strattonandomi, ancora una volta, per la giacca, mi disse:

-Resta, non andare via, non lo vedi che ho bisogno di te, non dimenticare che sono un ragazzino e se tu lo vuoi, puoi aiutarmi a salvare molta gente!

-Come?

-Non ho idea, ma non ti preoccupare, improvviseremo. Mi afferrò per la mano e riprendemmo la strada, da dov’ero venuto: viale Regina Margherita, oggi si chiama così, ieri non lo so o forse, a quei tempi, si chiamava viale della speranza. Un dolore al collo mi fece barcollare, una mano possente, lo stringeva fortemente. Cercai di liberarmi, ma non ci riuscii, nonno sentì il tremolio del mio corpo, si girò di scatto e gridò:

-fermo papà, non è uno straniero, è quello che un giorno, sarà uno dei miei tanti nipotini! Michelangelo lasciò la presa e cadde, anche lui, come me, col culo per terra e alla maniera di Geppetto, esclamò:

-decisamente, questa famiglia mi renderà pazzo.

Non ero più certo se stessi in un sogno, ma io, feci come un attore consumato, cercai di calmare le acque per far credere al bisnonno e al nonno, che nessuno era colpevole e che sarebbe bastato

spiegarsi, e poi, con teatralità consumata, dissi così:

- E' da una vita che vi sto cercando per valli e monti, nei borghi e nelle marine, per piazze e strade. Ho inventato storie che non stavano in piedi, ho attraversato l’oceano, dove il vostro ricordo mi ha rosicchiato la mente, e ora che non so per quale miracolo stiamo insieme, vi prego d’accettarmi come una realtà possibile. Chiedetemi tutto quello che volete, giuro che, per piacervi, farò tutto il possibile. E loro non batterono ciglio, ma mi guardarono come un marziano e poi, senza rispondermi, ci mettemmo a lavorare, ad aprire porte, a tirarne fuori cadaveri e ammalati e a posarli sui carri. A cinquanta metri da noi, una porta si spalancò come un gran fondaco, una donna scapigliata e in lacrime corse verso di noi; l’orrore e la disperazione erano nella sua gola e fuori:

-Aiutatemi, la mia bambina sta morendo, fate qualche cosa, ve ne prego.

Il primo a entrare fui io. Doveva essere una casa, ma non lo era, sembrava una caverna senza tetto e il pavimento era in terra battuta, a sinistra una mangiatoia dove un asino si teneva a mala pena in piedi, lasciandosi divorare dalle mosche cavalline, perché allora, le asinine, Dio non le aveva ancora create. A sinistra, con lo stesso tipo di paglia, che mangiava la povera bestia, la madre aveva confezionato un giaciglio dove dormivano insieme; mi avvicinai alla piccina e gli presi la mano, ma mi arresi subito, non c’era più niente da fare, i suoi occhietti neri e profondi mi fecero piegare le ginocchia, come la gente che è abituata a pregare, ed io, l’ateo impertinente, piansi e ingiuriai il Supremo. Poi, raccolsi quel mucchietto d’ossa e me lo strinse al petto. La piccola, morendo, reclinò la testolina sul mio braccio e si spense. Quel cadaverino mi riportò in Germania e a quando, al mio cuore, strinsi il corpicino del mio piccolo Davide! La madre si accorse che non avevo saputo o potuto salvare quell’angelo. Come una diavola, si mise a battere i pugni sul suo scarno petto, facendoci scappare via. I giorni passavano e ci affettavano il morale, come pane perduto, scoraggiandoci e rendendoci inutili. La fatica era enorme e le persone valide, erano poche. Un solo medico condotto e alcuni volontari. 16 giugno 1867: stavamo seduti sulla scalinata della chiesa per cercare di riprendere fiato; un vecchio buonuomo passò davanti a noi e subito si arrestò. Michelangelo, impallidendo, mormorò qualcosa all'indirizzo del vecchio:

-Che fate qui, padre mio? Quell’uomo era il mio trisavolo, il buon Michele di San Cataldo. A giro le coppie e tutti nelle braccia di Michele. Michelangelo non sapeva cosa dire, né cosa fare, perché non credeva ai suoi occhi e perché, nel passato, aveva deluso suo padre che pra, era là e lui, confuso, fece mille domande:

-Da dove venite e dove andate?

-Vengo da lontano e non vorrei ritornare nel mondo dei morti; mi batto contro l’infame, per difendervi e proteggervi; ora son stanco e faccio tanta fatica a resistergli; aiutatemi a rientrare da dove son venuto. E’ tempo che vada via. Tra poco, tutto sarà finito, la morte vi ha risparmiato, è ora di ritornarmene nel mondo sotterraneo. Michelangelo, figlio mio, accompagnami, fino alle porte del villaggio.

Sparirono dalla mia vista per sempre e lì, mi resi conto che non li avrei più incontrati. Addio vecchie cicatrici.

Una carretta carica di corpi senza vita ci passò davanti. Nonno, fece il saluto ai morti e si toccò tra le gambe.

-Chi è quell’uomo?

-E’ Giuseppe Nicito, il beccamorto del comune e quel lavoro lo fa per nutrire la sua famiglia. Per ogni morto che trasporta e interra, prende una lira e cinquanta centesimi.

Un mese dopo, alla stessa ora, seduti sulla scalinata del tempio di Dio, parlavamo del più e del meno, e là, senza accorgercene, accadde qualcosa d’imprevedibile, un alito di vento, come di vita che sbocciava, si manifestò. Eravamo soli e non c'era nessuno intorno a noi. Sembrava che il mondo stesse per rinascere dalle sue ceneri. Il giorno si era levato sul villaggio e tutto intorno odorava di vita, ed era il 20 luglio del 1867 e il mio piccolo nonno si teneva stretto a me, come a cercare protezione. Mi ricordo che quel giorno, come in un sogno placido, qualcosa si stava materializzando, ma noi, che non lo capivamo, stentavamo a crederci. Un profumo di zagara, come se stesse arrivando da un altro pianeta, invadeva l'aria intorno a noi e scuoteva i nostri corpi, come se fossero rami al vento; nonno, mi strattonò, dicendomi:

-Non lo senti questo odore? Questo vento che spazza l’aria e smuove la vita? Grazie a Dio, i corvi sono volati via, è finita, abbiamo vinto!

Povero nonno! Non potei trattenermi e risposi:

- Che ti succede? Credi in babbo natale, pensi che sia grazie a Dio se stiamo meglio?

Lui, non ha nessun merito, la natura e Lui non son la stessa cosa. Piuttosto, dov’era il tuo Dio, quando gli uomini si battevano contro la morte per salvare altri uomini? Noi e gli altri, abbiamo rischiato le nostre vite e Lui?

Com'è nelle sue abitudini si è dato a gambe levate, come un latitante!

Il piccolo nonno non poteva accettare le mie argomentazioni e replicava, balbettando come il bimbo che era:

-“Nipote mio, ricordati che non si muove una foglia d'albero senza la sua volontà”.

Si vedeva e si sentiva che aveva frequentato i corsi di catechismo.

-Piccolo nonno, che minchia di risposte dai? Me l’aspettavo, secondo te tutto quello che accade e tutti questi morti, sono opera sua?

Dio è bravo; è il migliore di tutti!

Nonno incalzava, s'innervosiva, non poteva accettare quelle mie parole e ancora una volta,cercò di replicare, balbettando una timida risposta:

-Anche se non so tenerti testa, una cosa è certa, quando si crede in Dio non si devono porre domande di questo genere.

- Nonno, io non credo perché Dio non esiste!

-Lo so che non credi, ma tu non sei me.

-Nonno, sono quel che crede d’avere il diritto di dimostrare al tuo Dio l’altra faccia della medaglia, quella che spiega la realtà delle cose! Non sono più un bambino, ho sessant’anni e giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, pago, con Dio o senza un’addizione che non è solo mia; la vita mi ha preso i miei migliori anni, portandoli via con sé, strappandomi, di dosso, la pelle e anche l’essenza di un’esistenza che avrebbe potuto essere migliore. I miei non furono anni in cieli azzurri e col profumo dei fiori; e ora, anche se quelle ferite, si son cicatrizzate, si notano ancora, lasciandomi la pena che col tempo potrebbe sparire. La mia gobba ha incassato i colpi più duri; l’amarezza, l’apparire e lo smarrimento sono stati il mio pane quotidiano, andando e venendo come pendolari della quotidianità; la speranza e le parole d’amore, le carezze rubate a una bella donna, mi hanno insegnato istanti di felicità, che a volte, regolavano le lacrime che mi facevano arrossire di pace; e tutto questo “pot pourri”, non lo devo al tuo Dio, ma solo al caso che a volte fa le pentole con i coperchi ma tantissime volte... Nonno, non dimenticare che “Lui”ti farà morire a 53 anni. Per me non sarà così, perché non è finita ancora; perché continuerò per 60 anni e oltre e sceglierò io, l’ora e il giorno per morire senza il tuo Dio e nella natura, e ordinerò che cremino il mio corpo e mi consegnino le mie cenere per disperdermi, come nebbia di carne, sulla mia martoriata terra di Sicilia. Lascia stare questa stupida querela e godiamoci questo momento di meravigliosa speranza laica.

La piazza del villaggio, incominciò a ripopolarsi, mentre il corso della vita, riprese ( sulla strada principale) il ritmo abituale fece strusciare a tutti i piedi sul selciato come bestie al pascolo. Dalla

parte del cimitero, un gruppo di vecchie conoscenze arrivava con tronfia arroganza. Venivano dall’est e andavano a ovest, passeggiavano sottobraccio, come se non fosse successo nulla. Erano venuti per riprendere possesso del villaggio e della cosa pubblica. Erano stati giorni e notti nere e loro, che si erano ben protetti, essendo sempre gli stessi individui di un passato affamatore, riapparivano su quelle terre senza speranza per manovrare la macchina della mala vita. Non chiedetemi i loro nomi. Mi limiterò a darvi solo qualche iniziale. Per quei papabili era solo una perdita di tempo, un'epidemia che nessuno aveva ordinato e che Dio gli regalava per punire i cattivi soggetti, quelli che avevano la salute cagionevole. Discutevano di come avrebbero fatto per istituire un comitato per assegnare medaglie al merito civile, ma solo a quelli che, secondo il loro giudizio, si erano dati da fare. Primi tra tutti i notabili, col marchese in testa e poi, tutti gli altri. I cinque lestofanti non scherzavano, e poi erano fieri di loro e delle loro capacità, e lo dicevano mentre ghignavano. Avevano l’aspetto mafioso, erano ben vestiti, indossavano facce da schiaffi e sapevano quello che era giusto per tutti: fare o non fare non erano la stessa cosa miei cari. Con loro non si giocava, né rideva. Accettavi e tacevi, e se il colera non ti aveva ammazzato, loro l’avrebbero fatto. Parlavano di ricostruire e a chi assegnare i nuovi cantieri. Il signor S..... si lamentava, per la lentezza e diceva che bisognava riprendere al più presto i lavori dei campi, le loro campagne non potevano aspettare oltre, bisognava che i cafoni ritornassero a zappare le sue terre e quelle degli altri padroni. La semina era prossima: armiamoci e partite; sembrava di sentire Mussolini. Contenti e beati, finita la loro ispezione e contati i cafoni che restavano ancora in vita, partirono verso il cimitero. Sono certo che non saprò mai perché Dio, quei tipi là, non li castigava!

Ti sembra giusto, nonno?

Ma lui taceva, non sapeva cosa rispondere e intanto nel paese era già festa, ed io, sarei voluto rientrare in Francia. Nonno mi s’attaccava alla giacca, dicendomi:

- Resta, non andartene, cambierà, vedrai che non sarà più come prima! Godiamoci questa speranza a venire!

E da quel giorno, ogni domenica, poveri e ricchi si vestirono a festa per andare alla messa, a mostrare ricchezze, nobiltà e miserie ataviche. I bimbi salivano e scendevano i gradini della chiesa per gridare come sempre. All'interno del tempio di Dio, il solito prete, ritornava a dire messa; Oh! Guarda un po’ chi si rivede! Era sopravvissuto, segno che anche lui era un raccomandato. Al primo rango, il marchese, la marchesa e i marchesini, al secondo rango, i protetti – i protettori del marchese, al terzo i proprietari terrieri, i commercianti e per ultimi, gli anonimi, quelli che non avevano niente da dare, nemmeno la salute. Il prete parlò di miracolo e disse:

- Senza la fede, non c'è vita, è la morte! Alla fine della messa, giustamente, per primi, uscirono i poveri, per ammirare e invidiare gli abiti dei ricchi. Quelli che potevano permetterselo, entrarono nei caffè, e ancora una volta, in mezzo a loro, rividi i nostri cinque malviventi che stavano riprendendo la conversazione del giorno di prima:

-Bisogna che la gente capisca e si dia a ricostruire e noi, come sempre, apporteremo le idee, e loro alla pala e al piccone, sporcandosi le mani e sudando per il bene comune.

Avevano ragioni da vendere, era una buona decisione, logica e calcolata, ed io, lo capivo bene. Quei cinque là, erano l’incarnazione della razza superiore. Quei figli di buona donna, al contrario dei poveri, che non s’aspettavano nulla dalla vita, erano e saranno sempre il sale degli intrighi e dei soprusi. Li guardai sfilare, sembravano manichini dell'alta moda: né una ruga e nemmeno un rimorso apparvero sui loro volti, ma solo sorrisi ipocriti, che mi diedero il voltastomaco. Il colera aveva fatto 92 morti e il cimitero era diventato una tomba a cielo aperto, perché non c’era più posto e Dio non era in cielo, né in terra, né in ogni luogo. Per i ricchi non era la stessa cosa. Loro avevano le cappelle di famiglia. La morte non concedeva sconti ai poveri, né diritti o trattamenti speciali. Nel cimitero, la notte, i cani andavano e venivano per calmare i crampi della loro atavica fame. Per loro era festa grande, una di quelle occasioni che permetteva di banchettare con i cadaveri più recenti, quelli degli ultimi giorni. Il proverbio (il cane non mangia uno della sua specie), non calzava. Senza saperlo, quei segugi mangiavano umani che avevano avuto, vite da cani. Situazioni difficili come tempeste avevano messo al tappeto buona parte della Sicilia. Il marchese, per continuare a dominare il popolo e ingraziarsi Dio, arruolò nuova mano d’opera e

fece costruire un’altra chiesa e un convento. Non mi ricordo più quanto tempo ancora rimasi a Raddusa. Poi, presi nonno per la mano e gli dissi che volevo ritornarmene in Francia, lontano da quei piccoli siciliani scalzi e sporchi, volevo ritornare nella sicurezza di un mondo migliore, poi, vedendo il suo volto attristato, promisi che sarei ritornato il giorno della loro partenza per il Brasile. Mi strinse a lui e in lacrime, ci augurammo un mondo di bene. Il sipario calò così come si era levato e nella mia casa, sull'isola di Arturo, il telefono squillò, ed io mi svegliai e capii che mi ero fatto intrappolare. Una grande e artefatta commedia dell'irrazionale si era consumata. Intontito ma cosciente, mi ritrovai piegato in due, anchilosato tra sedia e tavolo da lavoro, in una posizione scomoda e vittima predestinata d’un sogno, che forse, e solo forse, s’era preso gioco di me. Era stato solo un sogno? Ma che sogno! Non poteva e non doveva finire così. Nonno era troppo importante per me, da quel momento, egli, sarebbe stato il filo conduttore che mi avrebbe portato alla meta e come se non bastasse, desideravo di già il prossimo incontro, dove avrei conosciuto mio padre e i suoi fratelli. Quel pazzo sogno scioccante e impossibile, non m’aveva domato, anzi m’aveva fatto capire che se l'avessi voluto veramente, avrei potuto continuare a fare altri sogni assurdi, ma soprattutto a occhi aperti. Cercai d’immaginare nonno com'era stato, quando, a 20 anni, s’era sposato con nonna Carmela. Per non sbagliarmi, mi misi a cercare tra le righe del diario di zia Giuseppina. I genitori di nonna Carmela vivevano ad Aidone. Il villaggio era un borgo medievale, risalente al XII secolo, dove Dio, non passò mai da quelle parti. Il padre di nostra nonna era un uomo più tosto belloccio, si chiamava Giuseppe Costa e non era quello della flotta navale per le crociere. Per tanti anni fu l’amministratore del barone Cammarata. Che strano! Un barone nella nostra storia, ma non temete, non fu mai uno dei nostri, fu solo, un altro caso, in più, d’omonimia. Giuseppe Costa era un uomo onesto, anche troppo e per non perdere il suo posto di lavoro, eseguiva gli ordini del barone, come chiedeva e voleva lui, che era un Caino e un boia. Giuseppe, spesso, per non far punire i contadini ci rimetteva di tasca sua. Giovanissimo, si sposò con Rosa Russo, dalla quale ebbe 7 figli. Nel 1886, nonno Cristofaro aveva 28 anni e per la prima volta, diventava papà: nasceva zio Michelangelo, poi Peppino e dulcis in fundo, nostro padre, ( Vincenzino sette bellezze), ed era già il 1892. Nonno lavorava la sua terra, che scassava con l’aratro e la sua mula di nobile casato, che lui chiamava, con rispetto: “Baronessa”. Grazie alla nobile bestia, faceva trasporti per conto terzi. Un giorno, per sua disgrazia, ebbe a imbattersi nel massaio di un sedicente barone Cammarata di Piazza-Armerina, il quale era parente del padrone di suo suocero. Il massaio di quel nobile casato raccontò al suo Signore la lite che aveva avuto col nonno. Il fatto non era cosa da poco e nasceva dalla mancata volontà di pagargli il prezzo del trasporto pattuito e che, in malafede, il fattore contestava, inventando mille scuse per non saldarlo. Nonno, non aveva paura di nessuno e nemmeno freddo agli occhi e senza pensarci su due volte, a quel sopruso, si ribellò. Il barone intervenne. La storia stava per prendere una brutta piega, anzi degenerava e il nobile che non era uno qualunque, lo fece convocare al suo cospetto. Nonno non si lasciò intimorire e prima di andare nella tana dell’orso, commise l’imprudenza di denunciare il barone e il suo scagnozzo per non aver rispettato l'accordo. Apriti cielo! Il Barone s'inalberò e pretese riparazione, in quanto nobile. Lo scontro si annunciava sfavorevole per il carrettiere Cammarata. E adesso, senza fare troppo rumore, andiamo a vedere, come si svolse quella diatriba:

-Come avete potuto farmi un tale affronto? E poi, dove avete trovato il cognome Cammarata? Vi avverto che se non ritirate la denuncia, vi strappo questo cognome dal cuore e dalla mente. Vi rendete conto che un barone della mia specie non può essere accostato a un volgare usurpatore della vostra specie.

Nonno ascoltò senza battere ciglio il vociare di quel signore di paccottiglia. Chiese e ottenne di parlare a sua volta:

- Barone, vogliate perdonarmi, fino a questo momento avete parlato voi, ed io sono rimasto a sentire rispettosamente, ora, se lo permettete, vorrei parlare anch'io. Mi chiamo Cristofaro Cammarata e con rispetto per il vostro nome che è anche il mio, me ne frego del vostro casato che d'altronde non reclamo. Mio padre, mio nonno e il suo si chiamarono Cammarata e voi, in quei tempi là, non eravate ancora su questa terra. Posso sapere il perché di questa filippica? Sono qui per un'altra storia, se volete restare nobile, fate pure, a me, la vostra tiritera non mi disturba e

nemmeno m'ispira; datemi queste quattro lire del trasporto e vi prometto che me ne andrò lestamente e senza far rumore. Quel dialogo mi fece ritornare ralla mente la raccolta di poesie di Totò, quando nella livella, raccontava la storia del marchese e lo scopatore di strade. Scusate l'accostamento che è gratuito e ritorniamo ai due contendenti:

-Sporco villano, non vi permetto di prendere questo tono con me!

-Che permettete e non permettete, barone!

Anche se, lì per lì, l’era venuta la voglia di servirgli una sonora pernacchia, ma la pensò solamente e non la fece e invece replicò:

- Signor Barone! Posso dirvi ancora un'altra cosa? Chiamarsi Cammarata non è solo un vostro privilegio. Chiunque può chiamarsi come voi. Restiamo calmi, mi dovete o no, questi soldi, datemeli ed io vi toglierò il disturbo. E poi! Smettiamola con queste discussioni inutili!

Lo disse tutto d’un fiato, come se stesse leggendo un libro di (cappa e spada). Il barone, come era sua abitudine, fu arrogante, ma non cretino. Guardò il piccolo nonno con ammirazione. Quel povero disgraziato che si drizzava davanti, meritava rispetto. Sbalordito e soggiogato dal coraggio di nonno, si disse: “Qui bisogna salvare la faccia.” Misurò il tono della sua voce e con fermezza e selfcontrol sentenziò:

- Fate attenzione a voi e temete la mia ira! Io vi pago e voi ritirate la vostra denuncia e da oggi, non passate più sulle mie terre. Se lo fate, sarà a vostro rischio pericolo; se vi pesco, vi do in pasto ai porci.

Nonno non era certo un eroe; si contenne e non lasciando trapelare la tremarella che l’invadeva, intascò i soldi e se la diede, quasi a gambe. E da quel giorno, quando doveva fare un trasporto per qualche nobile, la prima cosa che chiedeva, era:

-“Per caso, VS Eccellenza è parente del barone Cammarata di Piazza-Armerina?”

A me che scrivo, rileggendo questo passaggio, mi tremano sempre le mani e una lacrima di rabbia mi spinge alla ribellione.

Quarta parte     [torna all'indice]

Questi sono giorni lunghissimi, nei quali scrivo pagine che spesso cestino, come se fossero foglie morte ma dopo lunghe ore d’immobilità, li recupero senza convinzione, li correggo e li getto via come direbbe mio fratello Cristofaro che mi consiglia di darmi all'ippica.

E intanto il tempo passa velocemente e senza costrutto! Sono le cinque del mattino, ed io, scrivo ancora. Che questa insonnia voglia farmi morire? Sento che potrei stendermi sul letto, addormentarmi e fare un altro sogno e andare, ancora una volta a Raddusa, per ritrovare nonno. Ma questa volta, devo fare attenzione a non sbagliarmi d’epoca. Che fortuna che ho avuto, il contatto è riuscito e il viaggio è filato liscio come l'olio che è quasi sempre carico di buoni odori. Nonno è là nell’orto, senza Maramao ma con l'insalata; mi sente arrivare e vedendomi si gira e dice:

-Devo dire che sei di parola!

-Te l’avevo promesso. Sono un uomo che rispetta gli impegni presi, eccomi qui. Come stai?

-Bene, e tu?

-Che stai facendo nonno?

- Cerco la pianta della felicità che mia madre m'aveva regalato e credo d’aver perduto e non trovo più. Sono certo che questo giardino di pietre e pale di fichi d'india se la sia inghiottita.

-Nonno, tu non smetti di meravigliarmi; non hai capito che era solo una metafora?

- Cos'è una metafora?

- Lascia perdere, Nonna voleva dire che, simbolicamente, tu e i tuoi fratelli, dovevate farla crescere nei vostri cuori e farla pulsare nelle vostre vene, per imparare a vivere. E’ per questo che vuoi andartene in Brasile? Credi che lì, troverai una vita più facile?

Non m'ascoltava e delirava come se non fossi davanti a lui. Credeva d’esser solo con la sua solitudine e non tenendo conto della mia presenza, lo sentii dire:

-Mi convinco sempre di più che non posso restare a Raddusa, devo cambiare Dio e terra! Con Lui, non ci siamo mai capiti, ho fallito e Lui pure! Noi, i poveri, a parte qualche pollo, non abbiamo altro da sacrificargli, dicono che questo Dio è debordato e non s’interessa che ai ricchi, la chiesa lo fa capire bene, senza soldi e preghiere, Dio e i suoi ministri non cantano messa. I poveri? Sono straccioni, puzzano e fabbricano rumore nella casa del Padre e nella vita di tutti i giorni. Come sono belli i ricchi! Con loro si delizia. Non potevo che essere d’accordo con lui. Dio, non si dà pena, perché sa che quei signori, faranno sempre le loro fortune col sudore della povera gente.

-Nonno, se ho ben capito, queste canaglie non pagheranno le loro colpe e pensare che Shakespeare, parlando degli uomini diceva:

-Siamo fatti della stessa materia dei sogni che dovrebbero essere uguali per tutti.

Nonno, ti auguro d’avere tanta fortuna e che il Brasile possa diventare la tua nuova patria. Sai una cosa? In qualche modo, così come tu sei, mi ricordi e fai rivivere in me un adorabile personaggio degli anni 50 che appariva e poi, per lunghi periodi, spariva dalle strade di Catania;

Avevo 15 anni e un giorno, insieme a papà, stavo ritornando dalla pescheria, all’altezza dell’arcivescovato, accanto alla libreria internazionale che, con la sua vetrina piena di libri filo/comunista polarizzava la nostra fame di verità e giustizie, vidi quel vecchio santone che ci veniva incontro come portato da un vento di saggia follia. Quella vetrina, con la sua montagna di libri pagani, si sfruculiava al nero muro dell'arcivescovato che offendeva e al quale dava fastidio, e poi, come se non bastasse, c’era quel santone, che quando passava di là, per fare un po’ d'ordine nei cuori della gente, scriveva qualche frase di speranza sui muri delle case del centro storico e di quel presidio di Dio. Quel giorno, c’eravamo anche noi per vederlo all’opera; sembrava venire dal mare, o forse dal mercato, come noi. Caro nonno, era un uomo come te, viveva di sogni e di sentenze che sputava in faccia a questo mondo infame. Camminava con ampie bracciate, sembrava che nuotasse, in mezzo alla folla che lo guardava attonita. In un batter baleno, lo vedemmo accanto a noi, bello come un Cristo. Non chiedeva nulla, non disturbava nessuno, molti lo schernivano ma lui non gliene voleva; non sorrideva, perché era un mistico, un uomo che non si spaventava di nessuno. Una lunga tunica bianca copriva i suoi sandali di cuoio nero, portava una barba che lo rendeva, simile a una povera e vecchia divinità. Andava spigolando come la donzella che vien dalla campagna sul tramontare del sole, lanciava anatemi e a volte, li scriveva sulle pietre dei muri che brillavano sotto al sole della Sicilia di sempre e di poi. Una fascia di raso rosso cingeva la sua fronte e gli incastonava i capelli color dell’argento. Forse aveva 70 anni o giù di lì, ma cosa importava! Andava e veniva come gli eremiti e si fermava davanti alle facciate delle case. E quel giorno, a tre metri da noi, s'arrestò senza timore, tirò fuori della sua sacca un bastoncino di gesso bianco e si mise a scrivere sul muro di nera lava dell’arcivescovato:

-"Il peccato, chi lo fa lo paga prima qui e poi, lassù!"

Papà ed io capimmo quel messaggio che doveva far riflettere. Agli occhi della gente quel personaggio era patetico, ma noi eravamo al di sopra del mucchio, eravamo atei e non c’era difficile capire. Dall’interno di quell’inutile monumento alla cristianità, qualcuno vide quella mano sacrilega e chiamò la polizia, mentre il sole dalla vergogna, all’ora di quel crepuscolo, tramontava per cedere il posto alla luna che capendo tutto, pianse.

Sembrava che avessero arrestato Provenzano che da 43 anni lo Stato sovrano non riusciva a catturare. Con quel povero essere, fu facile e poi, lui, non era un Masaniello. L’ammanettarono e l’infilarono dentro ad un'ambulanza, che gongolante, prese la direzione dell’ospedale Garibaldi. Lo chiusero in mezzo ai pazzi, lisciandogli il pelo a furia di calci in culo. Sparì e non lo rividi più. Adesso, anche lui, come te, fa parte dei miei ricordi più cari. Caro nonno, tu e quel poetico personaggio, senza esservi incontrati mai, siete stati dei poveri illusi che credevano in babbo natale, ma il mondo, ancora oggi, riesce a fare a meno di voi e vi manda al macero. Immagino che queste mie parole non bastano per farti riflettere. Sei deciso a partire?( Pensaci Giacomino......).

-Non temere per me, so quel che faccio e tu nipote mio, se vuoi, puoi venire con noi, t’alloggerò nel cuore. Adesso leggi questa lettera. Me l’ha mandata un compare, parla di lavoro, benessere e tanti cruzeros, tutti mangiano e bevono a sazietà e fanno figli pieni di salute. Caro Arturo, credo nel

lavoro, nel denaro, ma non nella libertà, le due prime cose, per adesso mi bastano, dopo si vedrà. Per noi poveri la libertà è ancora da venire e ne ho fatto le spese. Non dimentichiamo il barone Cammarata che voleva togliermi la vita. La libertà? Preferisce la compagnia di chi la sa sodomizzare; quella femmina dorme nei letti dei potenti, fra lenzuola di raso e petali di rose. Non mi resta altro da fare che vendere quel poco che ho e scappare via da quest'isola di pirati.

E lo fece e in poco tempo e con pochi soldi, piegò i suoi quattro stracci e si mise a correre di casa in casa per riscuotere o vendere le sue misere cianfrusaglie. Lasciò la sua terra al fratello Ignazio, la mula al compare Diolosà, liberò dalla catena il cane Medoro e gli disse:

-Ora puoi andare per la tua strada, trovati un padrone migliore di me, oppure, vivi in libertà e corri nelle campagne, evitando gli umani! Poi, fece vestire a festa tutta la famiglia e andò in chiesa per chiedere la benedizione a quel Dio che solo la sua sposa amava ancora. Con l’onnipotente, erano anni che non si parlavano, così diceva nonno. La paura e null’altro lo spinse a entrare, ma non cercò Dio rivolgendosi al Cristo che sapeva più bonaccione. I consigli di compare Diolosà gli avevano messo il fuoco nel cuore e nel deretano. Nonno non sapeva cosa dire né cosa fare e pensò al compare che gli aveva detto:

-Dio non ama i poveri! Ma questo lui lo sapeva già, non doveva domandare l’impossibile e poi, era o non era, nella casa di Dio? Attento Cristofaro! A causa di quella giusta riflessione, il panico gli compresse il cuore e lui che non riusciva a farsi passare per un devoto, preferì, parlare al Cristo per scampare all'ira del Padre. Uomo avvisato, mezzo salvato! Dio non era uno qualunque. Sapeva tutto e a tutte le ore, era sempre sveglio. “Messo a conoscenza della presenza di nonno, dal suo segretario personale”: ( il signor Spirito Santo), che giorno e notte, vigilava e aspettava l’occasione per farsi bello agli occhi del Supremo raccontando della presenza degli indesiderati, si diede a spiare il Cristo che ascoltava e si lasciava conquistare da quel che diceva nonno, e lo S.S, a piè levato, correva a raccontare in alto luogo, a chi di dovere. E Dio che era il grande Lupo dei cieli e dei mari, Dio al quale non si potevano raccontare impossibili storie, dall’alto della navata centrale, come un falco, piombò sui due; il figlio, cercò di calmare l’ira funesta del Possente e unico padrone di quei luoghi.

-Babbo! Vi prego, non vi arrabbiate, non è la fine del mondo, domani se ne vanno via e non torneranno più. E’ venuto a chiederci la nostra benedizione e basta. E' povero e non sa cosa sono le buone maniere.

-Allora? Chieda perdono e ipso facto, sparisca!

Nonno finse sottomissione e poi, preso il coraggio a due mani, schiarì la voce e disse:

- Dio misericordioso! Perdonatemi per aver osato vivere di miseria e nella precarietà d’un mondo sì fatto; perdonatemi se vi ho mancato di rispetto, tentando di cambiare la mia condizione umana. Voi lo sapete che non vi ho domandato mai aiuto ma oggi, con la promessa che il sottoscritto non v’importunerà più, benedite i miei figli e cercate, se lo potete, d'essere generoso. Fatelo, ed io sparirò dalla vostra divina esistenza. La promessa di nonno scalfì la dura corazza dell’Eterno Dio che rendendosi conto di aver calcato un po’ troppo la mano, calmandosi disse: perdoniamolo e fu così che, in un momento di divina debolezza, gli appioppò una modesta benedizione e siccome si era esposto, gli scappò anche di dire:

-Vi benedico e che l’avvenire dei tuoi figli possa essere diverso dal tuo.

Poi, rivolto al Figlio:

-Ma di cosa t’impicci tu? Per caso, questo Cristofaro Cammarata è amico tuo?

E il Cristo, mestamente, com’era il suo solito, abbassando gli occhi, rispose:

-No Padre! Volevo dare, solamente, una mano a quei tre bambini!

La calma ritornò nella chiesa e Dio se ne risalì in cielo, dove, per colpa di Cristoforo, aveva dovuto interrompere la partita a scopone scientifico che aveva appena incominciato con qualche nobile di quei tempi: il duca di Genova, il re Ferdinando di Borbone e il barone Cammarata, tutti in odore di santità. Erano morti privilegiati che parcheggiavano in zona franca, aspettando d'entrare in paradiso. La partita riprese e Dio non ricordandosi che il tre di coppe non era stato giocato fece una cavolata; Ferdinando che era il suo compagno, sbottò, mentre il barone, col tre di denari in mano, gridò:

-Scopa!

Ferdinando, non poté trattenersi:

- Cavolo d'un broccolo e d’un Patreternooooh! Dove avete imparato a giocare? Per colpa vostra hanno vinto la partita. Quando non si sanno tenere le carte in mano, non ci si mette a tavola con gente del mio calibro! Ed io pensai alle reazioni dei miei fratelli, che quando mi concedono di sedermi al loro tavolo da gioco, mi dicono:

Sei un asino!

E Ferdinando il Borbone?

Si alzò, gettò le carte in aria e si ritirò nella sua stanza. Nonno non seppe mai del torto che aveva procurato a Dio e il malessere che gli aveva creato in paradiso. La partenza per il Brasile arrivò ed io, cavia consenziente, li segui nella veste d’osservatore invisibile. Prendemmo il treno per Palermo e da lì, in carrozza andammo fino alla nave. Prima di salire a bordo, nonno prese una manata di sterco di cavallo e se lo portò vicino alla

bocca e mimando i mangiatori di merda, la sputò per terra, poi, alzò gli occhi al cielo e come se stesse parlando a Dio, gridò:

-Non temere, puoi contarci non mi rivedrai più. Addio, terra dei miei antenati, addio terra terremotata, addio montagna di fuoco!

Com’era bella la mia isola, vista da lontano! E finché non sparì all’orizzonte del nostro presente e futuro, non staccammo gli occhi da lei. Appoggiati alla ringhiera di prua aspettammo che si lasciasse contemplare ancora un poco quella nostra terra che s'allontanava e ci lasciava sempre di più orfani, con un certo addio senza ritorno. Dietro di noi, l’enorme ciminiera lasciava scappare una lunga scia di fumo. Non so quanto tempo passammo a fissare la schiuma del mare che la punta della nave fabbricava e faceva sguazzare sotto la chiglia, come la risacca sull’atlantico fa, dove vivo, impregnandoci di sale. Nonna era accanto a me, ma non poteva vedermi, mentre io, guardando il suo volto, vidi una lacrima che gli scappava e risvegliava le sue ataviche paure. Il nostro piccolo papà dormiva nelle sue braccia e accanto a lei il nonno, infreddolito, che la teneva per mano, mentre Michelangelo e Peppino, correvano sul ponte, felici d'essere partiti. E intanto, sul ponte c'eravamo solo noi. Era come se la nave avesse inghiottito tutti i passeggeri. Ci contammo. Eravamo rimasti in pochi: nonna, nonno, i suoi fratelli, Michele e Filippo, il primo celibe e il secondo sposato a Tanuzza d’Aidone che era cugina della nonna. Con noi, sul ponte, c’era la vedova del bisnonno Michelangelo, Giuseppina Falzone, madre di Michele, Filippo e nonno Cristofaro. Accanto a loro, una vedova Raddusana e i suoi tre figli, un ragazzo e due signorine, la più grande delle due, una volta a Porto Alegre si sarebbe sposata con Michele Cammarata e dall’unione sarebbero nati molti figli e tra questi, una figlia che sarebbe diventata, la mamma del cugino Ferdinando Olivera Parlacino che cent'anni dopo, incontrai in Brasile. Ci guardammo intorno, sembrava una nave fantasma; e noi, gli uni accanto agli altri che per paura d’essere inghiottiti, come il resto dei passeggeri, decidemmo di accamparci ai piedi dell’enorme ciminiera ad aspettare che l’alba si mostrasse. Mezza notte suonò e noi, rannicchiati tra casse e cose varie, stipate sul ponte, avremmo cercato di consumare, quella notte d’angoscia. La ronda passò e vedendoci, si bloccò davanti al nostro accampamento, chiedendosi come avevano potuto dimenticarci sul ponte. Il brigadiere portoghese fischiò, facendoci scattare come bestie:

-“Che fais a chesta ora fora, porche non vais a se casar abaco?”

La vedova, come punta da uno sciame di vespe, reagì prontamente, si sfilò una scarpina e la lanciò all’indirizzo del graduato, poi per paura che gli violassero le figlie, se le ficcò sotto alle gonne e gridò:

-“Vai retro satana!”

Lo disse in dialetto siciliano:

-"rincula satanassu, sì non voi ca t’ammazzu!”

La tensione montò e le donne, a torto, immaginarono che di lì a poco, sarebbero state aggredite e possedute, le grida fecero accorrere il secondo ufficiale di bordo che, per nostra fortuna, risultò essere figlio di un emigrante napoletano; a poco a poco la calma ritornò e tutti capirono che bisognava scendere nelle stive, ma imboccando le scale, i piccoli di Cristofaro e Carmela, intravedendo i saloni della prima e della seconda classe, si scambiarono uno sguardo d’intesa, come a dire:

“Bisogna che uno di questi giorni ci andiamo a ficcare il naso.”

Intanto, senza protestare, scendemmo. In poco tempo sprofondammo nelle cale del mostro marino. Una parte di quei locali era destinata alle donne e il resto agli uomini. La notte fu interminabile e nessuno di noi, riuscì a dormire: rumori e grossi topi mi riportarono, per molte notti a via del teatro massimo n° 17. Nonna non chiuse occhio, stringendo al suo petto il piccolo Vincenzo come se non avesse altri bimbi che quello. Il mattino dopo, a gruppi di trenta e come carcerati salirono per prendere l’aria sul ponte della terza classe: sette ponti più sotto del settimo suolo. Più che un ponte, era un tavolaccio schiaffeggiato dalle onde d'un mare in tempesta e salatissimo. I pranzi si componevano di pane nero e zuppa di cavolo, al posto del vino un’acqua che sapeva di ruggine. Ed ecco che una di quelle notti, mentre la nave andava tranquilla per la sua strada, una banda di scugnizzi si mise in azione. Tutti in fila indiana e a piedi nudi, per non farsi intercettare; come

topolini impauriti, si arrampicarono per le scale che portavano al salone della prima classe, ed io dietro perché non volevo perdermi quello spettacolo. I più grandi presero un banco e l’appoggiarono sotto agli oblò del salone, ci salirono sopra quasi tutti, spintonandosi come cuccioli in guerra per un posto al sole. Conquistare i piazzamenti migliori costò caro e qualcuno, ci rimediò uno schiaffo, uno spintone o un “ levati d’intorno!”. Alcuni piansero e i più fortunati e i più forti si misero a dire:

- Mizzica, cumpari, stati vidennu? Chi spettaculuuuuu! Erano tutti a bocca aperta e con i nasini incollati ai vetri degli oblò. Peppino piangeva lacrime di rabbia che gli colavano copiosamente. Una rabbia gioiosa e allo stesso tempo triste, fece battere il suo piccolo cuore come un richiamo di piaceri atavici che fino a quella notte gli erano stati negati.

-Michelangelo, dammillu un pizzuluni, si no mi sembra di sugnari!

-Stai zitto e non piangere, se ci scoprono siamo perduti e ci mettono in prigione! All'interno del salone era tutto come in una favola: le donne portavano abiti scintillanti e gli uomini erano, quasi tutti, in abito da sera, gli ufficiali in pompa magna e l’orchestra suonava valzer di Strauss, i camerieri riempivano, senza interruzione, coppe di champagne, come se fosse pipì di cherubini. Una vampata di profumo di coty mi stordì e con me, anche quella banda di scugnizzi.

 

“ Come un colpo di cannone!” Quelle piccole canaglie erano eccitati e ubriachi come angeli famelici. Avevano facce da schiaffi e non contenti, mezzora dopo, scesi dal banco, formarono le coppie per scimmiottare il mondo dei ricchi. Peppino perse il controllo e scivolò lungo per terra e grido: ahi! E come spesso accade, quel godimento e quel piacere durarono poco e la ronda passò e sul luogo del delitto, fu il fuggi, fuggi. Peppino passò sotto le gambe del brigadiere che lo riconobbe e rise di quel futuro campione di non so cosa. All’interno del salone l’orchestra smise di suonare e insieme a tutti gli invitati, ce li vedemmo intorno, sul ponte dei sospiri di quei bimbi che non avrebbero voluto che finisse a quel modo. Ma quei signori, nel vedere quell’orda di bimbi in fuga, si sentirono quasi colpevoli. Il capitano, anche lui, in grande uniforme, vide e disse ai suoi uomini:

-Non fategli paura, lasciateli andare. La banda di scugnizzi non si fidò, si postò, si preparò come per l'ultimo assalto ai privilegi dei ricchi e afferrandosi per la mano, l’uno all’altro, si portarono, arrotolandosi come una matassa umana, davanti alla scala, per lasciarsi precipitare giù fin nelle catacombe. Al risveglio, molti di quei ragazzini, ammosciati e indoloriti, dissero di aver sognato e come tale, raccontarono il fatto ai loro padri che sorrisero, torcendo la bocca. Verso le dieci del mattino, io e nonno ci ritrovammo sul ponte. Come al solito, guardavo la schiuma del mare e lui, appoggiato alla ringhiera, sbavava, seduto su una cassetta di legno, che sembrava una vecchia ventiquattrore del tempo dei Neanderthal; non diceva nemmeno una parola, faceva il broncio come un bambino in un orfanatrofio.

-A cosa stai pensando nonno?

- Penso che non si possa accettare che i nostri bimbi siano umiliati in questo modo.

- Quello che è capitato ai tuoi zii e a tutti gli altri ragazzini, è una cosa indegna! Perché quest’altra esperienza? Perché tanta miseria e sempre per gli stessi?

-Caro nonno, a cosa serve arrabbiarsi? Se mi permetti, voglio dirti che anche nella mia epoca accadono fatti dei quali dovremmo vergognarci. Qualche giorno fa, prima di entrare in questo pazzo sogno che mi sta portando con te in Brasile, sono successe cose inconcepibili. Era il

ventisette dicembre di un anonimo Natale. Tu sai che vivo in Francia e che ho un ristorante a Parigi, vicino al Panteon? Lasciati raccontare quello che accade in una delle città le più civili del mondo, un mattino qualunque, sono stato svegliato dalla calda voce di un’annunciatrice di radio Europa 1 che come se non fosse accaduto nulla di grave, informava della morte di cinque barboni, uccisi dal freddo, dalla fame e dalla disperazione. Consolati; 102 anni dopo questa nostra conversazione, la gente continuerà a morire di fame, di miseria e disperazione e sempre con lo stesso Dio che finge di non vedere e sentire. Adesso che arriviamo in Brasile, stai calmo, dimentica Raddusa e speriamo che quest’altro Dio meticcio che incontreremo, amante della samba e dell’eterno carnevale, sia migliore di quello che ci siamo lasciati alle spalle. Come puoi sentire la nostra miseria è il rovescio di una stessa medaglia. Nonno cosa c’è dentro la cassa, sulla quale stai seduto?

-Ci tieni tanto a saperlo? E va bene! Dentro, ci sono quattro soldi quattro, qualche foto, il vestito col quale mi sono sposato e che forse, potrebbe servirmi per fare bella figura, in caso di morte improvvisa e ci sono pure tanti sogni ai quali, sono certo che mancheranno altrettante risposte. Dentro, ben sistemati, ci sono tutte le tristezze che non vogliono suicidarsi. Queste mie risposte ti bastano? Adesso, nipote mio, stammi bene a sentire, vuoi farmi un gran favore?

Nonno, non si rendeva conto che la nostra storia era il frutto di un sogno che nello spazio di poche ore si sarebbe sciolto, come neve al sole ma volli, fortissimamente volli assecondarlo, dicendogli:

-Sì nonno, chiedimi l’impossibile. Ma com’era il suo solito non capì che eravamo in un sogno.

-Vorrei che raccontassi ai miei figli, nel caso che dovessi morire, i sentimenti che nutro per loro.

A me manca la tua (ciaccia.) Parlagli di tutto quello che ho nel cuore e nella mente. Spiega la violenza degli uomini, aiutali a fare i primi passi importanti nel percorso più rischioso della loro vita. Arturo, mi sento vinto e superato!

-Te lo prometto nonno! Userò le stesse parole che impiegai con i miei figli.

-Arturo che mi dici mai? I tuoi figli li hai perduti da un pezzo e per sempre! Pensi di riuscire con i miei?

- Conosceva la mia vita, con annesse disgrazie e dolori.

-Non temere per i miei figli, se non sono più con me, è solo colpa di una donna che amava solamente il mio denaro. Accordami la tua fiducia. Tu ed io ci batteremo insieme per il loro bene. Tu sei un buon padre, al contrario del bisnonno che fu un padre padrone. Mai una carezza, mai un sorriso. Egli non vi lasciò nessun buon ricordo. Mentre tu hai tutte le carte in regola per riuscire la loro vita e la tua. Non piangere, asciuga le tue lacrime e stringi forte la mia mano. Gli uomini della tua epoca non sono vigliacchi, i colpevoli sono quelli che hanno spezzato i vostri sogni. La tua miseria è la conseguenza della tua onestà. Sappi che quelli che accumulano le ricchezze, rubano. Non fare come tuo padre e interpreta la vita da protagonista (sano).

Il gracchiare di un megafono ci fece sussultare:

- Mettetevi tutti al centro del ponte e state bene a sentire! Un ufficiale di bordo leggerà la lista delle località dove potete scendere, dopo di aver scelto tra questi luoghi: Porto- Alegre, Rio Grande, Mato-Grosso, Paraguay o Terra del Fuoco.

Quei nomi esotici fecero perdere la tramontana a tanti. Fu la torre di Babele e mentre un padre aveva scelto una località, un figlio ne domandava un’altra. Dopo un certo tempo, smarriti e confusi, vedendosi divisi e in gruppi dove non c’erano i loro cari, si lasciarono prendere dal panico e fu il muro del pianto. Chi gridava a manca e chi alla dritta, per fortuna non era più il tempo della schiavitù. Il capitano era una brava persona, ma s'incavolò lo stesso e tuonò:

-Fate silenzio! Riunitevi in nucleo familiare e lasciate rispondere gli anziani.

Si rifece l’appello di prima e finalmente tutto filò liscio come l’olio. Tre donne difficili e nemiche tra loro scelsero la stessa località e lo dissero come se si amassero, ma quell'amore non fu mai possibile. Quelle erano le donne Cammarata: Giuseppina Falzone, Carmela Costa e Tanuzza d'Aidone. L’orda selvaggia e anomala aspettava sul ponte che qualcuno ordinasse di sbarcare a terra. Ma non accadde nulla. Il duro muso di nonno non era per niente rassicurante, aveva una strana maniera di guardare verso la nuova terra.

-“Perché fai questa faccia scura, cosa ti succede ancora?”

- Succede che, ancora una volta, ho un presentimento, guarda laggiù, sul molo! Li vedi?

- Si! Li vedo e allora?

- Vagabondi, ruffiani, spettatori della commedia dell’arte d’arrangiarsi e giocatori di vantaggi e svantaggi, parassiti, meretrici, ladri di portafogli e tanti accattoni!

L’afferrai per un braccio e lo strattonai fortemente come se fosse il ramo di un albero senza foglie, né speranze e gli dissi:

-Non fare come me, smetti di remare contro corrente. Battiti per i tuoi figli e per il piacere di saperti migliore di tanti altri. La mia generazione è quella dei deboli, la tua fu quella dei veri uomini. Sappi che io, Arturo Cammarata, oggi, in piena crisi esistenziale, ho rinunciato a capire la vita ma anche se non so darti buoni consigli, una cosa posso dirtela: vola basso e piegati. Tu non puoi farci nulla, hai tre figli e una donna e sei in terra straniera! Io, al contrario di te, ho dimenticato che avevo messo in palio i miei figli.

Solo adesso mi rendo conto che ho perduto tutto. Ho deluso quelli che mi amavano e credevano in me, convinto d'essere riuscito a spezzare le mie catene, ma in realtà sono rimasto prigioniero dei miei rimorsi. La mia coscienza umiliata ha fatto di me un figlio di nessuno e il padre di forse. Dimenticare non è facile e i rimorsi mi tarlano l’anima nel profondo, non volevo che fosse così per me e gli altri. Ritornare indietro e non commettere più gli stessi errori, non è facile. Solo oggi, mi rendo conto che non ho più un’anima perché l’ho lasciata ai piedi della montagna della stupidità. Se fosse possibile, vorrei ritornare indietro nel tempo, a quando avevo sedici anni per chiedere a mio padre e a mia madre di perdonarmi per tutte le lacrime che gli ho fatto versare. Ai miei fratelli, se fossi più ragionevole, direi:

-scusatemi se vi ho fatto vergognare per le mie malefatte. Ora è tardi e non ho più i miei vent’anni! Con il tempo che mi resta a vivere, non so come farò per raggiungere la meta senza rompere le porcellane che porto ancora nel cuore. Vivo di quel che resta di una lunga traversata nel deserto, dove ho sprecato una gran parte della mia vita. Come puoi sentire anch’io ho avuto le mie galere. Tu hai dei figli, io l'avevo.

 

Com'era strano, a bordo, nessun rumore, qualcosa di appena percettibile galleggiava sulle nostre teste, sembrava una nave in balia del caso, con nessuno che dicesse:

-“Capolinea, tutti a terra!”

Poi, dopo un lungo silenzio, la voce del capitano tuonò per comunicarci una cattiva notizia:

-“Per ordine della capitaneria, scenderete a terra ma isolati e in quarantena ”

Cordone sanitario e guardie di frontiera, colle armi in pugno. Vidi mio nonno mordersi le labbra ed esclamare, ad alta voce:

-“Per caso, qualcuno di voi ha visto sbarcare la signora libertà?”

Non ne potevo più, ero stanco di rispondergli e allora, un contadino siracusano a nome di tutti noi:

-Sì, l'ho vista, era al braccio di un ricco piantatore di caffè, il capitano li ha lasciati passare perché secondo lui non erano malati!

- Perché, Noi siamo malati? No!

Questa sua considerazione aveva lasciato indifferente e schifata la libertà che senza voltarsi indietro scese a terra senza curarsi di noi. Nonno scattò in piedi e gridò:

 

 

- Non m'ero sbagliato. Gli stavamo su i marroni? Non sopportava più il puzzo delle nostre tragedie?

-Nonno, hai ragione, la libertà non vi appartiene, è di tutti e di nessuno.

Per giorni e notti, come cani feroci latrammo e restammo a grattarcele e a spidocchiarci, senza ritegno. Dall’alto del casermone, nel quale eravamo intasati, si vedeva una strana fauna umana che ci scimmiottava. Sotto, dietro alle barche arenate, gruppi di negri che ci avevano preceduto con i loro canti tribali ci guardavano, facendoci accapponare la pelle. Ma per fortuna nostra le loro voci non erano cattive, soavi erano i canti che ci sembrarono di gioia e suonavano come messaggi di”attenti al lupo”. Quei lamenti ci fecero fremere e allo stesso tempo comunicare con loro. La terrazza del caseggiato si mise a vibrare e noi, come in un conto di fiabe, attaccammo una tarantella: nonno al tamburello, Michelangelo alla chitarra e Peppino con lo scacciapensieri. Tutti i meridionali intonarono un vecchio canto siciliano:(ciuri-ciuri.) Gli schiavi negri capirono che eravamo straccioni come loro e che non avevano nulla da temere. La quarantena finì e noi uscimmo sul molo e tu nonno rifacesti lo stesso gesto di quando ci trovammo sul molo del porto di Palermo: una manciata di sabbia color dell’oro che lasciasti scorrere tra le tue dita, come il tempo della traversata che era stata lunga; poi, pensando alla nostra terra lontana, alla tristezza dei tuoi antenati, ai loro sogni, girandoti verso di noi, promettesti, a iosa, stagioni d’amore e felicità.

I controlli si fecero, come per le bestie: i maschi tra loro e le femmine pure e poi, ci presero le donne e le parcheggiarono come se fossero state delle vacche. Il getto d'un prodotto disinfettante, bagnò e umiliò i nostri corpi, ci palparono e ci fecero aprire la bocca e contarono i nostri denti. I medici sapevano di veterinaria e visto che l’errore era ed è ancora umano, scambiando le nostre donne per delle giovenche, cadde qualche manata sulle loro bianche natiche, poi le lasciarono rassettarsi, mentre palpavano i loro seni alla maniera di carezze da bordello. Gli uomini mostrarono le loro costole e le loro tristi nudità, testimoni di miserie e umiliazioni secolari. Finalmente sulla terra ferma, la folla Italo - brasiliana che aspettava ci cinturò. Le lacrime di gioia e gli abbracci si sprecarono. Avevano solo quelli ed erano i soli regali che sapeva fare la povera gente. Il tormento e il viaggio erano finiti e chiedevano d'essere seppelliti. Per l’alloggio? I contratti parlavano chiaro, lavoro sì, la casa era un altro affare; arrangiatevi e che Dio vi aiuti. La catena della fraternità si mise in movimento. Cristofaro, Filippo e le loro due famiglie trovarono una casa che avrebbero diviso in nove, quattro adulti e cinque bambini, più me, che essendo invisibile prendevo lo stesso un posto. Tanuzza e Carmela, sotto lo stesso tetto! Apriti cielo) e Dio? Ancora una volta, non sarebbe entrato nel merito, facendosi gli affari suoi! Quanto a Michele e sua

madre trovarono una baracca di legno nel bel mezzo di una terra paludosa, che nessuno avrebbe voluto mai, ma lui, senza indugio, accettò e trasformò in un paradiso. L’indomani, un paesano venne a cercare nonno e se lo portò via e quando arrivarono sul terreno di un ricco piantatore di granoturco gli disse:

- Compare! Pala, piccone, o zappa? Avete solo l’imbarazzo della scelta. E lui? Scelse la zappa che a volte, gli era stata amica e a volte no, ma sarebbe stato comunque come prima, peggio di prima. Poi, guardando l'estensione di terra, fece un respiro, come se stesse per immergersi e diede inizio al suo sogno brasiliano. Filippo era più giovane di lui e più duttile di cervello. Si diede da fare, chiese e ottenne di lavorare, come uomo di fatica in un gabinetto d’analisi, dove, un poco alla volta, imparò molte cose, che col tempo, avrebbero cambiato la sua vita. Divenne apprendista preparatore. Nonno zappò e grattò la terra degli altri. I risultati e i guadagni di Filippo resero furiosa nonna Carmela. La vita in comune non fu più possibile e i due fratelli, che si volevano un gran bene dovettero separarsi, decidendo che il primo dei due, che avrebbe trovato casa sarebbe partito da quell’inferno. Michele era il più coraggioso dei tre, lavoratore e figlio affettuoso. Si tirò su le maniche e si ruppe la schiena su quelle terre che, ogni qualvolta che l’acqua alta arrivava, le copriva, facendogli perdere tutto il raccolto. Qualche anno dopo, si sposò con la figlia della vedova Parlacino, quella ragazza che durante la traversata, s'era nascosta sotto le gonne della madre. Michele e Maria ebbero tanti figli. Con l’aiuto della moglie e della sua mamma, innalzò una diga intorno a quella terra. I raccolti furono abbondanti e, spesso, aiutò i suoi fratelli. Fu uomo di pace e di cuore.

-Purtroppo, caro nonno, tu non ingranasti e fosti costretto a tirare la cinghia. Cosa ti stava succedendo? Perché, non riuscivi a trovare la buona filiera? I soldi che guadagnavi non ti bastavano per far vivere la tua famiglia. Ricordo che ogni sera, al vespro, ti vedevo arrivare dal lavoro come qualcuno che non aveva voglia di vivere. Il tuo passo era stanco, marciavi e sudavi, come se stessi ancora sui campi, perdevi la nozione del tempo anche dopo il lavoro, dando l'impressione di zappare la vita. La casa, continuavi a dividerla con la famiglia di tuo fratello. Al ritorno dal lavoro, lungo la linea ferrata, raccoglievi e riempivi la tua bisaccia di cicoria e broccoli selvatici. Quella sera, non t'accorgesti di me che stavo aspettandoti, ti chiamai e tu, distrattamente, ti girasti verso di me. E m’apparisti come la maschera della desolazione. Mi accompagnai a te per rientrare a casa. Fino a quel momento del sogno, il solo a vedermi eri tu, per il resto della famiglia, era come se non esistessi e quando ti ero accanto e parlavamo, la gente e la tua famiglia credevano che fossi in pieno delirio. In casa, mentre assistevo all’ennesima lite, tra Carmela e Tanuzza, mi sistemavo in un angolo per non farmi intruppare da qualcuno dei tuoi figli che, spesso, inciampando sul mio corpo, si prendevano delle grosse paure. La domenica, noi due, come d’abitudine andavamo in Piazza Alfandega per cercare una casa che ci togliesse da quel vicolo della discordia. La trovammo a 100 metri da lì. Ci sembrò bella e capiente, perché aveva tre camere e c’era pure un sottoscala che conduceva a una piccola stanza che, di lì a poco, sarebbe diventato il nascondiglio mio e quello di mio padre. Nonna disse che quella casa era troppo grande per noi e che avremmo potuto trasformare la camera che dava sulla strada in una bella bottega per la vendita di frutta e legumi e anche per venderci il pesce. L’idea ci sembrò buona e c’era una ragione di più per fare quella scelta: l’orto di zio Michele che ci avrebbe fatto pagare le forniture meno care e con più respiro. L’idea di nonna piacque a nonno e tutti si misero a lavorare per realizzare una bella e nuova storia, un avvenire migliore; le due camere interne furono destinate all'alloggio comune. Una per i figli e l’altra per i nonni, ma col tempo, tutto si confuse e si videro montagne di meloni e cesti di verdura dappertutto. Con l’aiuto dei suoi fratelli e di qualche paesano la bottega si fece in pieno stile italiano. Prosciutti e salami vennero attaccati alla putrella centrale, sotto, in vicinanza della porta d’ingresso enormi panieri di vimini, artisticamente intrecciati e colmi di pomodori e merci varie. Per spingere la gente a entrare e comprare, s'inventò la qualunque, perfino le chitarre e i mandolini. Una nuova era s’annunciava. Scusatemi, se mi ci includo anch’io. Questo sogno è o non è, anche il mio, che male c’è, se me lo gusto insieme a loro? Qualche mese dopo, nonno comprò un vecchio ronzino e una carretta-bancarella per fare il venditore ambulante. Sembrava che la pace fosse ritornata e i giorni d’inferno, fossero lontani.

Nonno, seduto a cassetta, con la frusta alla mano sinistra e le redini nell'altra, se ne andava cantando per le strade di Porto Alegre. L'immaginai felice e pensai che quel suo nuovo stato mentale potesse durare tutta una vita! Grazie a quel suo nuovo lavoro conobbe molta gente, le porte del mondo di allora si aprirono davanti a lui e alla sua famiglia, il quartiere l'accettò e volle essergli amico. Il console d’Italia divenne il padrino di zio Peppino e il comandante del porto, quello di zio Santino che di lì a poco sarebbe nato. I nonni, a modo loro, furono generosi e quella qualità, portò molto prestigio ma poco denaro. Facevano credito perfino a quelli che sapevano che non avrebbero pagato, ma a loro non importava, perché nonna era felice lo stesso. Finalmente, quella casa si contava e non c’erano più ombre all’orizzonte. Un giorno, con la sua inseparabile mula che era una sorte di Francis “ mulo parlante”, quel giorno, nonno, si fermò in Piazza Alfandega, mi avvicinai e salutandolo, gli lanciai un messaggio affettuoso:

-Non dire niente, lo so, non è la ricchezza, e allora? Vogliamo fare la rivoluzione? Posso dirti una cosa? Io, la ricchezza l'ho conosciuta! Non mi è stato facile conquistarla e a volte per averla ho dovuto imbrogliare. Sono nato povero e come certa gente se avessi voluto, avrei potuto essere disonesto. Cosa che a volte ho fatto con l’amaro nell’anima. Ora, sono vecchio, povero e incoscientemente onesto e mi chiedo se ne valesse la pena! Quando ero piccolo, mio padre mi diceva:

-Figlio, la ricchezza è un furto e spesso, quest'arte, si tramanda di padre in figlio, come fanno i poveri con la miseria.

Ero giovane e a mio padre non davo ascolto e lui, sconfitto e deluso, mi lasciava correre a briglia sciolta, mentre io mi spezzavo le gambe. Adesso, dopo quello che ho vissuto, posso dirti che cos'è questa terribile malattia del voler essere ricco a tutti i costi. Ho salito e disceso la scala del bene e del male, sono stato Re Mida e il suo contrario. Poi, dopo complicate transazioni e mutamenti di pelle arrivò il tempo del rigetto e riscoprii l’onestà! Stronzate! Feci bene? Qualche volta, con nostalgia, penso a quei periodi di dolce follia! Quando tutto era possibile e tu, quando lo ritenevi opportuno, potevi sodomizzare il mondo. Sentirti perfino felice, ma adesso, perdute le squame della bestia, vivo meglio e di più questa mia nuova dimensione terrena. Tu nonno, per il momento contentati di quello che ti offre la vita. Lo so! Il tuo sole brilla anemico ma brilla! Mi ricordo che mi guardò di traverso e com'era solito, toccandosi tra le cosce. Non era e non fu mai un uomo facile e ancora una volta, in quel sogno mi scappò dalle mani. Nonno voleva cancellare dal suo cuore la realtà del suo passato e l'essere stato figlio di contadini. I suoi avi erano stati contadini ed erano nati prima di Dio e del diavolo e prima dei dinosauri, anzi, lo furono e quell’idea lo faceva soffrire. Tutti i sogni della sua gente erano diventati cenere: la vita, la morte e il loro destino consumato, non gli appartenevano più e restavano solo illusioni. Aveva pianto tanto e riso poco. Aveva masticato le sue lacrime perché gli avevano rubato l'ingenuità d’un tempo. Qualcuno, lassù, aveva spento la luce nella stanza dei cento passi e lui, che da piccolo, s'era inventato un Dio a dimensione di bimbo, davanti a me, lo cancellava perché non era più e non aveva più bisogno di credere. Per colpa degli uomini, gli animali della terra erano diventati i suoi soli fratelli. Il suo cane, quando si separarono, aveva la sua stessa età e la medesima sofferenza negli occhi. La mula e il cane si accodavano a lui ed erano nitrire, abbaiamenti e parole, e quando, in campagna, li lasciava liberi di correre, loro lo ricambiavano e gli insegnavano a rispettare la natura. Questo accadeva in Sicilia e non in Brasile, dove aveva giurato di non avere un cane d’abbandonare. Perdonate a nonno e a me se non riusciamo a dimenticare. Quel giorno parlammo tanto e lui, tristemente sereno, disse:

-Cambiamo discorso!

Ed io non insistette, perché non ero lui. E ora cercherò di raccontare di suo fratello, l’ortolano della famiglia; il caro e simpatico Michele che, al contrario di nonno, lavorava la sua terra e poi, ogni mattina, con due cavalli e un grosso carro, che sembrava un camion, si metteva in cammino per rifornire i negozianti, e poi, come se non avesse lavorato abbastanza, faceva i mercati generali. Non era ricco, ma se si fosse contentato non avrebbe fatto una certa fesseria, ma di questo parleremo in seguito. Per adesso, lasciamo stare il successo di Michele e andiamo a vedere cosa sono diventati Michelangelo, Peppino e nostro padre. Come consumavano le loro giornate?

Andavano tutti i giorni in giro per cercare di capire la gente del quartiere e la loro lingua. Li avevo battezzati i tre moschettieri, ed io, il loro invisibile Dartagnan, pronto a correre in aiuto, ma come e quando? L'ora d’osare era arrivata per loro e per me che gli stavo dietro come un segugio. Anche se fino a quel momento avevano vissuto attaccati alla gonnella di nonna, piuttosto che correre fuori e vedere come affrontare le cose di tutti i giorni, e venne il momento e così, decisero di tentare una sortita kamikaze, presero il coraggio a due mani e partirono verso la zona minata. Bisognava andare in piazza Alfandega, che era la corte dei miracoli di Porto Alegre, il ritrovo di tutti i marioli d'ogni età. Quel giorno, Michelangelo, Peppino e Vincenzino entrarono nella piazza e si sedettero sul bordo della fontana, aspettando che qualche cosa accadesse. Col suo terzo occhio, quello dei figli di buona donna, Michelangelo scrutò quella variopinta e strana fauna umana, la pesò, senza bisogno di dover muovere il culo da quella comoda posizione. Dieci minuti gli furono sufficienti per rendersi conto chi fosse lo scugnizzo che comandava la piazza d'armi. Lo capì subito. Il capo dei capi era un piccolo mariolo che operava, agiva e comandava a dei mini straccioni, meno coraggiosi di lui. Quei bimbi, soldati del male e a volte, anche del bene, puntarono su Michelangelo e i suoi due nani di fratelli; io ero vento, non potevo fare nulla, ero invisibile! Quel gruppetto di bimbi di <MALAVITA> erano lustrascarpe, venditori di giornali e di biglietti della lotteria di San Paolo do Brasil. Il piccolo rais appena li vide, si fece avanti e poi, puntando gli occhi in quelli di Michelangelo, disse:

-Questo è territorio mio, la banda è quella mia e qui, comando io! Volete lavorare? Rivolgetevi a me! A condizione che obbediate! Capisci paisà?

Era un calabro - albanese di padre incerto. Michelangelo, senza nemmeno sprecare una parola, lo prese per la cintola del pantalone e lo sciacquò due volte nella fontana e poi, logicamente, si scatenò una breve battaglia che grazie all’arrivo di nonno, cessò subito. Egli li obbligò a fare la pace e a negoziare il diritto alla piazza. A poco a poco, Michelangelo e Peppino divennero i capi di quei piccoli marioli. Nostro padre era solo un piccolo moccioso che impicciava il lavoro e per questo, spesso, lo lasciavano a casa. Col tempo, si crearono nuovi equilibri: Michelangelo organizzò la vendita dei giornali e dei biglietti della lotteria, prendendo sotto il suo comando quattro ragazzini e del suo fratello più piccolo. Peppino divenne il capo di una banda di lustra-scarpe e il pericolo pubblico numero uno. Raccontavano che si batteva contro tutto quello che si muoveva e spesso, contro lo stesso vento, perché era gracile come una paglia, ma lui se ne fotteva e affrontava piccoli e grandi, tanto c’era sempre Michelangelo per spalleggiarlo. In quei frangenti c’era Vincenzino che si limitava a controllare, che nessuno rubasse la cassa. Peppino era una peste, ma aveva un grande cuore e un sorriso disarmante. Vinceva la diffidenza dei suoi interlocutori che spesso cadevano nella sua rete come le mosche nella tela del ragno. Nessuno gli resisteva e lui profittava dell'ingenuità del suo prossimo e portava tanti bei soldini a mamma Carmela. Alla fine d'ogni giornata di lavoro, tra furberie e piccoli imbrogli, rientravano a casa e alla presenza di nonna svuotavano le loro tasche sulla tavola da pranzo, facendo credere di aver versato tutto il ricavato della loro giornata di lavoro ma non era così, furbi e organizzati, i piccoli di nonna, avevano un nascondiglio nell’orto di zio Michele, dove, in un vecchio baule, depositavano una parte dei loro sacrifici. In quella cassa, c'era anche la prima lettera d’amore di Peppino per la sua bella Concita, lettera che non spedì mai! Ecco, come tutte le mattine, nella corte dei miracoli, passavamo le nostre giornate. Io, com’ero solito, m’incollavo a loro perché le loro scorribande mi appassionavano. Ero in un sogno, ma prima o poi, senza rendermene conto, mi avrebbero smascherato. Un mattino, mentre li seguivo come un’ombra, sentii che Peppino diceva a Michelangelo:

-Sento arrivarmi da dietro alle spalle un odore di sigaro che impesta l’aria, ma non lo vedo venire. Ahi, ahi! Ero io, con quel mio maledetto vizio di fumare. Dovevo fare attenzione a non scoprirmi e sopratutto non tentare il diavolo. Non mi restava che essere più discreto. Volete vedere che quel mio sogno stava per prendere i colori di una realtà possibile? E così, da quel giorno mi tenni più lontano e mi guardai le scarpe, sperando che non si materializzassero e si facessero catturare dalla banda di mini-lustrascarpe. Sapevo d'essere imprudente, ma non volevo privarmi del piacere di vedere all’opera Peppino e le sue tecniche. Operava come un Dio greco. Per vendere un biglietto

della lotteria di San Paolo do Brasil, le inventava tutte. Era capace della qualunque, nessuno l’arrestava, egli non era come Michelangelo. Le liti e gli insulti erano il suo pane quotidiano. I padri di famiglia temevano il suo vocabolario e i suoi colpi bassi. Quel piccolo uomo, che tutti chiamavano, mezza cartuccia, destava l’ammirazione dei frequentatori dei bar.

-Attenti a voi, “José il corsaro siciliano sta arrivando, si salvi chi può”! Bisognava vederlo all'opera. Entrava con un solo biglietto in mano e gridava,

- signore e signori, profittate e non fatemelo ripetere due volte, questo è il biglietto dell’ultima spiaggia, non perdete quest’occasione, la fortuna bussa una sola volta! Qualcuno che lo conosceva bene e non lo temeva, scherzosamente, gli rispondeva su per giù così:

-Ehi tu! José Cammarata &, se quel biglietto è fortunato perché non lo tieni per te?

-Ma siete proprio scemi, parlare con voi è come dare un mustazzolo( biscotto) ad un asino! Vedo che non avete capito:

Io sono ricco, non ho bisogno di questo denaro, sono un angelo inviatovi dal cielo che ha il potere e il dovere di farvi arricchire.

Poi, rivolto a quel buontempone che sperava di cavarsela a buon mercato, gli s'avvicinava:

“Se non vuoi comprarlo chiudi quella tua boccaccia che sa di chiacchiere e lasciami guadagnare da vivere, sparisci!”

Dopo il giro dei bar, andava nello studio del signor Caligaris che gli insegnava a fotografare. Ogni domenica, lo portava con sé nelle colline di Porto Alegre, per fotografare di tutto, perfino il volo di un minuscolo colibrì. Al ritorno, inquadrava quelle belle foto che la domenica dopo cercava di vendere tra una lustrata di scarpe e un biglietto della lotteria. Nei giorni di mercato che si svolgeva nella piazza accanto a quello del pesce, i nostri tre piccoli eroi arrivavano col loro carrettino a palline, caricavano gli scarti di verdura e li vendevano per pochi soldi, agli allevatori di conigli e polli. Le loro giornate erano lunghe e Peppino, con la sua magia, sapeva renderle ancora più lunghe e piacevoli. Poi, se il sole lo permetteva, correvano a bagnarsi nelle acque torbide del Rio del Sol che era talmente largo che non riuscivi a vedere l’altra sponda, né il fondale. Le spiagge erano immense distese di sabbia dorata, ora non lo sono più e hanno i colori di un nuovo tipo di miseria e sporcizia. I pesci, grossi e ben pasciuti, nuotavano indisturbati, perché nessuno li pescava e la cosa intrigava mio padre che trovava strana, quell’attitudine rinunciataria dei suoi fratelli. Si guardò intorno e vedendo che nessuno aveva la canna in mano, si disse:

-Gatta ci cova! Bisogna prendere la situazione in mano. Quanto sono stupidi i miei fratelli che continuano a rompersi la schiena a lustrare scarpe e a correre da un bar all’altro? Qui, con tutto questo pesce, c’è da far fortuna!

-Domani romperò il mio salvadanaio, comprerò una canna da pesca, prenderò in prestito un paniere di mamma e verrò qua, per diventare ricco a palate. E mentre lui fantasticava, più in là, Peppino e Michelangelo, stesi sulla sabbia e all’ombra d’un albero di cocco, facevano sogni di tavole imbandite e letti di rose. L’indomani, il nostro piccolo papà si preparò per la grande avventura. Arrivò con canna e paniere e si piazzò su uno scoglio ai piedi del collettore della cloaca cittadina. Era talmente emozionato che non guardò bene quello che succedeva in mezzo alle acque sporche del fiume. Per lui, in quelle acque c'erano solo pesci e nient’altro. Non vide la merda che arrivava dal collettore, non vide nemmeno gli enormi topi che sembravano castori e si battevano contro i cefali per conquistarsi un piatto di feci umane. Michelangelo e Peppino non gli dissero nulla, lo lasciarono fare e lui pensò che quella loro apparente indifferenza, altro non fosse che indolenza e invidia. Si alzarono e lo lasciarono solo per correre ad avvertire la mamma. Un’ora di pesca appena e il paniere, stracolmo di pesce argentato, gli fece gridare: Evviva! Bastava, si levò e si avviò verso casa. Non vedeva l’ora di raccontare tutto alla sua mamma. Felice come una pasqua, trascinava dietro di se quel carico di pesce contaminato.

I suoi fratelli, seduti sui gradini di casa, vedendolo arrivare gridarono:

- mamma! Un carico di morte sicura arriva!

Bisognava vedere come ridevano e seminavano il dubbio nel cervello del piccolo Vincenzino che cominciò a tremare e a temere l’irreparabile. Nonna si piantò sulla porta e vedendolo arrivare, mise le mani ai capelli. I suoi occhi divennero di fuoco fulminandolo sul posto. Lo bloccò a dieci

metri dalla casa e là, il nostro piccolo papà capì senza bisogno di chiedere.

Alzò gli occhi verso sua madre e col suo solito candore le disse:

-Guardate quello che ho preso per voi: questo pesce è per venderlo, una volta terminato, andrò a pescarne dell’altro, e lo diceva “con le lacrime agli occhi”. Nonna si avvicinò al suo bambino adorato che, senza ritegno, le stava davanti lacrimando come se fosse la riviera dei dannati. Le mamme, a volte, a fin di bene, devono far piangere i loro bambini, anche se questi si chiamano (Vincenzino sette bellezze). Gli strappò il paniere dalle mani, lo prese per un orecchio, lo spogliò, riempì una gran tinozza d’acqua e varechina e lo infilò dentro, come se si trattasse di un animaletto infettato e mentre lei lo lavava, i suoi fratelli ridendo gli dicevano: “Ti sta bene!” Nonna, con dolcezza e tanto amore, gli parlò e gli spiegò i rischi di quella sua miracolosa pesca.

“Vincenzino mio, lo sai cosa hai fatto? Poi, guardando gli altri due figli che non l’avevano bloccato, sospirando disse:

-Qui, lo sanno tutti e conoscono le ragioni per le quali nessun pesca. Piccolo Vincenzino, questo pesce mangia tutti i rifiuti della città, ma l’hai visto i topi?

-Sì mamma, credevo che stessero giocando con i pesci; mi devi scusare non lo farò più! Lo giuro!

E fu così che i primi sogni commerciali di papà s'inabissarono nelle acque torbide di quell’immenso fiume a rischio. A partire da quel giorno e per una settimana intera, nostro padre non fece parola con i suoi fratelli e seppellendo il suo sogno di ricchezza nell'anima, si sdraiò al sole, lontano dai suoi fratelli. E visto che conosceva i loro sogni, si lasciò cullare, anche lui, da Morfeo per ottenere la sua parte di “letti di rose e tavole imbandite”.

 

Quinta parte       [torna all'indice]

1895, l’acqua del fiume inondò gli orti dello zio Michele che, preso dal panico, mandò a cercare nonno da un amico comune, che aveva una vecchia barca che teneva appena a galla e insieme, andammo a prestargli aiuto. Michele, sua moglie, sua madre e i loro piccoli stavano appollaiati, come uccelli impauriti, sul tetto della casa. Grazie ad una lampada a petrolio, li vedemmo e li recuperammo. Poi, vennero a casa nostra, dove rimasero ospiti per tutta la durata dell’inondazione. Il 15 febbraio dello stesso anno a nonna Carmela vennero le doglie, di lì a poco, sarebbe nata la zia Giuseppina, la madre delle Sanfilippo. Il parto si presentava male e noi perdemmo la tramontana; bisognava chiamare un medico, ma fuori c’era il coprifuoco, era il tempo delle lotte politiche tra diverse cosche di potere. Anche in quella terra di pseudo/libertà c’erano ribellioni e disordini sociali. Fuori faceva buio, qualcuno doveva andare e cercare aiuto. Nonno, senza pensarci su due volte, tirò fuori il suo vecchio ronzino, montò a cassetta ed io con lui. Una banda di rivoltosi c’intimò l'alt e controllandoci come se fossimo noi i criminali e non loro, ci chiesero i documenti, ci maltrattarono e ritardarono. La corsa contro il tempo era appena incominciata. I rivoltosi, dopo essersi divertiti con noi che non parlavamo la loro lingua, ci lasciarono continuare e ripresero a saccheggiare i negozi e le banche. Trecento metri più in là, una pattuglia di regolari ci bloccò e ci fece rialzare le braccia, e patatim e patatam, ci fecero lo stesso giochetto:

- Chi siete e dove andate. I trecento metri che avevamo percorso non erano bastati per farci

apprendere quella loro lingua incomprensibile. Nonno cercò di mimare la gravidanza di nonna. E così, grazie alla comicità e alla gestualità di nonno, ridendo come matti ci lasciarono andare. Intanto il tempo passava inesorabilmente e mentre noi correvamo, nonna, sola a casa, con i suoi maschietti impietriti dalla paura aspettava, con l'aiuto di Dio o degli umani, che nascesse la sua piccola. Tanuzza sapeva della gravidanza di Carmela e non muoveva un passo per correre in soccorso della nonna. Filippo, avvertito da nonno, l’aveva supplicata di andare ad aiutare la cognata, ma lei aveva detto no e poi no! Mentre nella casa dei nonni s’aspettava che un aiuto arrivasse dal cielo o da chissà dove, la piccola Giuseppina, ignara creatura a venire, con le mani e con i piedi si apriva la strada verso la vita. Nonna era in una pozza di sangue, mentre la bimba scivolava adagiandosi tra le cosce della madre. Caddero dal letto e fu in quella posizione che noi e l’ostetrica li trovammo in una grande confusione di sangue e col cordone ombelicale che le univa ancora. Un’ambulanza a cavallo giunse e le condusse all’ospedale della Santa Casa, dove rimasero per oltre un mese. Poi, nonna rientrò a casa e trovando il disordine e la sporcizia che aveva invaso l’ambiente, buttò fuori tutti ed io e il nonno ci ritrovammo in mezzo alla strada, certi di averla fatta grossa. Nonno era troppo fiero del casino che aveva combinato e convinto di aver ragione, mi disse:

-“Futtemaninni”Andiamoci a fare un bicchiere!

Quella sua sparata mi fece pensare a Totò che spesso diceva:

-Siamo uomini o caporali!

Ridendo amaramente e camminando come due incoscienti, raggiungemmo i gradini della chiesa del Cristo Re e là, nonno, alzo gli occhi al cielo ed io gli domandai, come sempre:

- Perché?

-Che t’importa! Lasciami in pace!

-Ti ripeto la questione:

Perché guardi verso il cielo?

-Perché? Sono affari miei e tu piuttosto perché mi giri il biscotto nel latte e non trovi le risposte che cerco alla vita e alle cose? Tu non m’aiuti, non sai fare nulla, poni solo questioni e non mi dai, nessuna soluzione. Vai via! Tu mi stanchi e mi esasperi, non mi lasci più riflettere né decidere in pace.

-Calma! Scendi dalla tua mula e rispondimi con pertinenza, perché guardi verso il cielo?

-Perché? Vorrei sapere quanto tempo devo restare a guardare il cielo e poi, alla fine della corsa, capirò Dio oppure no!

-Nonno, perché lo vuoi sapere? Non lo sai? Se non lo sai ti dirò io perché devi farlo! Devi farlo per mille e una ragione e poi, con o senza il torcicollo, Dio t'entrerà dentro all'anima. Tu vuoi sapere sempre tutto e intanto ti complichi la vita. Perché vuoi sapere quando e come? E' da tempo che avresti dovuto sapere che non c’è più nulla da capire! Non credi che dovresti far prova d’umiltà? Nessuno sa cosa c'è dietro alle verità assolute. Lo sai o no, quanti grandi uomini migliori di te hanno sacrificato la loro vita solo per avvicinarlo. Io non ho mai capito la ragione della sua esistenza, ma tuo figlio Vincenzo si! Devi sapere che lui farà di me un miscredente. Quindi su queste cose sono vaccinato e ti capisco, ma non posso darti ragione. Sei piccolo, minuscolo e ti prendi i piedi nella merda. E quello che gli dicevo, era vero. Nonno era duro di comprendonio e il fuoco delle mie questioni non arrivava a cuocerlo. Era fuori di se ed io, stanco e usato, lo lasciai dire:

-Smettila! Le tue chiacchiere m’incasinano il cervello.

- Nonno, non parlare cosi forte, la gente potrebbe sentirci, non vedi che ci guardano già?

-Nipote, lasciami in pace! Questo Dio se ne frega dei miei problemi, e la gente pure!

-Non ti capisco, da un lato l’accusi e dall’altro credi sempre in lui. Fammi il piacere, visto che sei sempre stato un buon cristiano, chiedi perdono, implora la sua misericordia e vedrai che forse, s'occuperà di te e dei tuoi cari. Natale è prossimo, prepara il presepe e trasforma i pastorelli in memorie d’amore e felicità. Non dimenticare quello che avevi promesso il giorno del nostro arrivo. Io non l’ho dimenticato. Questa che tu chiami terra di contraddizioni, ti fa vivere e potrebbe insegnarti a ritrovare la tua dignità o farti guadagnare di più e meglio.

-Nipote mio, non è questa terra né i suoi indigeni che mi fanno paura, ma la miseria atavica che mi

accompagna. Tu forse non lo sai, ma la miseria e la ricchezza sono come gli stronzi, non hanno nazionalità e non sono privilegio di nessun popolo. Questi due flagelli si manifestano sempre allo stesso modo e quando meno te l’aspetti. Nel mio caso specifico mi precedono e si siedono al posto mio e poi, quando arrivo mi guardano, mi scimmiottano, mi sfidano e mi sottomettono. Sono loro, le mie miserie ataviche; ( la ricchezza e la povertà? L'una mi scansa, l'altra mi possiede, mi fa schiavo e diventa il testimone dell’eterna staffetta di tutti i Miei ). Ogni volta che mi precede, con faccia da vincente, lo dice:

- Andatevene via, qui, per voi non c’è posto e per i vostri figli, nemmeno.

Hai capito nipote mio? Arrivo sempre fuori tempo massimo, tardi! E a me, non resta che spazzare le merde. Sai una cosa? Ho conosciuto la miseria siciliana e la credevo unica, ora so che è multipla, apolide, vola nell’aria come tante altre cose e ora, me la ritrovo qui, che si prende gioco di me e ride della mia disperazione. Arturo, cosa mi rispondi?

-Ti rispondo, dicendoti che ho le tue stesse paure e Il mondo nel quale viviamo è abitato, in gran parte, dai pescecani. E’ facile smarrirsi e perdere i suoi cari e tu, caro nonno, accetta la tua realtà, vivi in armonia con la tua donna e con i tuoi figli e non dimenticare una cosa molto importante, tu vivi in un’epoca nella quale esiste ancora il rispetto tra padre e figli, e ora, vuoi sapere un'altra cosa? Stammi bene a sentire:

Mi hai rotto, mi hai stancato! Smettiamo di arrovellarci il cervello e restiamo con i piedi per terra. Da parte mia, ti dico grazie per questo bellissimo sogno che, nonostante la tua disperazione, sei riuscito a regalarmi. Questa avventura virtuale mi permette di fare il pieno di tutta un’epoca e mi apre gli occhi su tutti i problemi che hai saputo superare, ma disgraziatamente, questa nostra pazza storia è solo un sogno e nient’altro e non posso venirti in aiuto. D'altronde, anche se tu lo volessi, non potresti raggiungermi nella mia epoca. Qui hai troppe responsabilità. Consolati, noi non saremo mai migliori di voi e adesso ti prego di restare l’immagine coraggiosa e impavida che mi ero fatta di te e di tutti i tuoi figli. La tua epoca e la terra che hai calpestato non si possono dimenticare mai. Bella terra di Sicilia, dove una volta il divino si confondeva con l’umano e creava gli equilibri più scombinati del mondo. Il modernismo ha travolto tutto. Lasciamo stare questi momenti di tristezza e se puoi, parlami di tuo nonno. L’hai conosciuto? Da quello che ho potuto leggere nel diario di tua figlia Giuseppina si racconta che egli giunse da Sutera con moglie e due figli. E' vero che uccise due uomini malavitosi e uno dei suoi figli?

-Chi ti ha raccontato questa storia strampalata? Credo di sapere e capire come sono andate le cose: tua zia Giuseppina stava sempre tra le gonne della sua nonna. L'imbroglio fu facile e poi ci si mise pure mia moglie, con le sue ragioni di stato, le sue paure e la sua versione dei fatti. Mia madre per proteggere la memoria del suo uomo, il focoso Michelangelo, cercò di nascondere quei crimini.

Perdòno mia madre e mia moglie, ma non mio padre, che non fu uno stinco di santo e non smentì tutte quelle falsità. Adesso, se sai ascoltare e non m’interrompi, ti racconto come andarono i fatti:

Mio nonno non uccise nessuno e non lasciò mai il suo paese di San Cataldo; egli ebbe un solo figlio e quello fu mio padre che, fino all’età di 26 anni, visse nel villaggio di mio nonno Michele. Poi, nel bel mezzo d’una grande battaglia politica dell’epoca, ferito nell'onore, uccise due rivali. Per non essere giudicato e condannato all’impiccagione, scappò, ma dove poteva andare? Andò a Raddusa, ove c’erano gli zii. Arrivò con le tasche piene di soldi e venti teste di bestiame in quel villaggio che, col tempo, sarebbe diventato il nostro. Come vedi e puoi capire fu per disgrazia e per un destino crudele che uccise il mio fratellino Salvatore. Quel dramma lo rese pazzo e la nostra vita e la sua divennero un inferno. Passò gran parte della sua esistenza chiuso nel suo dolore, lontano da Dio e dagli uomini. Noi tutti, in famiglia, cercammo, senza riuscirvi, di costruire un muro intorno a lui per proteggerlo e per evitare che la gente gli facesse altro male. Adesso che il tempo e la morte hanno cancellato tutto possiamo parlare e perdonare l’uomo. Mio padre non fu un essere perfetto, ma chi lo è in questo mondo? Io, tu, gli altri? Quando ritornerai sull’isola d’Arturo, riprendi la tua penna, intingila nei migliori degli inchiostri e poi scrivi come ti detta il cuore questa storia ordinaria ma vera.

La nostra conversazione si esaurì ed io, andai in Piazza Alfandega a vedere cosa stavano combinando i miei zii e mio padre. Vicino alla fontana, c'era solo Peppino che si batteva contro un ragazzo più grande e più forte di lui. Il mio piccolo zio stava per avere la peggio e Michelangelo non era lì per difenderlo. Bisognava intervenire, mi gettai nella mischia, sicuro che avrei acchiappato il vento, ma non fu così e seppure a stento riuscii a separarli. Cosa mi stava accadendo? Non era possibile, avevo afferrato il pirata, quel piccolo mariolo? Volete vedere che la voce del sangue e la necessità del momento stavano per farmi materializzare? E ora? Sentivo che sarebbero stati momenti d'imbarazzo! Zio Peppino che non sapeva chi fossi, senza pensarci su due volte, mi rifilò un calcio in uno stinco e mi fece gridare:

-Eh m.....! Piccolo delinquente, lo sai chi sono?

Ma potevo dirglielo? E no, che non potevo! Mi avrebbe riso in faccia. L'afferrai per un braccio e lo costrinsi a seguirmi verso casa. Si calmò e poi si finse docile ed io, come un imbecille, allentai la presa ed egli mi scappò come un’anguilla. Lui avanti ed io, a corrergli dietro come in una comica d'altri tempi che di lì a poco si sarebbe trasformata in tragedia. Il tram arrivò su di lui e Peppino, vedendo che stava per fermarsi, non solo non l’evitò, ma ci andò a sbattere contro. Quel commediante si lasciò cadere, inscenando una pantomima degna del più grande dei mimi. Gli fummo tutti intorno, passeggeri e passanti, col cuore sospeso, mentre lui, si fingeva morto. Ma non mi lasciai ingannare, lo presi in braccio e lo portai a casa. Nonna mi vide arrivare, e si! Ormai ero visibile a tutti. Credendomi un poliziotto, mi chiese:

“Cosa ha fatto stu curnuteddu”.

-Nulla nonna!

-Nonna! E cavolo,avevo detto nonna!

-Mi scusi signora, è che il suo volto mi ricorda una persona cara, mia nonna. Poi sentendomi parlare italiano e visto il mio abbigliamento ultra-moderno, pensò, che fossi un eccentrico turista sbullonato. Nonno mi vide e riconoscendomi, mi strizzò l’occhio, facendomi segno di tacere. Obbligò tutti a sedersi intorno alla tavola, mentre io disposi Peppino sul letto; gli sfilai la scarpa e constatai che il piede era gonfio, ma era solo una macchia di sangue pestato, qua e là, un ematoma e nient'altro. Mi sedetti anch’io e aspettai di vedere, cosa avrebbe inventato per farmi accettare dai suoi familiari e che cosa gli sarebbe scappato dalla bocca. Tutti, anche i più piccini, volevano sapere chi ero e da quale pianeta venivo e se ero un amico della famiglia, un parente o altro. Cosa avrebbe raccontato? Gli ci volle oltre un’ora e alla fine di una lunga spiegazione, alla quale nessuno volle credere, mi accettarono per quello che non ero: uno straniero, amico di nonno. Io, nel mio cuore, sperai che almeno nonna si rendesse conto chi ero, riconoscendomi come sangue suo. Avevamo, quasi dimenticato Peppino, che ascoltava incredulo quella strana storia che raccontava il suo papà. Eccolo che risuscitava:

“Io sto morendo e voi discutete di questo Coso qui, che mi ha spinto contro il tram; smettetela e

aiutatemi, non vedete che il dolore mi sta mangiando vivo?” Per la cronaca, quel Coso ero io. Nonna scoppiò in lacrime e gridò:

All’ospedale, all’ospedale! Presto, non vedete come soffre. Lo guardai arrabbiato e lui capì che non ero pane per i suoi denti e in quell’istante preciso, avrebbe voluto vedermi sparire. Mi avvicinai al suo letto e lui, credendo che stessi per mollargli un ceffone, levò la mano in segno di difesa. Mi abbassai, quasi a sfiorargli il viso e gli dissi:

-Non temere, non ti denuncio, sono il tuo più grande ammiratore, conosco tutte le tue imprese e anche quelle a venire, come quando, vecchio e disperato, morirai come un cane arrabbiato. Ma lui, finse di non capire e mi strinse forte il braccio, dicendomi:

-Cerca d’essermi amico, con me ci si guadagna sempre. Ti piacciono i sigari Avana?

Che mascalzone, mi conosceva appena e sapeva già che fumavo e conosceva la marca dei miei sigari. Che figlio di una buona donna! La caviglia non era spezzata, era solo una slogatura, un travaso di sangue. Il medico arrivò, lo visitò, raccomandandoci di fare una visita più approfondita all’ospedale. Nonno aveva un compare barbiere che come si usava in Italia, vendeva le sanguisughe: fu mandato Michelangelo e dopo un poco, ritornò con tre bestiole che applicammo sulla caviglia del pirata che rimase inchiodato al letto per una settimana intera, con la caviglia fasciata. I lamenti artistici durarono sette lunghi giorni, sette volte più che lo sbarco in Normandia. Fu servito come un piccolo dio pagano della Patagonia. Tutti intorno a lui, a coccolarlo e imboccarlo. Volle e ottenne una stampella, grazie alla quale, sperava d’esibirsi e farsi ammirare alla corte dei miracoli. In strada vide arrivare il tram, a bordo lo stesso conduttore dell’incidente che minacciò, col segno di una stampella in testa e il manovratore, che lo conosceva bene, ricambiò l’insulto.

Nell’1896 nacque lo zio Salvatore. 1898, la bella Rosina. Talmente bella che nonno non voleva crederci, tanto che si domandò:

-Come è possibile che dopo un figlio bruttino come Salvatore, mia moglie abbia potuto scodellarmi una bambina cosi bella?

Nonno Otello si grattò la testa meditando sanzioni, ma non fece nulla.

Nel 1899 Peppino aveva 9 anni, era il giorno del suo compleanno ed io passavo non lontano da lui. Lo vidi di spalle, ma lo riconobbi subìto, la sua sagoma troneggiava al centro della piazza dei miracoli. Si teneva in piedi come un personaggio d’operetta. Solo Dio poteva sapere dove aveva trovato quegli indumenti! A piedi nudi, come un anatroccolo nel suo elemento, pantaloni di velluto nero arrotolati e portati alla zuava, una camicia di seta bianca, stropicciata e legata a mò di cintura sul pantalone, un foulard di raso rosso, come quello di mio fratello Rodolfo sventolava intorno al suo minuscolo collo, sul capo un panama consunto dal tempo e dal sole, nella mano destra un grosso sigaro avana e nella mano sinistra una scatola di fiammiferi di legno. Voleva e credeva, d’essere solo con la piazza che sentiva tutta sua. Portò il sigaro alla bocca e poi lo morse con avidità, strappò la punta e la sputò per terra come un veterano di mille e più sigari, ma in realtà, quello era il suo primo sigaro e forse anche l’ultimo, ed io che ne fumai tanti, capii le sue manfrine che sapevano di teatro dei poveri. Accese il sigaro e subito un’aureola di fumo aleggiò sul suo capo e me lo fece apparire come un diavoletto-angelo, in cerca di gloria. In quel momento preciso, il fotografo Calligaris passò di là per immortalaro a perenne ricordo di uno scugnizzo lustrascarpe che si prendeva per un ricco piantatore di banane. Nessuno sapeva di quella foto, ma un giorno all’apertura della fiera del bestiame del 1904 la sua immagine avrebbe fatto furore. E quel giorno arrivò e i nonni ci portarono a vedere quello che sarebbe stato uno spettacolo da non mancare. Prendemmo il tram, con noi vennero anche zio Michele e la sua famiglia. L’esposizione fu spettacolare e zia Giuseppina, nel suo diario, raccontò quanto segue:

-C'erano tutte le bestie da macello, molte erano strane e curiose, la natura s'era scapricciata.

- C’erano la gallina con due teste e tante altre stranissime bestie. Posso confermarlo perché quel giorno c’ero anch’io. Per la zia fu un grande spavento e per anni, tutte le notti, la gallina con due teste le apparve in sogno. La cosa più strabiliante fu la visione di tre enormi cartelloni: nel primo c’era il presidente del governo, nel secondo per ordine d’importanza, quella del sindaco della città e nel terzo, quella di zio Peppino a piedi nudi e col panama in testa. La folla che guardava, non

aveva occhi che per José Cammarata e quando arrivammo, gli scugnizzi della piazza dei miracoli, vedendoci, gridarono: viva il presidente e José Cammarata, trascurando il sindaco che si era dato tanto da fare per realizzare la fiera. Nonno era felice, era come in cielo. Fiero come non mai, prese per mano il suo celebre figlio e dimenticandosi di noi, se n’andò di qua e di là, pavoneggiandosi per tutta la durata della visita, esibendo quel suo figlio celebre. Finita la festa, rientrammo a casa, contenti e gelosi del successo di Peppino. Camminando fino alla fermata del tram, tenni mio padre per mano, senza riuscire a dire:

- Vieni con me e parliamo un po’! Due settimane dopo, Michele, i suoi e la madre decisero di rientrare in Sicilia. La vecchia elefantessa, Giuseppina Falzone, sentendosi prossima alla fine, volle raggiungere il suo Michelangelo per stendersi e morire accanto a lui. Tre mesi dopo la fiera, nacque Santino che si chiamò così a causa del giorno di tutti i santi. Il suo padrino sarebbe stato il comandante della capitaneria di porto. Quel figlio era ancora più bello di Rosina: capelli biondi e occhi azzurri. Lo battezzammo a Natale. Nonna, apparecchiò al centro della sua bottega una gran tavola e una tovaglia di broccato, le verdure nei panieri lasciarono il posto a taralli e tarallucci; una botte di vino si lasciò svuotare per inebriare gli invitati; addossammo alle pareti della stanza sedie in quantità sufficiente. Il padrino e la madrina fecero venire quattro marinai in tenuta di gala, giusto per fare il servizio della festa. I suoi cucinieri prepararono un’enorme dolce a forma di nave. Lui e la sua sposa elegantemente vestiti fecero un ingresso trionfale. Mai prima d’allora, i nostri nonni avevano ricevuto tanto onore. La madrina mise intorno al collo di Santino una catenina d’oro con una croce e un corno di corallo rosso che sembrava un peperoncino. Il padrino offrì un libretto di risparmio con dentro, non ricordo quanto denaro. Poi, in corteo, andammo in chiesa e dopo il battesimo, su carrozze infiorettate, a visitare la capitaneria del porto. Nonno, nonostante una vita piuttosto movimentata, non aveva motivi per lamentarsi. Ma era più forte di lui e riparti come nel 48, a rompere le scatole e a prendersi i piedi nella merda. Anche lui, come suo fratello Michele, voleva ritornare in Sicilia. I suoi figli dovettero apprendere la lingua italiana che non aveva nulla a che vedere col nostro dialetto. Il padrino di Peppino aveva un fratello che era professore d’italiano. Quale occasione migliore per risparmiare sul prezzo delle lezioni? I figli di Carmela e Cristofaro Cammarata seguirono corsi accelerati di lingua italiana. Nonno non contento rincarò la dose e pretese che imparassero anche la storia d’Italia e le sue origini. Francamente, metteva il carico da 11 e lo faceva per vendicarsi della sua atavica ignoranza. I figli, spaventati, furono presi dal panico e Michelangelo fu delegato a parlare in nome di tutti: maschi e femmine. Solo nonno sapeva quel che gli passava per la mente. E zio, sempre con rispetto, si rivolse al padre:

- Perché non volete ascoltarci. Non crediate che non mi renda conto della vostra fragilità e dei motivi, veri o falsi, che vi spingono a prendere questa decisione. Fermiamoci ancora per un certo tempo, anzi, cerchiamo di mettere radici per sperare e vivere. Non riportateci su quella terra ingrata. Siete voi che l’avevate detto, il giorno che siamo partiti per venire qua. Il Brasile è la nostra patria, il suo popolo ci apprezza e la samba, ci sembra più dolce delle vostre tarantelle; tarantella rima sempre, con morte violenta, con mortadella. Lasciateci realizzare i nostri sogni. Siamo sicuri che se restiamo, possiamo riuscire le nostre vite. Miracolo! Non saprò mai cosa gli fece cambiare idea, Nonno si quietò e per un certo tempo lasciò correre, ma sicuramente lo faceva per calmare le acque, fingendo una quiete che non era tale e poco tempo dopo fu tempesta, collere e dubbi. Venne la stagione dei meloni e tutti gli angoli della casa si riempirono di quei frutti enormi. Un giorno sotto la scala che portava all’ammezzato, scoprii mio padre e sua sorella Giuseppina, intenti a sbafarsi un bel melone. Mi scambiarono per nonno e il mio papà, intimorito, cercò di nasconderlo sotto la gonna della sorellina. A causa del mio accento, papà, che non mi accettava ancora come suo figlio, mi chiamava il cugino di Francia e volutamente mi ignorava. Alzò gli occhi verso di me e mi disse:

-Ah! Sei tu? Cosa vieni a fare qui, tirati! Pussa via e soprattutto non fare la spia! Lo guardai teneramente, cercando di parlare a bassa voce per chiedergli di noi due e di cosa saremmo stati l’uno per l’altro.

Papà rise e replicò:

-Non credi di essere un po’ in anticipo? Credi proprio che sia il caso? Lo sai o no, che sono un

bimbo e che, con i tuoi discorsi, potresti traumatizzarmi?

-Papà; per un attimo esci da questo tuo mondo infantile e ritorniamo in via del teatro massimo n ° 17.

-Va bene, se è quello che vuoi, parla mio vecchio figlio, il tuo papà bambino ti ascolta, cosa vuoi sapere?

-Dimmi, perché mi hai chiamato Arturo? E’ vero che mi hai imposto il nome d’una stella che brilla nel firmamento della costellazione della Venere? Forse non sai nemmeno la ragione e senza rendertene conto, mi hai regalato la stella sbagliata. Sai che brillerò poco e oscurerò anche la tua vita? Vorrei che tu sapessi, che con le tue idee a venire farai diventare un ateo impertinente e rompi scatole e che diventerò un possibile illuminista. So per certo che nonostante la pena che ti darai, non riuscirai a spiegarmi né a farmi capire i mille perché della vita e della morte.

A quel punto della nostra conversazione, egli cambiò d’aspetto e me lo rividi, davanti a me, vecchio e serio, come quando, avevo vent'anni e lui 60 e passa. Seduti nel suo salotto di vimini di quel suo strano ufficio, a metà strada, tra la cellula del partito comunista e un’agenzia di trasporti, parlando e seppellendoci nelle nostre illusioni che duravano e ci facevano dibattere senza speranza. Una premessa è d’obbligo, prima di continuare con queste pagine deliranti, una breve raccomandazione: So che non è facile raccapezzarsi tra questi miei strafalcioni e con questa storia mi arrampico sugli specchi, non sapendo se riuscirò mai a trovare la buona filiera, per raccontare meglio di così, ma voi e solo voi, la mia famiglia, potete darmi una mano. Perdonate certi dialoghi; il fatto è che non sono una cima. Riuscire a complicare le cose è stata sempre una mia specialità. Ridete di pure di questa mia storia, oppure smettete di leggermi o continuate e aspettatevi di meglio o di peggio. Per la prima volta da quel sogno, ero in faccia a mio padre che stava per rispondermi, come sapeva fare solo lui:

-Figlio mio, questo doveva essere il tuo destino; come avrei potuto cambiarlo?

-Caro papà, tra noi, sarà sempre così. Tu risponderai sempre alle mie domande, con altrettante questioni. Solo tu sai e potresti migliorare la mia vita. Io non lo so, papà!

-Perché. Tu che dici d’essere mio figlio hai capito qualche cosa dalla vita?

-Non molto, ma tu si! Ne sono certo e quel giorno verrà. Non lo so quando, ma sono certo che farai qualcosa per me. Non ce la faccio più, aiutami!

-Caro Arturo, mi auguro che tu non diventi veramente mio figlio perché dai tuoi discorsi immagino quello che mi farai vivere e nel caso che tutto è come tu racconti dovrebbe accadere, sappi che sei veramente incasinato. Credi e non credi in Dio. Parli di tutto e di nulla. Vuoi sapere e conoscere. Il male e il bene determinano il bisogno dell’esistenza di un Dio invisibile che crea il mistero dell’essere e non essere, è questo il tuo problema? Un Dio di comodo, si è lasciato inventare dagli uomini per farci credere in un equilibrio precario ma indispensabile. L’importanza di questo credo è che Dio avrebbe creato tutto, inventando anche l’impossibile. Egli avrebbe dovuto essere l’artigiano assoluto della vita e delle cose, ma non è stato così e tutti quelli che credono in Lui, si lasciano affascinare e soggiogare, dai misteri della fede!

Quale altra domanda potevo porgli? Insistetti ancora e gli chiesi un'altra cosa e poi promisi che avrei smesso di disturbarlo:

-Perché crescendo e imparando dirai che Dio non esiste!

-Te lo dirò, come 4 e 4, possono fare anche otto: Dio non esiste perché ci sono troppe ingiustizie, perché la vita è fatta male e malgrado certi risultati, la gente si attacca alla vita e ci tiene. Ci ancoriamo ai nostri figli, più che alla propria donna. Come potremmo credere in un Dio che, se esistesse veramente, non sarebbe così com’è! Come si può accettare un Dio che ti riempie il cuore di grandi sentimenti d’odio, di contraddizioni e poi, per l’intervento dei suoi ministri, cerca di farti credere che non puoi nulla contro i suoi messaggi divini che spesso, portano morte e distruzioni. Per me Dio non esiste perché credo solo in quello che vedo ed io lo conosco questo Dio invenzione degli uomini.

-Allora, papà, i preti mentono?

-Si, mentono e come camaleonti, seguendo la storia dell’umanità, inventano e interpretano, con la divina ipocrisia del momento storico, alchimie complicate. Si nascondono dietro ai vangeli e con molta bravura, levano o aggiungono, a piccole dosi, strani e diversi sentimenti, nelle nostre anime e nelle nostre teste. Come puoi capire, i giochi sono fatti e l’uomo cade nell’ingranaggio delle illusioni. L’umanità perde la luce delle verità assolute e precipita nel pozzo senza fondo delle paure e dell’ipocrisia. Spesso, per colpa di ciò, i rimorsi e gli scrupoli, diventano amari per tutti.

-Papà, parlami, della fede e della ragione!

-Dove la fede non può arrivare la ragione ci riesce!

-E la libidine?

-E quannu ci là finisci?

-Ancora un’altra domanda e poi ti lascio in pace.

-Ti risponderò, in dialetto siciliano: (tira chiù assai, un pilu di sticchio, cà un paru di buoi, attaccati alla carretta!) ( tira più un pelo di passera che una coppia di buoi attaccati al carro).Ti basta!

-Dimmi ancora, è vero che Dio non paga il sabato?

-E' vero! Non paga il sabato e nemmeno il resto della settimana.

-Che cosa pensi di quelli che credono in un’altra vita?

- Un’altra vita non c’è. Nessuno dei nostri morti si è mai messo in contatto con noi.

-Grazie papà, non mi servono altre spiegazioni. Me la dai una fetta di melone?

Sesta parte

Ci lasciammo come padre e figlio e non più come cugini. Appagato e quasi felice, uscii e andai al

bar, dove incontrai nonno che stava bevendo un bicchiere di vino rosso di Calabria. Nonno, com'era il suo solito, aveva i nervi a fior di pelle, il vento della calunnia continuava a bussare alla porta della sua disperazione. Alcune malelingue raccontavano che Rosa e Santino non erano figli suoi e il padre non poteva essere altri che il polacco che abitava dietro la loro bottega. In quel dramma Shakespeariano, la parte di Jago la recitava Tanuzza d’Aidone. La cognata conosceva il carattere di nonno e sapeva che sarebbe bastato poco per farlo ritornare in Sicilia. Tanuzza voleva distruggere l’esistenza di nonna per ragioni antiche e note solo a lei, quale occasione migliore per liberarsi di lei? Furba e malefica, non le fu difficile far circolare la calunnia e scombussolare la vita del nonno. Ed io, impotente, non avrei potuto farlo ragionare.

- Vuoi andare in Sicilia? A far cosa? Per fino zio Michele che è un gran lavoratore, seppellita vostra madre sta per ritornare in Brasile. Viene a recuperare la sua terra che aveva affidato a un amico e riprendere a fare la sua vita in Brasile. Tanuzza fu senza pietà e inventò la qualunque. Un’enorme chiave di carretto nel cervello del nonno sguazzava e gli faceva male fin dentro al cuore. Non gli restava altro da fare che inforcare il mare e partire. La ragione e il buonsenso gli venivano meno e non trovava più la pace. La gente lo vedeva trascinarsi da un bar all’altro, delirando e parlando troppo e male, maledicendo quei due figli e la sua sposa. Mi ricordo che l’afferrai e strattonandolo gli dissi:

-Lo sai tu che il tuo Dio, così come te li ha dati, può riprenderteli? Con questo comportamento non fai che aggravare il tuo caso. Questi due bimbi e gli altri quattro non li meriti. La morte è una cosa seria e terribile. Ti prego! Non cercarla e non sfidarla.

Quel pazzo furioso d'un nonno, ubriaco fradicio, mi rispose:

-Morire (!?)Morire non è una gran cosa, vivere male è morire.

-Come puoi parlare così della vita e della morte? Per caso stai diventando pazzo? Smetti di dire cavolate e ascoltami bene, tuo figlio Vincenzino me lo dirà sempre:

-Dopo la morte, c'è solo il nulla!

-Allora? Attaccati al tram e a questa vita, perché tu non ne avrai altre. Questo nostro incontro non è che un sogno che svanirà nel nulla. A te, come a me, è destinata una sola vita. Io, contrariamente a te dico:

-guai a chi tocca i miei figli.

Per loro sacrificherei la vita e anche se adesso vivono con la madre, sono sempre col cuore ela mente accanto a loro e da lontano li proteggo. Il Dio del caso mi ha rubato un figlio ed io non ho mai perdonato alla natura matrigna, ma posso assicurarti che non ho mai sfidato la morte come fai tu. Se non avessi un cervello, forse, sfiderei la vita e la morte allo stesso tempo, come fai tu. I miei figli sono grandi, ho lasciato loro uno dei miei ristoranti, mentre la madre continua ad allevarli nell’odio verso di me. Ora non ho più nulla da perdere, non dico niente contro di loro e li amo lo stesso.

Non mi rispose e rivolto alla sua bestia:

-Amuninni bella! Va!

Il Dio di Raddusa, tramite il Santo Spirito universale, in versione piccione viaggiatore, si pregiò d'informare il Dio meticcio del Brasile della gatta da pelare che rappresentava per la cristianità, quel mio avo. Il Dio Raddusano poteva dormire sonni tranquilli; il collega brasiliano sapeva come trattarlo e si sarebbe occupato di nonno e così, qualche giorno dopo, gli fece pagare il fio delle sue colpe: il tifo, s’introdusse a casa Cammarata e aggredì il mio piccolo papà. Il male stava per vincerlo e a niente sarebbero servite le cure del dottore. Dappertutto, nell’America latina e spesso anche in Europa, pestilenze di vario tipo, epidemie calcolate e fatte apposta da Dio si propagavano a macchia d’olio. Alla fine, nonna capì, chi ero e mi accettò parlandomi come cosa sua e stringendomi a lei. E adesso, visto che mi sono impossessato di questo sogno per viverlo sulla mia pelle, mi si lasci dire e fare quello che mi pare. Sulle ali della mia fantasia vi porterò a spasso nel tempo e nelle calde terre del Brasile per raccontarvi la straordinaria avventura della famiglia Cammarata e che quel Dio nel quale non credo me la mandi buona. Nonna non mi parlava più come se fossi un estraneo mi stringeva nelle sue braccia, come quel nipotino che sfiorerà appena, quando bimbo il mio papà mi porterà a Raddusa per farmela conoscere. Me la ricorderò sempre,

vecchia, cieca e triste, mi posò le sue mani sulla testa, smosse i miei riccioli e disse:

-“Ti benedicu niputeddu miu!”

Altri ricordi e altre tristezze, ma ritorniamo a quel giorno a Porto Alegre. Nonna mi parlò tanto di mio padre e di come fare per alleviare il suo dolore e la sua arsura. Insieme e a quattro mani riempimmo una grande tinozza d’acqua fredda e con pezzi di ghiaccio; l’immergemmo dentro per dieci minuti abbondanti, poi, l’avvolgemmo in coperte di lana e ci mettemmo a frizionarlo. Due volte il giorno. Ripetevamo l’operazione due volte al giorno girandolo come una frittata che voleva bruciare dalla febbre, e lui, con lo sguardo dolce, mi guardava e diceva:

-Grazie figlio mio, non lo dimenticherò mai.

La vicina di casa, la signora Luisa, cuciva l’abitino bianco per la sua morte a venire. A giorni, la festa della madonna del navigatore sarebbe andata per mare, in processione, su barche infiorettate. Mi ricordo che m’inginocchiai davanti al gracile corpicino di mio padre, gli presi le sue piccole mani tra le mie grosse e immense mani di vecchio uomo e gli sussurrai:

-Non morirmi papà mio! Non abbandonarmi.

Nonna mi stava dietro, non mi lasciava respirare, un bene comune ci univa. Sapeva che non credevo in Dio, ma questo non gli impediva di attaccarsi a me, mi supplicava e m’invitava ad andare nell’altra camera per inginocchiarci davanti alla piccola statua della Madonna del navigatore, innanzi alla quale nonna mi diceva:

-Preghiamo per il mio piccolo figlio.

Potevo mentire? Fingere di pregare?No! Quindi, pregai veramente e sperai che il Dio dei cristiani, credendomi sincero m’accordasse la grazia. Cento anni dopo, durante la mia visita nei luoghi dove visse mio padre e i suoi, cercai e trovai la chiesa della Madonna del navigatore e oggi, da otto anni, una miniatura di questa Madonna mi guarda e forse mi aiuta a scrivere questa storia. La madonnina è sistemata sotto le foto di mamma e papà. Sono cosciente e convinto che questo fatto non è razionale. Che ci vogliamo fare? Sono o non sono un uomo pieno di contraddizioni? Quella volta volli credere e la pregai perché speravo che lo salvasse. Dopo di quella lunga ed estenuante fatica, insieme alla mia nonna, ritornai accanto a mio padre.

-Papà, mi senti, mi vedi?

Le ore si succedevano, senza che nulla di buono accadesse, nessun cambiamento,né un battito di ciglia, solo i suoi lamenti e la sua piccola mano nella mia.

Nonna non riusciva a lasciarmi solo con lui, mi chiamava incessantemente:

-Vieni, preghiamo ancora.

Non mi lasciava in pace. Voleva che pregassi all’unisono con lei, non sentiva ragioni ed io l’assecondavo e a voce alta pregavo perché volevo che mi sentissero lassù, nel cielo:

-Madonna del navigatore, non permettere al destino crudele di svuotare il significato della crocifissione del Cristo. Domanda a tuo figlio di farmi dono della salute per il mio papà. Fate che io possa salvarlo, lasciatelo vivere e se avete bisogno di una vita, prendete la mia. Io. Bene o male, ho vissuto e se è vero che Dio esiste, fatelo questo miracolo!

Sembravo invasato, era come se fossi in trance. Andavo e venivo da mio padre, gli parlavo anche quando non poteva sentire:

-Ti ricordi, quando ero piccolo e abitavamo in via del teatro massimo, quando, a causa di una polmonite, stavo per morire? Ricordi il Dio del caso che voleva rubare il tuo piccolo Arturo? Io c’ero e non dimenticherò mai quel che facesti per salvarmi. Oggi, voglio renderti la pariglia, ma tu devi aiutarmi. Reagisci, sono sicuro che insieme vinceremo sulla morte. Il giorno dopo, era di venerdì e nonna mi faceva sapere che di lì a poco, saremmo dovuti andare, con una candela in mano, dietro alla processione che non rassomigliava a nessun’altra ricorrenza religiosa. Quella festa pagana si sarebbe svolta sulle acque del Rio Grande, circonavigando il perimetro della città. Nonna mi spiegava i dettagli, con minuziosità:

- La Madonna, sarebbe stata istallata su una gran nave, sopra a un altare, dietro di lei, barche di tutte le dimensioni, stracariche di gente, l’avrebbe seguita.

Per beneficiare del trasporto, bisognava pagare due soldi. E gli organizzatori senz’anima, ci avrebbero intasato come sardine sotto sale. E noi salimmo e subimmo! Intorno a noi, c'era tanta

puzza di pesce morto e odori di corpi in sudore che davano il voltastomaco. I notabili, i pezzi da novanta, erano in comode posizioni, sistemati e seduti su poltrone di velluto rosso. Anche in quelle situazioni, le classi sociali avevano la loro importanza e andavano rispettate. Camerieri in livrea servivano rinfreschi e sorrisi di sottomissione. La processione si avviò, le sirene strillarono:

- Largo che passiamo noi! Ma a un tratto, accadde uno strano fenomeno, un miracolo all'incontrario bloccò la processione. Come presa in mezzo ad un campo magnetico, la nave della Madonna rallentò e poi si arrestò davanti alla gran fortezza della prigione di Stato, dove vivevano rinchiusi quelli che le istituzioni statali consideravano criminali d’ogni sorte, accusati per fame e spesso innocenti. Gente che, sovente, aveva avuto il torto di venire al mondo dalla parte sbagliata della barricata. Quelli erano uomini che non erano più tali, che pagavano per colpe che, spesso, non gli appartenevano. La nave e la processione sbandarono e noi fummo presi dal panico. Madri, spose e vecchie donne si misero a pregare:

- Madonna, aiutateci a sganciarci da questa posizione. Ma la nave non poteva più andare per mare e partire. La prigione ci calamitava, bloccava i motori e i remi delle piccole imbarcazioni. Eravamo prigionieri. Mille e più mani spuntarono dalle inferriate di quel luogo maledetto. Volevano parlare alla Madonna dei giusti, mani all’indirizzo della madre del Cristo, mani che non erano sempre di ladri. Chiedevano una briciola d'aiuto a lei, La Madonna, La madre del Cristo Redentore. Una voce d’un tenore incattivito ci carezzò e ci cullò con lave - Maria di Schubert e un coro di suppliche, in disordine, cadde ai piedi della Madonna del navigatore. L’imbarazzo e l'angoscia invasero il ponte e squassarono la precaria onestà dei notabili. E Dio solo per fare un piacere al sindaco e alla sua cricca, intervenne e provvide! E come sempre, il solito vento divino, giunse in soccorso, spazzò il ponte e ci liberò da quella scomoda posizione. Poi, sentimmo la voce del comandante:

-Avanti tutta! A tutto vapore, dateci sotto!

Ed ecco che come per un comodo miracolo, la nave andò e la Madonna si ritrovò divinamente liberata. La processione riprese il solito itinerario di tutti gli anni, poi, come sempre, si fermò davanti alla capitaneria del porto, dove vidi la folla che si esponeva e posava come in un enorme paesaggio naif. Quante preghiere gettate al mare e portate via dal vento! Portoghesi, italiani, tedeschi, neri e siciliani, che chiedevano grazie e guarigioni! Tra quelli, c’eravamo anche noi, nonna ed io. Era proprio una festa pagana. In quelle ricorrenze, c’erano anche i soliti venditori di bruscolini, di ceci arrostiti con la sabbia, di palloncini, c’erano i fanatici, e gli eretici che si credevano fedeli, c’erano pure quelli che si flagellavano e facevano paura ai bambini. Poi, la Madonna, rientrò nella sua bella chiesetta. Arrivati a casa, corsi al capezzale di mio padre che dormiva saporitamente, per la prima volta dalla sua malattia. Ero stanco e perciò mi addormentai accanto a lui. Il mattino dopo, mentre stavo facendo colazione, dalla camera accanto, un grido di gioia. Era nonna:

-Venite, accorrete, adorate! Vincenzino è guarito, la Madonna l'ha salvato, viva la Madonna del navigatore!

-Ed io come un’imbecille, gridai:

-Grazie Dio e grazie signora Madonna!

-Mio padre aprì gli occhi, e lì s’invertirono i ruoli e lui si gettò nelle mie braccia. Scampato pericolo, tutto andava bene, almeno così mi sembrò. Ma riecco nonno e le sue fisime. Siamo là, l’uno in faccia all’altro ed è la solita storia del pastore che non la sa raccontare...

Non era possibile:

-Mi avevi promesso! Mi rendo conto che non ti si può lasciare solo! Cosa mi dici mai? La gente mormora, e tu lasciala sparlare, tappati le orecchie! Vuoi ritornare in Sicilia, ma che ci vai a fare?

E mentre discutevo con nonno, la nonna era in visita dalla comare, la moglie del console, con lei c’era anche la piccola Giuseppina, che da grande avrebbe trascritto questa conversazione sul suo diario, proprio così come ve la sto raccontando!

-Comare Carmela, devo dirvi una cosa, assai grave; vostro marito ha perso il senno e racconta in giro che voi gli avete messo le corna. Credo che alla luce d’un tale casino, sarebbe meglio che facciate come vostro cognato Michele, qualche anno in Sicilia, giusto per calmare le acque e poi, ritornate tra noi. Non vi pare?

Nonna non s'aspettava un’accusa di quel genere e piangendo si mise a massacrarsi il petto a manate. Poi se ne ritornò a casa, stringendo a se la sua bambina. Col cuore spezzato e le gambe che le tremavano ancora, ammucchiò intorno a lei la famiglia, per parlare a quel testone d’un nonno:

- Hai vinto tu! Facciamo il giro dei nostri debitori, vendiamo il poco che abbiamo e partiamo.

Nonno non poteva crederci. Venne a cercarmi in Piazza Alfandega per annunciarmi la bella novella:

-Si ritorna a casa, se vuoi, tu puoi anche restare!

Parlava come se non fossimo in un sogno! Che scemo!

-Vieni, andiamo a fare una passeggiata lungo il fiume!

Una volta in faccia al mare, guardò verso l’orizzonte e oltre, come a voler ritrovare la nostra terra e il nostro mare Mediterraneo. Si mise a parlare con la sua isola come a un’innamorata:

-“Sapuri di mennula amara, di pistacchiu, profumu di ciuri d’aranciu,vita mia, canta cu mia!”

Non contento di quella sonante dichiarazione, intonò la sua canzone preferita:

-Sicilia bedda, Sicilia mia, ti penzu sempri cu nustalgia, tra pocu tempu tornu n'di tia pi non partiri cchiu! Vogghu ritruvari li to giardini in ciuri. Lu to mari e li so culuri; Nilla to terra, spuntunu sulu li ciuri e la primavera è sempri cu tia. Tu fai duci li iurnanti! Soddisfatto, tacque e si accucciò come un cane felice davanti alla speranza d’un prossimo ritorno. Ho preso in prestito due sonetti di Formisano.

-ehi, menestrello, finisti? Amuninni a casa! E bravo nonno, ca divintau poeta!

Mi resi conto che nessuno poteva fargli cambiare idea.

-Vai nonno, ritornatene in Sicilia e racconta a tutti che sei diventato milionario e che nel tuo orticello, ora, ci cresce la pianta del benessere e della speranza.

Un mese dopo incassarono i crediti e poi, commise l’errore di andare in chiesa per ringraziare il Dio brasiliano, ma lo fece più per scaramanzia che per altro. Entrò in chiesa, trionfante e convinto che avrebbe ottenuto causa vinta, senza alcun timore; che stupido!

-Mi ricordo che cercasti, perfino, di parlare portoghese, ma Egli capì, era meticcio, ma non cretino come te che ti eri bevuto il cervello ed egli,essendo il surrogato “dell’Altro”, non dovette fare molta fatica, a rendersi conto che non eri uno di loro.

Con aria annoiata, ti chiese:

- Chi sei e cosa vuoi?

Dicesti:

-Sono Cristofaro Cammarata. Sono italiano, anzi, siciliano, sono!

-E dove si trova questa tua Sicilia?

- E’ un’isola in mezzo al mare mediterraneo. Molto prima che questa nostra specie umana l'occupasse, fu un eden di foreste e laghi.

- Ma oggi, se non mi sbaglio, le sole piante che ci crescono sono: la violenza, la corruzione e tante piante di fichi d'india. Povero uomo che sei, figlio di più culture e mosaico di razze diverse. In verità, se non lo sai, ti dirò io chi sei. Perché ridi? Sono o non sono Dio? Vuoi veramente sapere chi sei? Credimi non sei proprio nessuno. So tutto di te e della tua gente. Il mio collega di Raddusa mi ha informato sul tuo conto. Sei venuto da un'isola che credi essere la tua terra, ma in verità non sei altro che un pacco di stupidità che ritorna al mittente. E nonno, come al solito s'impappinò e non gli restò altro da dire che era venuto, ma che ora voleva andarsene a casa sua, dai suoi.

-Ma dove vai, testa ca si chiama cucuzza?

-dove vado? Cerco di sfuggire ai tuoi insulti e per il momento vorrei ritornarmene in quella che mi sembra essere la mia terra e ora che mi trovo al tuo cospetto, eccoci davanti a te per chiedere la tua benedizione e anche per ringraziarti di avermi permesso di nutrire i miei figli e poi, dimmi una cosa, perché mi tratti, anche tu, come se fossi l'ultimo degli uomini? Non temere, voglio solo che tu, benedica la mia famiglia. E poi, sai, fai troppe domande, se non puoi, non fa niente, lascia stare.

Addio Dio, fratello dell’Altro.

-Nonno, ti ricordi, che andammo a trovare tuo compare, il comandante della capitaneria? Un gran signore! Ci ricevette insieme alla sua sposa. Gli chiedesti di trovarvi una nave per l’Italia ed egli ti aiutò. Congedandoci la comare ti prese in disparte e ti disse:

- posso farvi una proposta?

-Chiedete, può darsi che vi dica di sì !

-Compare, voi sapete che noi non abbiamo potuto avere figli, mentre voi ne avete sette e di questo non ve ne facciamo una colpa, non vogliamo essere fraintesi e nemmeno che ci vendiate un figlio. Il vostro Santino è di salute cagionevole. Mio marito ed io siamo convinti che presto ritornerete. Perché non lo lasciate qui, fino al vostro ritorno?

Nonno rise e scusandosi, ringraziò dicendo:

-No! I figghi su pezzi di cori!

Mi sembrasti “Mario Merola” in una delle celeberrime sceneggiate. Il viaggio del ritorno fu preparato contro la volontà dei tuoi figli che, se avessero potuto vincere quella impari battaglia, certamente io non sarei nato e non sarei in questo assurdo sogno con te a sminuzzarmi l'anima. Non so più che cosa potrei scrivere ancora per allungare il sugo. Prometto di stringere i tempi e di far partire la mia gente dal Brasile. I pianti dei miei zii e il silenzio di nonna non servirono a nulla. Avevano imparato la loro lingua madre e quel giorno, quelle parole apprese contro voglia, furono come colpi di lama tagliente che facevano i cuori a rondelle. Nonno, come al solito, era sempre più padre padrone. Non sorrideva più! Il dubbio gli consumava le corna e gli incasinava la vita, e lui non poteva farci nulla e correva verso la sua rovina e quella della sua famiglia che tremava di paura. Mi parlava in codice e voleva che lo capissi e poi, senza che me ne rendessi conto:

-Arturo, sento come un pericolo che si addensa su di noi e non si decide a colpire. Povero nonno aveva ragione! Era l’odore del colera, avrei dovuto riconoscerlo, l’avevamo sperimentato a Raddusa e lui che aveva un buon odorato me lo ricordava. A giorni, la metà dell’America latina sarebbe stata colpita a morte. Bisognava scappare il più presto possibile. Tutti a bordo e senza perdere tempo. Eccoci su una nave che non aveva nulla a che vedere con quella dell’altra volta. Quattro piccoli uomini, Michelangelo, Peppino, Vincenzo, Salvatore, le sorelline e Santino nelle braccia di nonna, mentre nonno, colpevole ma felice s'isolava. Alle loro spalle il Brasile e tutti i loro ricordi e tante altre cose che non potevano e non dovevano dimenticare. Il Brasile si sarebbe annoiato senza di loro. Dal ponte, i nostri piccoli eroi guardarono verso la terra e rimpiansero:

“letti di rose e tavole imbandite!”

Cosa avrebbero trovato in Sicilia? Gli odori della loro terra erano seppelliti nel profondo dell’anima. Da quel momento i soli ricordi che avrebbero portato con loro sarebbero stati quelli brasiliani. Vidi Peppino allontanarsi da noi, voleva restare solo, con la sua pena. La sua fidanzatina era sul molo e sventolava una rosa rossa, come se fosse un foulard. Poi ritornò verso di noi e gridò parole disperate:

-Perché non ci buttiamo in mare e a nuoto raggiungiamo la spiaggia? Lui aveva una ragione di più, era innamorato. Una bimba portoghese, Lucia Cichita Consalez de Castiglia, prima di lasciarsi per sempre, in lacrime, gli aveva detto:

-José, meo amor, aspetterò tutta la vita! Il viaggio di ritorno sarebbe stato piacevole? Vai a saperlo! Avevamo pagato i biglietti, non eravamo più emigranti e i marinai non ci trattavano più come carne da macello e a nonno, il personale di bordo diceva:

-Buon giorno signore, il pranzo è servito.

Tutti quei salamallekum ai nostri ragazzi non dicevano un bel niente. Nonno cercava di avvicinarsi a loro, ma era maldestro e falso. Le ostilità erano iniziate e lui che mentiva per salvare la faccia, cercava di convincerli e prometteva mari e monti. Non voleva ammettere che Michelangelo e Peppino non avevano dimenticato e temevano quel ritorno. I giorni passavano e la nave scivolava, senza sapere sulle acque d’uno strano e imprevedibile oceano. Nonno, per non farci paura, non parlava più dell’odore di colera. Montevideo ci apparve davanti, in un mattino coperto di una strana nebbia. Scendemmo a terra: nonno, io e i tre più grandi, in luoghi dove non c’era molto da vedere e non era certo il paradiso. Le zone che circondavano i porti erano tutte uguali, miseria e desolazione.

Nonno ebbe un brivido, come quando partimmo da Porto Allegre, quell’odore ci aspettava e nonno mi disse: “ Presto, prendi tuo padre per la mano e scappiamo subito da qui!” Sentii il mio cuore battere e immaginai che eravamo di fronte al colera e mentalmente mi feci il segno della croce, era un colera carabinato, covava e partoriva la morte come non l’avevo vista mai e non sarebbe stato facile evitarla. Le autorità di quel porto seppellivano i primi morti. Nonno non si era sbagliato, il male si mascherava di nebbia e avanzava fin sotto la chiglia. Lo vidi abbordare come fanno i pirati e salire a bordo impunemente per trasformarci in cadaveri. Sul ponte della terza classe c’era di tutto. Sembrava un incrocio, tra la fiera di Catania e lo Zoo di Calcutta: sacchi di caffè, balle di cotone, animali esotici, enormi quantità di frutta mai vista fino allora e tutto alla rinfusa, con animali e umani, in quantità. Non era il caso di mettere il naso fuori dalle cabine, le cose e le persone avevano preso gli stessi odori. Era meglio stare lontani da tutto e da tutti. Qualche giorno dopo, arrivammo nel porto del Rio de la Plata ( Rio de Janeiro). Sul molo ci aspettavano i parenti della signora Luisa, la sarta che s'era offerta per cucire il vestitino di morte per Vincenzino. Il colera che avevamo imbarcato a Montevideo, discretamente, si lasciò scivolare fino alla banchina e si confuse tra la folla. Il porto di Rio, in quel tempo, a causa del suo fondale basso non permetteva alle grosse stazze d’attraccare. Restammo al centro della baia mentre i barcaioli venivano a cercarci, sotto la scaletta della nave. Nonno cercò di chiamare un barcaiolo, ma ecco che un giovane italiano, da sopra a un’imbarcazione, gridò: “ famiglia Cammarata, sono il nipote della signora Luisa, sono qui, sulla barca gialla”! Rispondemmo e l’imbarcazione accostò e noi, emozionati, ci lasciammo trasportare verso la terra ferma. Il giovane si chiamava Joca ed era figlio della sorella di Luisa. Prendemmo alloggio in un modesto albergo, ma per quel giorno, a pranzo e a cena, restammo da loro. Il proprietario dell’albergo era un italiano che ci trattò, come se fossimo parenti. Le sere, un’ora o due, le passavamo a giocare a tresette. La nave doveva fare certi controlli e noi si doveva restare a terra, sicuri che sarebbe stata una bella vacanza, nella quale i giovanissimi dei Cammarata si potevano scatenare a giocare e correre in compagnia di alcuni bambini del luogo. Non mangiavamo più dai parenti della signora Luisa. Il proprietario dell’albergo era un fine cuciniere e se lo dico io, dovete credermi. Ogni giorno, Vincenzo andava a comprare il ghiaccio e la limonata, che mescolata al vino costituiva una deliziosa bevanda che scendeva come un nettare nel corpo e perfino nella mente. Alla fine dei pasti, Michelangelo e Peppino erano quasi sempre ubriachi. Quel dolce non far niente, purtroppo, fu di corta durata.

Il colera abbatté le carte e disse: scopa!

Si manifestò e dopo qualche giorno, la gente si mise a morire per le strade, senza volerlo e senza nemmeno poter gridare no Dio! Le ambulanze sfrecciavano e le sirene suonavano come campane a morto. Il simpatico albergatore fu il primo a morire, il mattino dopo, lo trovammo di traverso sulle scale del primo piano. I carri funebri divennero più numerosi delle ambulanze perché non c’era nulla da fare. Fummo presi dal panico e nonna che fino a quel giorno non aveva aperto bocca, si mise a gridare ordini, riunì tutti e disse:

“ Ritorniamo alla nave”!

In mezzo a quel frastuono, sparì Giuseppina, la cercammo dappertutto, mentre nonna, nella carrozza, la piangeva già. Eccola apparire e uscire dall’albergo con una gabbia e il pappagallo dell’albergatore dentro. Quel pennuto lo chiamavano Alì Babà, ma il suo vero nome era Mimì della braghetta. Era un nome d’arte, in verità, a me, sembrò musulmano, Alì sarebbe stato più congeniale di Mimì. Scendemmo dalla carrozza e salimmo a bordo, dietro di noi, giunsero tutti gli altri passeggeri. Sul ponte si scatenò una confusione d’apocalisse. La nave era in cantiere per lavori di routine, ma quando il comandante si rese conto di quello che stava accadendo, ci fece accedere nelle nostre cabine. Costituì un cordone sanitario per proteggerci e impedire agli intrusi di salire a bordo; ci contarono e poi, ci ricontammo anche noi; mancavano dieci persone all’appello, segno che il male li aveva nazionalizzati, facendoli morire in Argentina che non avrebbe pianto per quelle decine di siciliani ( non piangere Argentina!). Alcuni di noi che sembravano ammosciati vennero isolati. Mancavano quattro giorni alla partenza; nessun passeggero doveva scendere a terra ne andava della propria vita, due marinai in armi, controllavano il passaggio d’accesso alla nave. Le merci alimentari venivano controllate. Ci vaccinarono tutti. Sul molo una strana fauna umana si

sbracciava chiedendo di salire a bordo, ma i marinai vigilavano e avevano ordine di sparare nel caso che...

Le autorità marittime fingevano ordine e tranquillità, come se non fosse accaduto nulla. Anzi, la vita continuava: uomini, muli, asini, carrette cariche di vettovaglie, barili, botti, terre colorate, minerali, stoffe e ogni ben di Dio. Sul molo gli uni scaricavano e gli altri portavano su tutte quelle merci. Voci, bestemmie e “ Dio sia lodato”, invasero la nave. Era come un calmo inferno, mentre a terra, tutto si svolgeva in mezzo a pugni, calci e coltellate. Con celerità e discrezione, la capitaneria si trasformò in un lazzaretto. Dal ponte della nave che sembrava una terrazza, non sfuggiva nulla; era come se fossimo a teatro e credetemi non era finzione ma tragedia reale. Tutti i mezzi di trasporto diventarono autoambulanze e le sirene, i clacson e i campanacci, si diedero ad annunciare la morte che prendeva e gettava nelle fosse a cielo aperto, con tanta calce viva su quelle vite che non erano più tali; calce e fiori sui corpi ancora caldi di morte. Il colera non perdonava. Gli ospedali non avevano più medicine. I dottori sapevano fare solo miracoli umani. Quel giorno, mentre mi guardavo intorno, non potei fare a meno di pensare al colera di Raddusa. Molte persone, per non entrare e morire nel lazzaretto, si gettavano in mare, sperando di calmare il calore freddo della loro pelle. E venne il giorno della partenza e il rumore delle macchine che facevano ribollire le acque della marina, ci trasmise il buon umore. A bordo, nella cappella, una folla di donne e qualche bigotto, orchestrati dal cappellano, pregavano e imploravano il Dio dei giusti per far cessare quella che, per molti, non era altro che una punizione divina, ma le preghiere non servirono a nulla e il colera, che si piaceva in nostra compagnia, insisteva per venire con noi in Europa. Tutte le precauzioni erano state prese, ma non servivano a fermare quel flagello di Dio. Si cominciarono a contare le vittime e a gettare i primi cadaveri ai pesci. Mi ricordo che dissi a nonno di venire sul ponte per onorare quei morti che scivolavano nell’acqua come carichi di Caronte. Nonno non aveva più peli sulla lingua e guardandomi come fanno gli stralunati, mi gridò:

-Vuoi che venga sul ponte per onorare quei morti? Tutto questo, lo vuoi subito? Mentre noi, qui, rischiamo la contaminazione e forse anche la vita? Tu devi essere pazzo! Non ti rendi conto che tutti i giorni, passo il mio tempo a controllare le mie mani e quelle della nostra famiglia, la loro igiene e il pallore dei nostri visi? Vuoi onorare quei morti? Vai pure! Io non ti trattengo. Continuate a credere e a pregare questo vostro Dio misericordioso e giusto!

Una sera a cena, mio padre ebbe un attacco di vomito, segno che Dio non s'era dimenticato di lui. Vincenzino stava male e noi incominciammo a temere. Bisognava prepararsi a ripercorrere il corridoio della morte? I bagni freddi di nonna, se fosse stato colera, non sarebbero serviti a nulla. Ma fu solo un falso allarme che sarebbe svanito presto, mentre io, non osavo più parlare, né pregare. Dio m’aveva sbancato, deluso e spiazzato. Dieci giorni senza pregare, ma accanto al letto di mio padre e dentro a questo mio fottuto e interminabile sogno, per Soffrire e temere per lui e per i suoi cari. Io non rischiavo nulla, tanto e se mi fossi svegliato da quel sogno, mi sarei reso conto della truffa e avrei interpretato quell’episodio come un incubo e nient’altro. Ma l’essermi calato in quella storia insensata, rendeva quel sogno vero e palpabile ed io non ci capivo più nulla, mentre continuavo a piangere e a sperare che tutta quella storia si sciogliesse come neve al sole e ci facesse scampare a quella trappola infernale. Per fortuna di mio padre, non era colera, ma solo un ritorno di tifoide. E dopo tanta navigazione fummo in vista delle coste francesi. La Francia era il mio pane qutidiano, la mia nuova patria e mentre la nave accostava, ai miei zii e a mio padre raccontai della capanna sull’isola d’Arturo. Il colera non si piacque con noi e, insalutato ospite si gettò in mare per ritornare su i suoi passi e poi sparire dalla nostra vista. Mio padre e gli zii erano tutti intorno a me per vedere s’era vero che parlavo la lingua di quel paese. Un marinaio francese parlò al portoghese: “envois moi la corde”!

Giuseppina, la super curiosa, mi chiese di tradurre quel che aveva detto il marinaio che si trovava sul molo. Ricordo che mio padre gonfiò il petto d’orgoglio e disse:

-Calma, Arturo ci tradurrà!

Poi, fu il turno di Michelangelo, che mi disse di chiedere al suo papà se potevo accompagnarli a terra.

Nonno fu d'accordo, ma a condizione di non perderci. Eravamo a Marsiglia, città che conoscevo

bene e dove ero stato un mese prima per incontrare il sindaco che era cliente nel mio ristorante, vicino alla Sorbona. Dal ponte della nave i miei piccoli zii avevano visto che, nella parte alta della città, c’era la chiesa di nostra Signora della Guardia. Chiesero se potevano visitarla, dissi sì e partimmo a piedi, lungo un gran viale fiorito di variopinti oleandri mediterranei. La strada era lunga, ma alla fine del cammino arrivammo davanti al sagrato, entrammo nella chiesa e lì ci mettemmo davanti alla crocifissione del Cristo. Una monaca uscì dalla sacrestia e venne verso noi e pensando che fossero tutti figli miei, mi disse:

-Sono i suoi bambini? Come sono belli, complimenti! Poi, uno alla volta, li accarezzò, li benedì e regalò loro un’immagine della Madonna della Guardia. Era il non plusultra: il Dio di Raddusa li aveva benedetti e non li aspettava più; il Dio brasiliano, anche se a malincuore, aveva fatto la stessa cosa e ora avevamo anche la benedizione del Dio francese, cosa potevamo chiedere di più? Non ci restava che ammirare le bellezze di Marsiglia e ritornare sulla nave e poi, rotta per l’Italia. Prima tappa, Genova: la città di Cristofaro Colombo, lo scopritore del nuovo mondo. Nonno, sentì quello che stavo dicendo e intervenne:

-Per me poteva farne a meno e restarsene a letto, così non mi sarei spezzato la schiena sui campi brasiliani! Il giorno dopo, la nave, giunse nel porto di Napoli e fu la fine della prima parte d'un viaggio pieno di imprevisti. Nella città dell’arte d’arrangiarsi avremmo dovuto aspettare due giorni. La carretta del mare per Messina era in riparazione e non poteva partire subito. Bisognava restare nella baia di Napoli, buoni e saggi. A quel punto, giocavo in casa, conoscevo bene Napoli e la sua gente. Riunii tutta la famiglia intorno a me, per prepararli a quella giungla di lestofanti:

-Fate attenzione ai sorrisi di questa gente, che prima vi strega, v’incanta e poi, vi frega! Napoli, la magica v’ammalia e vi porta a spasso e tu nonno, stai attento al portafoglio! Il cocchiere fu il nostro primo boia! I duecento metri per portarci dal porto all’albergo durarono un’eternità, perché li trasformò in una gita turistica allucinante e costosa. Napoli - famiglia Cammarata: uno a zero e palla al centro. Il cocchiere lestofante arrestò il suo somaro, coperto di piaghe, davanti ad un albergo quasi in rovina e di quarto ordine, abbandonandoci al nostro destino. Napoli era anche questo, un albergo senza vista sul mare che, per ironia della sorte, si chiamava: (Hotel Miramare). Ci guardammo intorno per vedere cosa fare e se fosse il caso, oppure no, d’entrare. Tutti i bassi della piazza erano spalancati e le famiglie se ne stavano davanti alle loro case, come se il marciapiede gli appartenesse. C’erano quelli che dormivano sulle sdraie e quelli che lavoravano e le popolane dove le mettiamo? Alluccavano peggio degli uomini e guardavano le nostre valigie e il pappagallo di Giuseppina. Trovarsi in simili situazioni, in mezzo a quella fauna chiassosa, non era bello. Affrontare un altro giro di carrozzella ci sarebbe costato tanto quanto una vacanza a Montecarlo! La locandiera? C’era e apparve sulla soglia:

-Trasite, non vi mettite scuorno! Nun vi curate d’issi! Riempitevi e narine d’addore e pulito! Non parlate napoletano? Non faci niente, non temete, io parlo anco l’italiano. Quante camere vi occorrono, tre?

Nonna rispose:

-Due, basteranno, sperando che ci permettiate di cucinare sul balcone, visto che qui, tutto il quartiere cucina per strada.

-E va buono, ve lo concedo.

Poi, quando vide il pappagallo,

-oh comme e bellillo, e rivolgendosi a Giuseppina:

- parla? Dio comme è sfizziuse st’augiello e rispondimi, neè, sai parlare?

Alì babà s’innervosì e poi rispose, per se e per il popolo brasiliano:

- So parlare e tu, fetente e ruffiana, sai volare?

Risero tutti, meno la donna, che disse:

-Scostumato!

Per tutta risposta, il pappagallo si mise a cantare:

-Brasil, de ver tanto amor!

Subito dopo nonno ed io partimmo per fare la spesa e cercare di non farsi mettere un altro gol! La locandiera ci prestò un fornello a carbone ed io diedi spettacolo, facendo saltare le paste nella

padella. Carbonara per tutti, tranne Ali babà che disse:

- Sorry! Musulmano songo ie! Giuseppina salì sulla sedia e attaccò al muro la gabbia del pennuto brasiliano. Il mattino dopo, ci svegliarono i canti dei venditori ambulanti: nessuno che stonasse, cantavano tutti con giusta misura ed io non potei fare a meno di pensare a mio fratello Ciccio, che quando canta ( O sole mio), stona come un ciuccio! Quelle melodie ci fecero saltare dal letto e affacciarci al balcone ed ecco che la piazza e tutti i suoi scugnizzi si prepararono, come da copione, allo spettacolo della sopravvivenza; c’erano tutte le categorie e tutti avevano un paniere al braccio, dove tenevano qualche cosa da vendervi o da prendervi. Oh! L’acquaiolo con tutto il suo armamentario: limoni, anice, sale e bicarbonato, e anche lui cantava e non stonava. Pizza, ricci di mare, pesce azzurro e c’era pure il ricottaro, da non confondere col magnaccia, con le sue ricotte e le mozzarelle. Giuseppina si girò per dire buongiorno al suo pappagallo adorato, ma questo era sparito e con lui la gabbia. Mamma mia, ci hanno rubato Ali’ babà!

Napoli - famiglia Cammarata, 2 a 0 e palla al centro! Piansero tutti, tranne me che, essendo dentro a un sogno non l’avrei mai potuto portare sulla mia isola. Tutti giù, nella piazza e poi, per strade e vicoli per gridare: Ali babà, ritorna, dove sei? E gli scugnizzi napoletani, dietro a noi, a gridare: addo sta Zazà, o maronna mia, iatela a cercà cu pappagallo in testa! Sicuramente, Ali babà era stato rapito e rinchiuso in qualche cantina, intento a seguire un corso accelerato di lingua napoletana per collaborare e poi fregare gli incauti turisti come noi. Di lì a qualche giorno, dopo la nostra partenza, sarebbe sceso in campo per aiutare, anche lui, a fottere gli sprovveduti. La carretta del mare fu pronta per partire e tutti salimmo a bordo. Salutammo Napoli, incavolati fradici, gridando tutti in coro:

-Addio! Città di povera gente, ladri per necessità e possibilmente per eredità borbonica! La nave se ne andò ( aummo - aummo ), verso Messina. Com’era bella la mia terra, vista da lontano. La stazione ferroviaria e il porto, allora, come adesso, erano e sono un’attaccata all’altro. Eccoci sul marciapiede principale a binario unico. I ritardi erano tanti e le province pure. Le coincidenze si sprecavano e continuano ancora oggi, mentre Berlusconi vorrebbe costruire il ponte sullo stretto! Come al solito, il treno si prese tutto il suo e il nostro tempo ed io capii che ci avrebbe fatto perdere la diligenza per Raddusa- Dittaino-Enna. Il cavallo di ferro, dopo un lungo attendere, arrivò, sbuffò e lentamente s’incamminò verso Catania e Caltanisetta. Era un treno che andava a vapore: “Quando vidi una nave in mezzo al mare…” Credo che sia un passaggio della spigolatrice di Sapri. Altri tempi e altre storie. Da Messina a Catania, un mare azzurro e tanti giardini in fiore. Io mi estasiavo, finalmente in Sicilia ma Peppino e Michelangelo? Non ci stavano e rifiutavano di farsi prendere dall’amore per una terra che ricordavano appena. Mio padre era seduto sulle mie ginocchia e faceva mille domande.

-Quella?

-E’ Taormina!

-E quella?

-Acitrezza e poi, Acicastello, Ognina, ed ecco Catania con la piazza dei Martiri e la passeggiata a mare.

E in quell’istante mi rividi bambino, quando, col rischio di finire sotto a un treno, correvo, per attraversare i binari e tuffarmi dagli scogli di lava. Una volta a Catania, li lasciai, ad aspettare il treno che li avrebbe portati a casa, facendomi promettere d’essere saggi. A mio padre chiesi se avesse potuto evitare di mettermi al mondo e lui rise, mandandomi al diavolo, segno che mi voleva già bene. Separandomi da loro, raccomandai:

-Quando sarete a Raddusa non fate troppa pubblicità, non dimenticate che avevate promesso di non ritornare più. Allora, silenzio e pipa. Addio nonni e arrivederci a tutti voi.

Un sogno lungo come un giorno senza pane s’era consumato e ora mi svegliava. Guardai l’orologio e mi resi conto che avevo dormito un’ora appena, eppure m’era sembrato d’aver dormito un’eternità. I sogni? Valli a capire! Fuori, nel mio giardino, era ritornato il solito merlo con le ali in tasca. Che scemo che era: lo sapeva o no che gli ultimi fichi me li aveva rubati un mese prima? Era il quindici dicembre del 2005 e tra dieci giorni sarebbe arrivato un altro Natale ed io avrei avuto 70 anni. Un altro anno se n’era andato via, un’altra foglia secca sarebbe caduta dal mio corpo

strapazzato dal vento e dall’acqua gelata dell’inverno! Un’altra foglia che non se ne sarebbe andata via così facilmente, così come le altre. 70 anni sono tanti, ma come ogni 4 settembre, rumorosamente e senza rispetto, gli anni passati, così come fanno le foglie, girano intorno a me salutandomi senza chiedere scusa, mi lasciano tra mille scatole di medicine solo e ammalato! Le foglie e gli anni, a mò di metafora, non volano via così facilmente, ma restano accanto ai miei piedi per non muoversi più; perché anche se sono solo foglie d’anni morti mi appartengono e s’attaccano a me come ricordi indelebili che non vogliono scappare via perché fanno parte della vita mia. Poveri anni miei come vi ho speso male e come il vento vi raccoglie e vi strapazza ma non vi porta via. In fondo è questo il destino degli anni che s'accompagnano a noi. Con questo, sono 70 anni, 70 sospiri che non ho saputo trattenere. Sono volati via per modo di dire, li ho visti cadere, posarsi e poi sparire, senza andar via. Chissà se questo è l’ultimo di tutti quegli anni-foglie che si sono perdute e che poi, il vento, con rabbia disordinata, smuove per farle secche e ingiallite. Il giardino cerca di liberarsi da questa sottile nebbia che m’inchioda davanti al mio ordinatore, dove resto impalato a guardare quel merlo che ha sbaglia di stagione. Fuori piove e un vento di ricordi mi porta il suono di una zampogna che sento in lontananza e poi mi suona accanto come quando c’erano loro: mamma e papà. Con la fronte appoggiata nel cavo della mano, lascio che le dita dell’altra strappino gli ultimi capelli che mi restano ancora sulla testa. I miei occhi s'involano più in alto delle nuvole e delle stelle ed io penso agli anni passati che hanno lo stesso suono della pioggia sul tetto della mia casa. Penso a quando mia madre e mio padre erano ancora accanto a noi e insieme preparavamo il presepe con i rami dell'albo-spino, una lampada con l’olio di sansa, cotone idrofilo, arance e mandarini, un ramo di pioppo, tanto vischio e il bambinello Gesù. Mi ricordo i pecorai di Bronte e le loro cornamuse. La preghiera cominciava con le litanie di nostra madre, mentre le signore Morgano, suocera e nuora, rispondevano a lei che chiamava tutti i santi del paradiso e loro dicevano: ora pro nobis e poi, il miserere. Finita la funzione, il più alto tra noi, saliva sulla sedia e soffiava sulla lampada a olio. E dopo le preghiere, mamma si avvicinava e ci baciava sulla testa. Quel presepe ora non c’è più, ma ricordo dove lo montavamo. Abitavamo al 17 della via del teatro massimo e l’icona ( il presepe), era nell’angolo, a sinistra della stanza da letto di mamma, su di un vecchio tavolo d’ufficio di papà che Cristofaro usava per fare i compiti. E' per questo che l’altro giorno, nel mio caminetto, ho immaginato e poi disposto un ipotetico e poetico presepe. Il mio ateismo grida allo scandalo, ma l’idea di farne un altro presepe ancora mi scalda il cuore e l’anima e mi fa credere di poter ritrovare gli accenti e gli odori di quel basso, in via del Teatro Massimo. Le arance e i mandarini ci sono sempre, quel che mi manca sono i migliori frutti della mia vita: mio figlio Davide 1°, mia madre e mio padre! Il secondo Davide vive a Parigi e riempie d’orgoglio la mia vita. Ora non sento più le cornamuse di Natale, alla televisione guardo e ascolto il concerto di Vienna, ma non mi basta, mi manca il sapore delle litanie di mamma mia. Il tempo se n'è volato via lasciandomi solo, davanti a quest’immagine virtuale, per ripetere il rito del Santo Natale, ma non c’è nessuno davanti e dietro di me. I volti che frequento adesso mancano di calore e ridono della mia ambiguità. Mamma e papà, per una volta ancora, ritornatemi accanto, perché ho voglia di dirvi Ora pro nobis!

Un altro giorno incomincia e questo è più innevato del solito, il gelo fabbrica l’erba bianca, il sole si mangia la neve e m’invita a tirarmi fuori dal guscio. Apro la veranda e vado a controllare se i pesci del mio bacino sono ancora vivi, sono fortunato, boccheggiano d'appetito. Un pezzo di pane duro farà l’affare. Lupo, il mio cane è metà barboncino e l’altra metà cane per pecorai sfaticati; abbaia e mi sollecita a calzare gli stivali. Vede che prendo il guinzaglio e incomincia i soliti vocalizzi! Ha paura di restare solo a casa, lo rassicuro e usciamo. Una lunga passeggiata si prepara, una palla da tennis e un secchio alla mano per raccogliere i fossili marini, quelli che tappezzano la spiaggia e ti fanno piegare la schiena. In verità, quel andare al mare mi porta un certo benessere e tanta ispirazione. Al ritorno mi rimetto al tavolo da lavoro e scrivo. Oggi non ho bisogno d’inventare sogni e fughe impossibili. Adesso ci sono i ricordi di papà che ogni uno di noi conserva nel cuore, per proprio uso e consumo. Ma per adesso ritorniamo al treno per Dittaino.

1908, il convoglio era, come accade sempre in Sicilia, una fornace e il sole cazzuliava la mia famiglia allontanandola dai vetri che, come lo specchio d’Archimede, tentava di bruciare i loro

volti; i paesaggi che avrebbero attraversato non erano come quelli della riviera dei ciclopi e a papà e gli zii sembrò d’essere alle porte dell’inferno. Michelangelo posò una mano su quella di Peppino e disse:

Quest’atmosfera non ti ricorda nulla?

-Si! Il nostro viaggio d’andata!

Il treno si arrestò a Dittaino e i ragazzi, vedendo quella campagna arida e bruciata dal sole, capirono il significato della parola “ Miseria”. Nessuno sapeva come e quando sarebbero arrivati e nessuno li attendeva. Presero la diligenza e partirono su una strada che era una mulattiera e faceva arrancare la vita di chi non aveva un mezzo di locomozione degno di quel nome; dopo non so quanto tempo, videro il villaggio. La carrozza si fece largo tra la folla e creò il vuoto tra la gente. Dopo quel trambusto, in meno che non si dica, la piazza si riassestò e ritornò a rianimarsi e tutti gli sfaccendati furono intorno alla corriera.

Settima parte       [torna all'indice]

Lo scemo del villaggio, quello che Dio regala ai mascalzoni del mondo rurale per sfogare la loro cattiveria, si precipitò per aprire la portiera sperando che qualcuno, scendendo, gli regalasse una monetina. Tra quelli che aspettavano la diligenza, c’erano diversi curiosi e tra questi c’erano due fratelli di nonno. Nascosto tra la folla c’era anche e sempre lo Spirito Santo che, riconosciuto nonno e vista la nidiata di figli non trovò di meglio che andarlo a raccontare a Dio. Nonna aveva fatto le cose in grande. I suoi figli erano vestiti bene, mancavano solo il pappagallo e le chitarre. Chi sa dove aveva trovato quei vestiti color banana! I ragazzini del villaggio li guardarono con invidia, mentre Michelangelo diceva a Peppino:

-Come puoi constatare, anche qui, ci sarà da battersi. Tieniti forte!

Tutti a casa del fratello Ignazio. Quella sera fu festa grande assieme al piacere di ritrovarsi e raccontarsi. Aspettando una casa tutta per loro per alcuni giorni si sparpagliarono in quelle delle zie. Il mattino dopo, nonno andò a trovare il compare Diolosà per salutarlo e chiedergli come andavano le cose e che aria tirava in paese.

-Caro compare Cristofaro, le cose vanno male e non dimenticate che a Dio avevate promesso di non ritornare più. Che cosa siete venuti a fare? A recuperare la mula e la carretta che m'avevate lasciato? La mula è morta e il carretto s’è sfasciato! Il benessere non abita qui e se c’è, non è per noi! Credo che Dio non apprezzerà il vostro ritorno. Sappiate che in questi ultimi tempi è più reazionario di quando c’eravate voi! Non so se avete visto lo Spirito Santo che vigila e rende la vita difficile, notte e giorno, pattuglia le strade del villaggio, appunta e a volte, esagerando, ripete tutto in alto luogo. Nonno ebbe tanta paura che per qualche giorno non uscì da casa. Poi, la prima domenica del loro arrivo e disse:

-Carmela prepara a festa tutta la famiglia e andiamo in chiesa, voglio vedermela tutta e poi, chi crede d’essere?

Gesù era sempre là e dove poteva andare? Tutti lo sapevano, non era vero che era in cielo, in terra e in ogni luogo e giorno. Il Cristo virtuale, quello della follia degli uomini, lo vide entrare in chiesa come allora e pateticamente gli strizzò l’occhio, cercando di fargli capire che suo Padre sapeva già com’era finita la sua avventura brasiliana. E in quel preciso momento, senza che nessuno dei due se ne rendesse conto, Dio come un’aquila reale discesa dal cielo piombò e tuonò, planando sulle loro teste:

- decisamente quest'uomo è scemo o pazzo! Ecco che mi ritorna, come se nulla fosse stato!

Credevi di poter scappare ai miei controllori, che cosa ti passa per la testa? Tu offendi la mia intelligenza e quella dei miei servizi celesti. Eravate partiti in cinque e mi rivieni, con una nidiata di mezzi sangue e magari, vuoi farmi credere che sei ricco e hai capitali da investire a Raddusa. Oggi, così come quando te ne sei andato via, cercherai di farmi credere che non domanderai nulla. Conosco la gente come te. Tu non concluderai mai nulla nella tua vita. Sei un quaquaraqua. Dimmi perché dovrei aiutarti? Piuttosto, preparati ad affrontare una vita costellata di sofferenze e morti! Uscirono dalla chiesa, così com'erano entrati, abbassando gli occhi, e quando furono fuori, mio padre disse al suo:

-Perché, non l’avete mandato a quel paese?

Solleticato dalle parole del suo ragazzo, ritornò in chiesa, andò verso il Cristo e pensando ai testi dei vangeli, parlò a quel figlio di Dio che se ne stava in coma sulla croce:

-Ora solo capisco la ragione della tua crocifissione e la tua reincarnazione. Questa, non è altro, che una grande menzogna che serve alla chiesa per deviare la storia dell’umanità. Poi, alzando gli occhi al cielo, si portò l’indice alla bocca e lo morse fino a farsi sangue. Umiliato e affranto, giurò che non avrebbe più messo piede in nessuna chiesa del mondo. La festa e la messa s'erano “consumate”, bisognava rimboccarsi le maniche e rifare, ancora una volta, le loro vite. Col poco che avevano, avrebbero voluto comprare una casa. Nonna teneva i cordoni del malloppo stretti a sè e al suo uomo, diede quanto potesse bastare per comprare un’altra mula e un carretto. Nonno obbedì e il giorno dopo assieme ai tre primogeniti, con zappe e cofani partì per battersi contro quella terra ingrata. Sulla strada per andare in campagna, Michelangelo che era un nostalgico e aveva tanta memoria, disse al padre:

-Per favore Pà, lasciateci passare davanti alla nostra vecchia casa. Nonno assentì. E una volta davanti a quell’abitazione, una sorpresa li attendeva. Il giovane e ora vecchio cane Medoro che aveva dovuto abbandonare a Raddusa, era davanti alla stalla della loro vecchia casa, malandato e cieco. Pare che tutte le mattine della sua vita animale, spuntando da chissà quale tana si piazzava davanti all’antica casa ad aspettare i suoi padroncini che non arrivavano mai. Nonno riconobbe il suo cane e commosso per tanta devozione, arrestò la mula e insieme ai ragazzi si precipitò verso Medoro che all’odore riconobbe l’uomo e i suoi figli che un giorno gli erano stati amici e che in quell'istante, per non so quale miracolo, gli ritornavano come un bumerang che faceva male al cuore. Permettetemi una piccola virata. Forse è un caso, ma mentre scrivo il mio cane che è cieco come Medoro, posa le sue zampe sulla mia gamba e fa le moine, poi salta sul divano che mi sta accanto per reclamarmi le coccole. Ci capite qualcosa? Ma ritorniamo a Medoro, Michelangelo e Peppino che cominciano a piangere, mentre nonno, emozionato quanto loro trattiene le lacrime per non far trasparire il suo stato d’animo. Il cane faceva fatica ma si trascinò lo stesso verso di loro, aveva le zampe posteriori quasi paralizzate, il suo cuore non avrebbe retto a quell’emozione e trascinandosi penosamente cadde ai piedi di Peppino che se lo strinse al petto. Nonno e i suoi figli lo caricarono sul carretto e ritornarono a casa. In paese, in un battibaleno, circolò la voce che Medoro stava in fin di vita e che, di lì a poco, sarebbe morto di crepacuore per troppa gioia. I bambini di Raddusa, buoni e cattivi, solo per un giorno, si diedero la mano per preparare solenni funerali per un cane fedele fino alla morte. Michelangelo non smise di raccontare tutti gli atti di coraggio di quel loro cane e per un giorno intero fu lutto cittadino e gli ossequi si svolsero con tutti i bambini in processione. Compare Diolosà offrì le tavole, nonno fabbricò la cassa da morto e lo seppellirono sotto un pioppo, accanto a una sorgente d’acqua, in contrada la mendola, vicino alle case che furono di Michelangelo il sanguinario.

- Così non si sentirà solo disse Peppino e potrà raccontare di noi agli altri animali che si recheranno colà ad abbeverarsi, parlandogli di noi. L’indomani, andarono a lavorare la terra che era invasa dalla gramigna, i mandorli e gli ulivi sembravano soffocare e quella visione fece capire che sarebbe stata dura per i piccoli. Sputarsi sulle mani, come facevano i vecchi, non servì a nulla e la sera, quando arrivarono a casa, morti di fatica, si guardarono le vesciche piene di sangue e piansero di rabbia. Michelangelo chiese al padre:

-Ma ditemi una cosa, a chi appartiene questa maledetta terra? Nonno aveva capito bene la domanda, ma si finse ignorante. In verità, sapeva cosa voleva dire il suo ragazzo, ma gli fece ripetere, ancora una volta la domanda. Nonno rispose, come meglio sapeva e poteva, e saggiamente, disse più o meno cosi:

-Apparteneva a qualcuno che ora non c'è più, perché è morto. Adesso ci appartiene e sicuramente, domani, sarà di qualcuno che non è ancora venuto al mondo. Questa risposta è chiara ed esauriente?

-No padre, non è chiara, s’è così: ditemi, perché la gente si uccide e si perde per possederla?

Come spesso accadeva, nonno tagliò corto e disse:

-Tutti a letto, domani ci attende una dura giornata di lavoro! Quella terra era poca, ma anche se l'avessero trattata come un’amante esigente, non sarebbe bastata per farli vivere decentemente.

Bisognò prendere delle terre in gabella e fare qualche trasporto. Nonna, col suo innato senso degli affari e con l’aiuto delle figlie, mise un paniere davanti alla porta di casa e si mise a vendere di tutto. Quattro mesi dopo, Dio reclamò il primo sacrificio umano, ma non lo fece come per Abramo e non mise alla prova nonno, ma gli rubò Santino, l’angelo biondo dagli occhi azzurri. Il bimbo aveva appena 22 mesi. Subito dopo, nacque Genoveffa non bellissima ma adorabile e sempre disponibile, una figura difficile da dimenticare. Nacquero: Bianca, Clelia e Angelo. Nel 1908 erano dieci i figli viventi. Fu in quell’anno che nonna poté comprare la casa del viale Regina Margherita. Papà aveva 14 anni ed era il solo a poter sperare di fare grandi studi, era l’orgoglio dei suoi genitori. Il suo maestro diceva che avrebbe meritato di continuare gli studi superiori e s'era possibile, bisognava mandarlo nel collegio dei gesuiti di Aidone. La cosa non dispiaceva a papà che non amava i lavori della terra ma quell’idea di nonno era devastante e a qualcuno, quel progetto degli studi per mio padre non sarebbe piaciuto e di lì a qualche giorno, le prime guerre fratricide si sarebbero accese. La gelosia rodeva il loro stupido orgoglio al punto tale che tutti dissero no! Nonno non sapeva come fare per addolcire la pillola e quella sera, a cena, rimise sul tavolo la questione Vincenzino. La reazione dei grandi fu enorme. Michelangelo e Peppino trovavano ingiusto che col pretesto d’essere più intelligente, cosa che era da vedere, egli potesse evitare i lavori dei campi. Nessun privilegio per nessuno o tutti alla zappa o tutti a scuola, anche se loro due non lasciavano sperare niente di buono. Michelangelo era egocentrico e violento, tanto che quando lo pizzicava la mosca perdeva il controllo e diventava una bestia assetata. Peppino, colpito a una gamba dalla poliomielite, si era messo a bere nella speranza di ritrovare il coraggio d'un tempo quando, nulla e nessuno gli facevano paura e così, con un bicchiere di troppo nel corpo e nell'anima, anche lui cercava la lite di brutto. E quella sera, a tavola, i toni montarono:

-Se lo mandate ad Aidone, vi abbandoniamo e andiamo a lavorare come garzoni dagli altri contadini, svergognandovi. E papà rinunciò e abbassò le corna. La pace non fu fatta, ma tutto rientrò nell’ordine e nella mediocrità di una famiglia che tra breve sarebbe andata “A carte quarantotto!” Nostro padre si piegò, non disse nulla, perché era così e basta, rassegnato e rispettoso. Ai suoi 18 anni, ebbe un lampo di genio; era l’ora di cena, erano riuniti a tavola, Vincenzo volle tentare d’esporre una sua idea che non era male; chiese e ottenne la parola per proporre di formare una società di trasporti: 15 cavalli, o muli; loro tre e dodici garzoni, con i quali, sfidare qualunque concorrenza e accettare qualsivoglia trasporto. Nonno disse di sì, a condizione di non prendere con loro Salvatore e Angelo, bestie da soma, lavoratori, i soli che nonno era riuscito ad addomesticare. Cinque anni passarono e tutto sembrava andare per il meglio. Nonna era incinta e aspettava un altro bimbo o bambina. Nonno s’era ammalato e nessun dottore sapeva diagnosticare il male. Dimagriva a vista d’occhio, affaticato, restava a letto come minato da chissà quale male misterioso. Tutta la famiglia gli stava accanto, cercando di alleviare il suo dolore. I maschi gli parlavano della terra e della loro riuscita con i trasporti. Le figlie e la nonna lo lavavano e l’imboccavano, obbligandolo a fare nuovi progetti, ma lui era assente e lontano. Sembrava che non stesse più con loro. Una sera delle poche che gli restavano da vivere, fece segno a mio padre di avvicinarsi al capezzale per dirgli, con un filo di voce:

-La sorte s'è decisa, vuol farmi male, colpendomi a morte! Mi rendo conto che la vita e la morte vengono senza chiedere il permesso a nessuno. Vincenzo, sappi che in questo momento d’immensa debolezza, voglio credere in questo Dio che mi ha sconfitto. Ero convinto, ma ora non lo sono più che eravate venuti al mondo perché l’avevo voluto io. In verità, il miracolo della vita non è solo dovuto al caso, né ai nostri voleri! Ci sono ragioni incomprensibili che solo adesso accetto, perché continuo a non capire. Se potessi, vorrei ritornare indietro per cercare d’essere un padre e un uomo migliore. Ora, a te che sei il mio preferito in quanto uomo e non figlio: ti chiedo di vigilare sulla mia famiglia, correggi i difetti e alimenta i loro pregi. Ti chiedo scusa per non averti aiutato per la questione degli studi. Cerca d’essere accorto nell’armonia e nell’amore per i tuoi figli a venire. Prima di morire voglio regalarti una storia. E’ la storia degli uomini che, se l'avessero imparata a memoria, sarebbero potuti diventare come le stagioni della terra. Non dimenticarlo mai, siamo fatti di terra ed è la che ritorniamo:

-Una stagione per seminare, una per raccogliere, una per riflettere e una per vivere!

Mi ricordo ancora del tempo, quando gli uomini si contentavano di poco. Gli idealisti ci hanno fatto sognare, sperare e noi li abbiamo seguiti sui sentieri dell’utopia di una giustizia cieca. Questo mondo incapace d’eliminare la povertà, non doveva sbocciare.

-Papà, il ricco ci ama?

-No figlio, e questo lo sanno tutti. Dio lo diceva, molto tempo fa e ora non lo dice più perché le mode cambiano, ma allora Dio disse che era più facile, che un cammello passasse attraverso la cruna di un ago, che un ricco dalla porta del paradiso! E ora? Loro se ne fottono perché possono fare a meno d’amarci, ed io che sono tuo padre e non posso ingannarti, ti dirò che un ricco siciliano s'intende meglio e di più, con un facoltoso arabo, piuttosto che con un povero raddusano. Il denaro fa l’unione e la forza, la miseria fa i pidocchi che non hanno nemmeno bisogno d’essere ingravidati.

Povero nonno, la morte gli stava fottendo la vita e aveva soli 53 anni, mentre la sua famiglia, inerme, doveva lasciarlo partire senza veder nascere il suo ultimo figlio. Dio? Rimaneva indifferente! L’aveva detto a nonno:

- Non sei che un quaquaraqua!

L'onnipotente non se lo filava per niente e si scomodava solo per gli uomini illustri e nonno, non era stato mai un uomo importante. Il beccamorto inchiodò il coperchio, e dopo tante lacrime, i suoi quattro figli più grandi lo portarono a spalla. Nonna chiese e ottenne un funerale cristiano e loro, senza discutere lo portarono in chiesa. “Dio, il Figlio e lo Spirito Santo”, erano là e per paura delle loro reazioni, “i tre in uno” non fecero nessun commento. La Santissima Trinità non ebbe il coraggio di dire quel che pensava della nostra famiglia che non vedeva l’ora di scappare da quella casa, piena di statue di gesso. La dimora di Dio non prometteva niente di buono. Papà levò gli occhi al cielo e in un momento d’incerta rabbia divina, disse:

-Dio come ti odio!Ti maledico per il male che hai fatto ai miei. Ti auguro di andare all’inferno. Che stupido che sono! Sei Tu l’inferno! Perché hai fatto questo? Che cosa volevi dimostrare? Dio vendicativo e temerario, ti auguro di soffrire tanto quanto noi.”

Peppino era uno straccio, dei quattro, era il solo che nelle sere d’estate, sotto braccio al suo papà, s'accompagnava per andare a bere un bicchiere di vino nella bettola di don Liborio. Nonno e Peppino facevano pensare a me e a mio padre. Quanti ricordi, quante passeggiate e quante volte, dopo i comizi di Giancarlo Paietta o Pompeo Colaianni che si nascondevano quando stringevano la mano ad Almirante; ( per anni ignorai quei loro maneggi e i compromessi storici e in tanto, dopo i raduni di folla con scazzottate da destra e da sinistra), rientravamo tutti a casa, felici-infelici e dandoci la buonanotte e cantando Bella Ciao. A forza di parlare di politica, riuscivamo a fare il giro del mondo, senza scalo! Come potevamo credere che l’uomo sarebbe cambiato. Com’eravamo utopisti, allora? Quante volte, cercammo di risolvere i misteri della vita, senza riuscirci. Adesso, papà non c'è più, la morte l’ha portato via, presto o tardi, l'uno dopo l'altro, toccherà a noi e sarà la fine delle nostre storie. Ma prima di sparire, caro papà, vorrei affermarti una verità che detta da me, tu non accettasti mai:

-I carri armati a Budapest erano veri e i morti pure! Non fu mera propaganda anticomunista. Poi te ne andasti via e il muro della vergogna cadde, trascinando con sé tutta l’internazionale socialista. Addio dittatura del proletariato! Addio falsa Unione Sovietica, speranza di tutti i poveri del mondo. Le nostre liti politiche, non le dimenticherò mai né quando mi chiamavi reazionario e venduto al nemico e mi guardavi, come se fossi un vero disfattista. Col tuo credo politico e col tuo ateismo, hai fatto deviare la mia vita e mi hai trasformato in un uomo pieno di dubbi. Io non te ne volevo e non te ne voglio perché troppo grande era ed è l’affetto che ti porto e che non si può cancellare. Scusatemi se mi sono lasciato trascinare dai ricordi. Cercherò di calmare la mia tristezza e di ritornare a parlarvi della loro infanzia e di quello che accadde a Michelangelo che riuscì a tornarsene in Brasile e fidanzarsi con una figlia di Tanuzza, nemica giurata di nonna. Poi, al seguito di non so quale disgrazia, ritornò in Sicilia, dove non raccontò mai cosa gli era capitato. Con la morte di nonno e il ritorno di Michelangelo, in seno alla nostra famiglia s'istallò l'anarchia e Michelangelo incominciò a maltrattare Peppino e Salvatore, avrebbe voluto fare altrettanto con nostro padre, ma senza riuscirci, perché papà era più alto e più forte di lui e ogni volta che ci provava, si ritrovava col sedere per terra. Nonna non ce la faceva a contenerli tutti in una volta e

dovette delegare nostro padre per prendere le redini della famiglia ma papà ne avrebbe fatto a meno, perché le donne dei Cammarata, erano migliori di loro e quasi tutte avevano gli attributi che fanno gli uomini. La più capace tra loro era zia Bianca, che solo dopo l’abbandono di papà, avrebbe assunto il comando della famiglia e somministrato schiaffi a destra e a manca, ma non corriamo troppo e ritorniamo a quell’epoca nella quale, il capo di famiglia dichiarato, era ancora mio padre. Peppino pagava per tutti e Michelangelo, sadicamente, ne aveva fatto il suo giocattolo preferito! Non gli dava respiro e spesso, lui e Peppino si battevano come cani e gatti, poi, alla fine d'ogni lite, Michelangelo, le prendeva da nostro padre. Era una famiglia, che si mordeva la coda in perpetuo movimento di colpi bassi e meschini. Una sera che papà non si trovava a casa, Michelangelo e Peppino litigarono e come al solito, il perdente era sempre lo stesso, Peppino malconcio e umiliato, uscì e andò nella bettola a vino.

-Baciamo le mani, don Liborio.

-Baciamo le mani don Peppinello bello! Era il 1912, ed era la fine del mese d’agosto e nulla faceva presagire che per il minutissimo zio, la serata che stava iniziando sarebbe finita male. Egli fu il primo cliente della serata, si sedette alla tavola del centro, quattro sedie, in una posò il suo sedere e in un’altra il bastone e la coppola, nell’ultima, come roba fragile adagiò la gamba poliomielitica. Comandò mezzo litro di rosso di Pachino, poi, riempiendosi il primo bicchiere, lo guardò in controluce per ritrovare il colore di sempre.

-Grazie don Liborio.

-Non c’è di che, don Peppino bello.

Il vino gli fece l’effetto che sperava: scongelare le sue pene e s’era possibile riportarlo, come ogni volta che beveva, con l'anima e il corpo, in Brasile. Al secondo bicchiere, si rivide sulla nave che lasciava il porto brasiliano. Sul molo, c’era ancora l'immagine di Concita che lo salutava e piangeva. Chissà se l'aspettava ancora. Peppino aveva 22 anni e la nostalgia era infinita come la voglia di ritornare bambino. Si rivide in Piazza Alfandega, intento ai suoi piccoli e complicati traffici, pensò ai suoi compagni e al signor Calligaris, cercando di ricordarsi come tutto era facile e ora non l'era più. Lo chiamavano l’angelo giustiziere, sempre pronto ad aiutare quelli che avevano bisogno. Come dimenticare quel vecchio siciliano che aveva chiesto i suoi servizi. Quel personaggio era stato un uomo che, durante la sua gioventù, aveva fatto tanto bene, ma ora che poteva più muoversi perché inchiodato su una sedia a rotelle, aveva bisogno d'aiuto. Tutta la città, quella dei poveri, riconoscenti, gli doveva qualcosa che alcuni ragazzini provvedevano a recapitare. Solo che a volte, qualcuno di questi scappava con quei pochi spiccioli. Fu così che tu, il piccolo pirata siciliano, entrasti nella sua vita e gli alleviasti la sofferenza dell'essere e lui, del tuo aiuto, ti fu riconoscente. Ogni sabato, facevi il giro dei suoi amici, raccoglievi i pochi soldi per farlo sopravvivere decentemente. Fosti il solo ragazzino che non gli rubò mai un soldino. Mi ricordo il giorno del vostro primo incontro. Il grande uomo e il picciotto non ebbero bisogno di parole.

-Diventasti il suo principe devoto e il compagno fedele. Poi la nostra famiglia rientrò in Sicilia e lui, povero vecchio uomo, si sentì morire e non smise di pensare a te. Quei ricordi gli facevano male al cuore. Beveva e piangeva senza alcun ritegno; gli mancavano, la cara immagine del bravo e gentile vecchio e insieme tanti altri ricordi che mancavano come a un bimbo frustrato, che sprofondava nel suo immenso dolore. In meno di un’ora, la bettola s’era riempita di gente e lo zio, preso dai suoi pensieri, non se n’era accorto. Quattro uomini, quasi tutti della sua stessa età, si sedettero alla tavola accanto. Lo guardarono e risero di lui. Peppino, assorto nei suoi pensieri e un po’ avvinazzato, non li focalizzò subito, ma dopo qualche minuto, li riconobbe. Quella gente apparteneva a una società di carrettieri, rivali in affari e facili alla lite. Quello che sembrava il capo si alzò e col bicchiere colmo di vino, finse d’inciampare e gli si buttò addosso. La gente presente, vedendo la scena, scoppiò a ridere, tranne Peppino che si ritrovò col culo per terra. Ebbe solo un attimo di smarrimento e poi, con repentinità, si alzò e mollò un ceffone a quel figlio di una guardiana di fondaco (rimessa per carri, cavalli e giacigli per i viandanti). Scoppiò una battaglia, Peppino ebbe la peggio e ricadde steso al suolo, malamente e ammosciato. Prima della lite, era stato un coro di risate, dopo un silenzio agghiacciante gelò la sala, perché il ferito non era uno qualunque ma Peppino Cammarata, fratello di Don Vincenzino. Guai ai vincitori di quel breve scontro impari. Quell’affronto andava

riletto e corretto. La bettola si svuotò, anzi, fu un fuggi-fuggi generale. Don Liborio corse ad avvertire i fratelli. Fu papà ad arrivare per primo, lo sollevò e lo prese in braccia come un bimbo; per strada incontrò Michelangelo al quale lanciò uno sguardo di rimprovero. Entrò nella stalla, l’adagiò su una balla di fieno cercando di rincuorarlo. Mentre gli puliva il viso, gli fece promettere di non dire niente alle donne di casa. Tutti i maschi si misero a tavola, mentre le donne, com’era usanza, mangiavano dopo perché, secondo loro, rompevano l'anima e s’immischiavano nelle cose degli uomini. Discussioni e piano d’attacco per punire quei bastardi. Michelangelo voleva partire subito, ma papà non era di quell'avviso. Bisognava far finta di niente, lasciar calmare le acque e colpire quando meno se l’aspettassero. Nonna non era una stupida e poi, il viso tumefatto di Peppino parlava da solo. I suoi figli cercarono di rassicurarla:

-Non è nulla, ha bevuto un bicchiere di troppo e non ha visto che c’era uno scalino. Era una sera d’agosto e la gente era tutta fuori, per strada; I Cammarata di quei tempi, si affacciavano e ora non sì vedono più su quei balconi del corso principale di Raddusa, perché son tutti morti e perché la casa appartiene ad altri. Le imposte erano aperte e nel salone si continuava a mangiare. Dalla strada giungevano i rumori del passeggio della sera. Verso le ore 22 gli uomini della carovana avversaria passarono sotto la casa dei nostri e si fermarono proprio sotto al balcone principale; nell'aria risuonò uno stornello a dispetto, per scassare la precaria tranquillità di quell'infausta serata d'agosto, la voce che montava forte e provocatoria, era quella del capo della banda avversaria:

-Eih! Voi di lassù ascoltate bene: quello che avete avuto, è stato solo un acconto, il resto ve lo daremo domani. Dopo l'incontro e le spiegazioni che vi forniremo, le vostre teste non avranno più bisogno di coppole! Michelangelo, simile a una belva, scattò e scansando tutto e tutti, scese le scale a quattro a quattro, ma trovò davanti al portone una barricata: Bianca e le altre sorelle per catturare quell’incosciente d'un fratello. Papà, anche lui perse le staffe e corse nella sua stanza per impugnare la pistola. Eccolo apparire sul ballatoio del balcone, mirando e cercando di tirare nel gruppetto, ma la forte mano di nonna, con una manata bene assestata, gli fece deviare il tiro e il proiettile della sua pistola che s’incastrò nel muro della casa di fronte. Il viale, come nel caso della bettola, si svuotò e la gente tremante, scappò per chiudersi in casa o andare lontano da quel luogo. Un’atmosfera di cattivi presagi calò sui tetti delle case di Raddusa. Il paese e la gente dovevano prepararsi a vivere una cruenta serie di vendette che da quel momento sarebbe stato come ai tempi, di “Occhio per occhio e Dio ce ne scampi”, sarebbe stata un’altra ( cavalleria rusticana). Prestissimo, un nuovo mattatoio avrebbe aperto i battenti. Guai ai vincitori di quattro contro uno! Sarebbero stati cavoli loro! La nostra famiglia si calmò e decise di partire al lavoro, come se non fosse successo nulla, e da quel giorno tutti i fratelli, insieme, mano sull’elsa dei coltelli e armati fino ai denti. E venne il giorno di dopo, tanti altri seguirono, ma dei loro nemici nessuna traccia. Sembrava che la terra li avesse inghiottiti. Il maresciallo della caserma dei carabinieri, amico della famiglia avversaria, era corso ai ripari. Aveva cercato e trovato, per i nostri nemici, un appalto di trasporti a Mirabella Imbaccari, della durata di un mese, sicuro che con quella sua trovata, si sarebbero calmate le acque. Ma non conosceva bene i fratelli Cammarata e sopratutto, lo zio Michelangelo che voleva, a tutti i costi, il sangue dei suoi rivali. Egli era stato barbiere e usava il rasoio con maestria e lo teneva sempre nel taschino della sua giacca. Il 10 settembre fu un giorno maledetto, le due carovane si trovarono faccia-faccia e tra loro, solo un ponte d’attraversare, un solo carro per volta poteva passare. Michelangelo, come al solito, era sul primo carro. Credere o pensare solamente che nostro zio potesse cedere il passo ai suoi avversari, bisognava toglierselo dalla testa. Dall’altra parte del ponte, i carri di quell’altra famiglia tentarono di conquistare il diritto di passare per primi. Michelangelo pazzo, ma non scemo incominciò a prendere la rincorsa. Bisognava correre più degli altri e conquistare il centro del ponte e lo fece a rischio e pericolo di scapicollarsi nelle acque del fiume se volevano vincere quella battaglia dovevano bloccare i loro nemici fuori dal ponte. Odio contro odio, miseria animalesca contro miseria bestiale. Immaginate la riviera del ponte di Kway, ma in piccolo e quasi a secco, perché le prime piogge tardavano a venire. E in tanto il sole era allo zenit, i carri erano carichi di sacchi di grano e i cavalli che erano gia stanchi, non capivano il significato di quella sosta forzata, che solo i garzoni delle due carovane sospettavano, perché sapevano della lite della bettola e quel giorno tremavano come foglie al vento. Il primo carro che

conquistava il ponte, avrebbe impedito l’accesso all’altra carovana. Michelangelo prese tutti alla sprovvista e in meno che non si possa dire, si portò al centro del ponte, ma con i suoi fratelli lontani da lui e i nemici, tutti intasati davanti.

Sembrava Ettore Fiera-Mosca e come quel personaggio storico si piazzò sul selciato, col rasoio in mano che brillava al sole e invitava i lanzichenecchi ad avanzare sotto a un cielo caldo di settembre. Prima che i nostri arrivassero per portargli soccorso e prima che gli avversari potessero toccarlo, Michelangelo aveva rasato le barbe e le gole a quattro di quei simpaticoni. Peppino, come arma, non trovò di meglio, che la sua inseparabile frusta e il bastone, scendendo dal carro al grido:

-Aspettatemi, ci sono anch’io. E i nemici l’aspettarono e in due, l’incravattarono, mentre un terzo, con una barra di ferro, cercò di fracassargli il cranio. Nostro padre era ancora sul suo carro, a cinquanta metri da lui e non potendo arrivare a tempo per soccorrerlo, in preda al panico, estrasse la pistola, appoggiò il ginocchio sinistro su un sacco di grano, ed io pensai subito a quando, alcuni anni dopo, in guerra avrebbe ucciso, meritandosi medaglie e onori, e lui, quel giorno, senza esitare sparò e l’uomo con la barra in mano crollò al suolo come un sacco di patate. Quel colpo di pistola fece scappare i nemici, mentre i loro carichi restarono sopra e oltre il ponte. A quel punto i garzoni della banda rivale sgombrarono il ponte, caricarono il ferito grave, quelli affettati da Michelangelo e ripartirono verso il paese. Una parte di avversari della nostra famiglia, simili a un’ammucchiata di conigli scapparono a nascondersi in un casolare sulle montagne dei dintorni, mentre i nostri eroi, delusi e per nulla sazi, non gridarono vittoria. La battaglia era stata di breve durata. L'eccitazione, il caldo e la violenza delle intenzioni avrebbero potuto dare un’altra dimensione a quel fatto di sangue. I Cammarata si sentirono defraudati. Sul ponte c'era stata la valle di Roncisvalle, per modo di dire, mentre il selciato aspettava ancora chi sa cosa. I colpi avrebbero potuto essere di più e più violenti. Dopo di tutto, era quello che volevano i fratelli di mio padre che guardandosi intorno portò le mani ai capelli, per cercare di riordinare le idee. Quel massacro, non l’aveva previsto così, avrebbe voluto mollare qualche ceffone e qualche sputo in faccia. Ma in quel preciso momento bisognava correre ai ripari e senza perdere la testa decise che: Michelangelo, Salvatore e Angelino, sarebbero ritornati al villaggio, mentre papà e Peppino si sarebbero nascosti tra le rovine di Morgantina, vicinissime ad Aidone e alle famiglie dei nonni. Il ritorno della nostra carovana non fu un trionfo e una volta a casa, i carabinieri arrestarono Michelangelo, ma lui non parlò molto, disse solo:

- E’ stata, legittima difesa. La situazione si fece difficile e chiedere aiuto al loro cugino Michelangelo, figlio di Rosario, sarebbe stato impossibile, i carabinieri di Aidone erano stati avvertiti e loro, avrebbero fatto bene a costituirsi, ma non lo fecero subito e in quel frangente, restarono nascosti in mezzo agli ulivi di Morgantina e dintorni, tra i fantasmi del passato e qualche merda di capre e buoi. I pecorai, senza che papà lo sapesse, erano quasi tutti uomini di mano della mafia locale che a tutti i costi, voleva prendersi cura di loro, avvertendoli ogni qualvolta che avvistavano una pattuglia di carabinieri. I nostri cugini di Aidone, tramite i pecorai, gli fecero avere da mangiare, da bere e qualche coperta di lana per le notti all’addiaccio. Durante la loro fuga e quella degli avversari, le due famiglie si trovarono in difficoltà. La miseria scarpinò sulle mattonelle della casa dei Cammarata, l’ultimo dei suoi nati, Cristoforo Junior, come il papà che non avrebbe conosciuto, aveva circa 10 anni e la forza di un uomo fatto, pare che laddove finiva la sua colonna vertebrale, incominciasse una coda. La gente di quei tempi, diceva che i bimbi che venivano al mondo con quel segno particolare, possedevano una forza erculea e devo dire che, nel suo caso, era così. Quando quel piccolo diavolo s’imbestialiva, non bastavano dieci persone per immobilizzarlo e i suoi fratelli, per il piacere di vederlo all’opera, gli lasciavano accatastare di tutto, perfino i ragazzi più grandi di lui! Ma di tutto ciò ne parleremo più avanti e per il momento ritorniamo ai nostri eroi e a quel triste periodo. Nonna dal dispiacere gli s'ammalò il cuore. Grazie a Dio, con le sue figlie accanto fece miracoli, il solo ometto valido era Salvatore, Cristofaro junior e Angelo erano troppo giovani, i cavalli nelle stalle e i debiti da pagare non aiutavano nonna. Gli avvocati costavano e lei doveva occuparsi di tutto. Ora, grazie ai racconti di mio padre e di zia Giuseppina, mi diventa più facile immaginare e scrivere questa loro storia. Per farlo mi servirò, anche, di un mio personale ricordo. Nel 1998, di passaggio ad Aidone, trovandomi nella piazza del paese e più esattamente nel

bar dei figli del cugino di mio padre, Michelangelo di Rosario Cammarata, fratello di nonno Cristofaro, ricordo che ero con la mia terza moglie e stavamo sorbendo un buon caffè, quando a un tratto, i miei cugini, mi parlarono di Morgantina e dei ricordi del loro papà, che raccontava, esagerando, di quella famosa mattanza dei loro cugini che, per sfuggire ai carabinieri, s’erano acquattati tra le rovine di quella città morta. Quella sera, a Morgantina,nell’Agorà, piedi dell’antico villaggio che era teatro e piazza allo stesso tempo, sarebbe stata rappresentata una tragedia di Euripide. Quale migliore occasione per scoprire quel luogo e forse, trovarvi le orme e l’odore che, durante la loro fuga, papà e Peppino vi avevano lasciato impressi! L’idea di visitare quei luoghi mi piacque e anche s’ero vestivo tresc, con pantaloncini, sandali e una leggerissima maglietta, facevo pena a guardare, decisi di andare, anche se il mio abbigliamento... lasciava un po’a desiderare. Andammo a vedere quello spettacolo facendoci trasparenti in mezzo a gente che sfoggiava la più arrogante delle eleganze. Quando la notte scese su di noi e il sole passò le consegne alla luna, la magia e il mistero mi afferrarono per mano, per farmi sognare e vibrare. Diecimila fiammelle a olio si accesero lungo il sentiero e sui gradoni. Alle mie spalle si stese il buio. Un raggio di luna galeotta e interessata mi bussò sulla spalla per tentarmi e prima che il sipario si levasse, un alito quasi umano mi soffiò sulla nuca, facendomi gelare l’anima. Erano i sospiri di Vincenzo e Peppino o era solo uno spartito che dovevo leggere a tutti i costi? La notte sfavillava su di noi ed io mi lasciai prendere nella sua trappola e come uno zombi afferrai la mano della mia donna e, in trance, andai oltre i gradoni e oltre l’antica fornace a mattoni. Arrivammo ai piedi di un ulivo millenario che, d'allora, è ancora là, verde e vegeto, più di tanta gente. Peppino e Vincenzino, senza che io l’avessi chiesto, anche loro erano lì, ai piedi dell'ulivo, dandomi le spalle e guardando verso Raddusa. Erano intenti a guardare verso il cocuzzolo, dove sedeva il loro villaggio, parlando senza curarsi di me e mia moglie. Discutevano del dramma che li aveva colpiti, parlavano dei loro familiari e del male che avevano fatto. La prima voce che riconobbi fu quella di Peppino che diceva a papà:

-Ti vedo triste, cosa hai?

- E me lo chiedi pure? Non ti rendi conto che col tuo vizio di bere, mi metterai sempre nella merda!

-Scusa ma questa volta avevo ragione! Non avevo fatto nulla per provocarli.

-Povero fratello mio!

Peppino non rimpiangeva nulla e diceva che quella macchia andava lavata.

-Vincenzo. Ricordati una cosa. La vita, con noi, fino adesso, non è mai stata generosa. Io non so di cosa sarà fatto il nostro avvenire ma ogni volta che uno stronzo mi darà uno schiaffo sulla guancia sinistra, io porgerò la destra alla vedova di quel tipo che ha osato colpirmi.

Papà, sapeva che Peppino, in fondo, era un povero Cristo e che da grande sarebbe stato un anti-eroe e che col tempo si sarebbe dovuto occupare di lui e dei suoi figli. Papà non lo sopportava più, e sentii che lo stava sgridando:

-Smetti di prenderti per Zorro e cerca di mettere nel tuo piatto la vita e i sentimenti migliori che sono certo che porti dentro al tuo cuore.

Peppino non l’ascoltava mai e quella sera, più che mai, ai piedi dell’ulivo millenario, voleva svuotare il sacco e replicò:

-Me ne frego dei miei sentimenti migliori e se fosse possibile vorrei che Dio mi spiegasse una cosa: il perché e il come di tutto ciò e se dovevamo essere noi i destinatari.

-Eih tu! Nano maledetto! Piccolo mariolo, lustrascarpe da strapazzo, perché continui a coltivare questo tuo carattere di merda? Perché, tu e Michelangelo ci attirate addosso tutte le disgrazie di questo mondo?

- Oh! Vincenzo! Lo so che sei intelligente e t’esprimi bene con i tuoi pensieri e forse credi anche nei misteri divini, ma non mi scassari i castagnettes Questa sera, a te solo lo dirò: non credo più ii nessuno e nemmeno in Dio. Nella mia testa anche i sogni sono falsi e ingannevoli. Quando eravamo in Brasile, quasi tutte le notti, sognavo storie di angeli e miracoli di Santi. In uno di quei sogni, una notte, un angelo venne e depose un uovo sul mio letto, così come facevano le galline! Voleva farmi credere che era il simbolo del mistero della vita. Ebbi paura di romperlo e non osai toccarlo, ma un giorno, la tentazione fu più forte della promessa fatta a quell’angelo che m'aveva fatto un regalo avvelenato che si sarebbe rivelato una delusione. L'angelo ingannatore m'aveva fatto giurare che

per nessuna ragione al mondo avrei dovuto romperlo. Se l’avessi fatto, avrei dannato la mia vita per l’eternità. Purtroppo, ero un ragazzino curioso e lo presi in mano e poi, di proposito, lo lasciai cadere a terra e quello s’aprì. L’uovo cercò di resistere, ma si ruppe lo stesso come un uovo qualunque, ma in due parti uguali, era vuoto! Il sogno s’interruppe ed io mi ritrovai seduto sul bordo del letto, con le due metà del guscio nelle mani. Guardai attentamente, dentro c’era il vuoto assoluto, perché? Poi, dopo un’attenta e minuziosa ricerca, sotto la pellicola rinsecchita dell’uovo, in trasparenza, una scritta scolorita ma ancora leggibile apparve, grattai e lessi:

“Così è se ti pare, se non vai, e prenditela in quel posto” !

Papà cercò di sdrammatizzare e ridendo, disse:

-Lo vedi che gli angeli esistono!

-Certo che esistono, ma non per noi. Caro Vincenzo, l’avvenire t’aiuterà a capire molte cose della vita e tu, come me, col tempo, non crederai in Dio. Non siamo noi che non lo meritiamo, è Lui che non fa per noi.

-La morte, non ti fa paura?

-No! Gli rispose Peppino.

-Non ho più paura di nulla. Lasciami chiudere gli occhi, sperando che Euripide, anche lui, si ritiri dalla scena e vada a dormire nella sua tomba, perché son tre sere che mi scassa i timpani, come te.

Le care immagini sparirono al suono del gong che annunciava l’atto unico del Polifemo di Euripide. Mia moglie mi strattonò e mi disse:

-Che stiamo facendo qua?

Incredulo e scioccato, dissi:

-Nulla! E ce ne ritornammo sui gradoni dell’Agora per seguire, distrattamente, quel noioso spettacolo.

Ottava parte

Il giorno dopo, di buon mattino, ripensando a quella visione tra le rovine di Morgantina, non potei fare a meno di scrivere l’episodio di quella serata di cari fantasmi. E mi ricordai di quando il padrino della zona, don Calogero Vizzini, mandò due picciotti per convincere mio padre ad affiliarsi alla mafia. Papà non mangiava di quel pane, ma misurato com’era, ringraziò lo stesso e disse no! Qualche giorno dopo, Peppino e papà si consegnarono nelle mani della giustizia. La verità venne a galla e fu fatta chiarezza, a condizione che qualcuno pagasse per i cocci rotti. Il solo a essere condannato fu mio padre che aveva sparato e ferito un uomo, che per fortuna era guarito, anche se, due mesi dopo, d’un colpo di bottiglia alla testa, sarebbe morto per un altro bicchiere di troppo nella bettola di don Liborio. E intanto, papà, fu condannato a 18 mesi di carcere da scontare all’Ucciardone di Palermo che certamente non era l’hotel delle Palme.

All’Ucciardone si entrava nell’anonimato e se il giovane detenuto eseguiva bene il noviziato, alla fine della condanna, poteva ottenere un posto nella disonorata società. Tre mesi dopo esser stato imprionato come ospite “forzato”, nelle bacheche del grande corridoio che portava alla cantina, apparve un avviso del ministero della guerra che annunciava a tutti i condannati per crimini comuni, che se avessero voluto accorciare la propria pena, avrebbero potuto arruolarsi nel regio esercito di sua Maestà Reale per combattere contro Menelik, che papà non conosceva ancora. In quei tempi, il nostro caro Vincenzo era nazionalista e fanaticamente religioso. Firmò la domanda d’adesione, dichiarando che la patria era importante, ma mentiva, il suo solo desiderio era di uscire da quelle quattro mura e poi, 4 + 4 che non sempre fanno 8, trasformandosi in un imbecille perfetto, forse, sarebbe riuscito a farsi riformare e a ritornare in seno alla sua famiglia, per riscattarsi e farsi perdonare dalla madre che aveva deluso. Dopo aver baciato sorelle e fratelli, madre e giumenta, prese la corriera per Catania e si presentò al distretto militare. Rifece, in treno, il tratto Catania-Messina e là, si rese conto che nulla era cambiato, qualche pianta d’arancio in più e la desolazione di sempre. A Napoli, da tempo, il Borbone non c’era più, ma anche lì non era cambiato nulla e gli venne in mente, l’albergo miramare e il pappagallo Ali- Babà. La tradotta militare, dopo un’ora di sosta, riprese la sua strada e fu poi Roma e quando papà vide le rovine dell’antica Roma, fece finta di non sapere e per far ridere i suoi vicini, disse:

-Mizzica, hanno già bombardato Roma? Potevano aspettarci!

Poi, arrivarono a Firenze dove la bellezza e l’eleganza di quella città lo stordirono e gli fecero dire che quella era un’altra Italia! Si! Era proprio un’altra Italia e lui, pensò alla sua terra di Sicilia e convenne che era nato dalla parte sbagliata d’un mondo fatto a scale e sottoscale. Sottovoce, come un innamorato, si mise a parlare al suo cuore, sussurandogli:

- Calmati cuore mio, non temere, ti prometto che recupereremo tutto il tempo perduto. Dopo quattro giorni giunse in una caserma, nei pressi di Bologna, un’altra bella città e papà non disse più nulla, perché sapeva che non né valeva la pena. La scoperta della vita militare, certamente, l’avrebbe deluso, ma gliene importava poco, a giorni, sarebbe riuscito a farsi congedare, contando sul suo istrionismo. Si trastullava tutto il giorno sulla piazza d’armi, come lo scemo del villaggio. Non copiava nessun disfattista, aveva una sua tecnica; ripeteva incessantemente:

-Mi sentu tintu! Mi sentu tintu ( mi sento male e in pessimo stato di salute)

E lo faceva sentire a tutti, anche a quelli che avevano capito la sua combina. Un Capitano, incuriosito per la sua maniera di fare, chiamò un siciliano che parlava bene l’italiano:

-Cosa racconta quello scemo là? L’altro tradusse letteralmente, ma a modo suo:

-Qualcuno, l'ha tinto, ma non disse,

-Si sente male!

Il Capitano cadde nel tranello, ma tra se e se penso:

-Seguiamo questo povero ignorante di tre cotte, seguiamolo alla traccia e vediamo chi si diverte a tingere questo coglione.

Il capitano chiamò mio padre e gli chiese:

-Dimmi chi è stato!

Ma lui, continuava a dire, toccandosi la fronte:

-Mi sentu tintu, tintuuuu!

L’ufficiale lo squadrò bene e lo soppesò pure; quel giovane gagliardo e dall’aria intelligente, non poteva essere uno stupido e da quel giorno, ordinò di lasciarlo in pace ma di seguirlo di sottecchi, come si fa con i sorvegliati speciali, e papà, credendosi al sicuro, tranquillamente, aspettava che il superiore, un giorno o l’altro, l’avrebbe congedato per deficienza mentale. In tanto, il tempo passava e nulla accadeva, anzi, nessuno lo cagava. E lui, che si annoiava senza far nulla, per passare il tempo, decise di andare a vedere i cavalli che stavano nella scuderia. Quel suo fare curioso, insospettì il Capitano che da un mese gli filava il treno, aspettando l'occasione per prenderlo in castagna; e quel che doveva accadere, capitò. Papà, convinto d’essere solo, si avvicinò al cavallo più focoso e difficile del corpo di cavalleria e incominciò a parlargli del più e del meno, come a uno di famiglia. Con sicurezza e senza adombrare la bestia, l’accarezzò, gli diede uno zucchero, lo sellò, gli saltò in groppa e partì; ma tanto va la gatta al lardo che prima o poi, ci lascia lo zampino; la trappola era dietro a lui: quel nordista d’un superiore, che non visto, si nascondeva tra due balle di fieno, lo stava postando come un’agente della C.I.A. Papà, sicuro e incosciente, sentendosi come un pesce in acque quiete, non si accorse di nulla. Incurante e senza giudizio, uscì sul piazzale, dove in apparenza, non doveva esservi nessuno. Sentendosi al sicuro, incominciò a far volteggiare il cavallo, mentre il superiore, lisciandosi i baffi, gli spuntò da dietro le spalle, dicendogli:

-Eh bene! Abbiamo smascherato lo scemo del villaggio. Riporta questo cavallo nella scuderia e preparati a ricevermi nei tuoi prossimi uffici, perché ho da parlarti. Le carte erano state girate e ora bisognava prepararsi al peggio. Poi, eseguito l'ordine del capitano, aspettò che qualcosa accadesse. Trovandosi a faccia a faccia, con qualcuno che la sapeva più lunga di lui. Lo guardò con rispetto e allo stesso tempo con paura:

-Credevi che ti dicessi che sei un bravo soldato? Togliti la giacca! E poi, levando la sua, fece il gesto d’appioppargli un ceffone che non arrivò mai. Papà gli aveva afferrato la mano e in meno che non si dica, l'aveva fatto volteggiare come il cavallo, sui sacchi della biada. La scena si ripeté, per ben tre volte e sempre, col capitano sui sacchi e la schiuma alla bocca. La quarta volta, il superiore tese la mano al futuro caporale Cammarata e gli disse:

-Fermati, figlio di una buona donna. Non sei tu che hai vinto. Ti ho smascherato, e ora, per te saranno cavalli amari. La tua punizione sarà esemplare, così come la volevo, farai l’istruttore e

comanderai tutti i siciliani della compagnia! E pensare che Vincenzo, s’era messo in testa di mancare a quell’appuntamento con la prima guerra mondiale. E allora cosa fece? Non c’era ancora Mussolini, ma lui lo disse lo stesso:

- Credere, obbedire e combattere. E non ringraziò, ma maledisse la vita militare e le sue meschine motivazioni. Intanto, a scatenare quella contesa nel mondo era stato l’atto sconsiderato di un anarchico bosniaco, che aveva attentato e ucciso l’Arciduca Ferdinando, erede al trono d’Austria e sua moglie. Era il 28 giugno del 1914 e di lì a poco, sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale, con movimenti di truppe, formate, in maggioranza, da contadini stanchi di zappare che venivano dal profondo sud, giovani braccianti e operai, che abbandonavano le loro famiglie, i loro doveri e partivano per una guerra che non era la loro e che credevano di poter trasformare in una breve vacanza per respirare un po’ d’aria del continente, lontano dalle loro fatiche quotidiane. Le convenienze e gli interessi di parte, fecero credere che era solo per vendicare un amico del Re savoiardo. In casa Cammarata, i maschi pensarono che andare in guerra fosse una buona cosa e partirono in quattro: Michelangelo, il cognato Pistorio, il cognato Sanfilippo e papà, il solo che doveva andare a causa della condanna a 18 mesi di carcere. I tre contadini che non amavano la zappa credevano che il fucile fosse meno duro che piegare la schiena sui campi. Papà aveva un piano e una ragione per partire, ma gli altri tre che avevano creduto, come tanti, che quella là, sarebbe stata una scampagnata, si sbagliavano di grosso. Ai primi colpi di mortaio, si cagarono addosso e Michelangelo, la prima volta che venne in licenza, pensò di disertare, nascondendosi nel tetto morto, ma i carabinieri lo stanarono, poi, per rispetto verso nonna, chiusero un occhio e lo rimandarono al fronte. Dall’oggi al domani, non ci fu più nessun uomo per occuparsi della nostra famiglia. Il marito di zia Giuseppina era Sanfilippo di Valguarnera, paese che prima d’allora si chiamava Caropepe. Il paese per il quale, Angelo Musco, attore comico e dialettale del teatro siciliano, aveva coniato il detto:

“ Ah, carrapipana si!”

Episodio comico-classico del film: (aria del continente); frase che era nei dialoghi tra una moglie che diceva d’essere torinese e il marito che era fiero d’esser siciliano. In quella guerra, ci furono molti giovani che si auto-mutilarono nella speranza d’essere rimandati a casa, ma furono solo processati e fucilati. E ora, ritorniamo al capitano Lombardi e al caporale Cammarata. L’uno era piemontese, piccolo e bruno e per dire Cosa? Diceva sempre neh! L’altro era siciliano, alto e dalla carnagione bianca; tra i due, il nordico sembrava mio padre. Diventarono amici per la pelle e per la vita militare. Lombardi gli insegnò la tecnica, la disciplina e la passione per la buona lettura e lo trasformò in una macchina da guerra. Insieme partirono per la Cirenaica. Da quel momento, papà cambiò di pelle e divenne un altro uomo. Seguì un corso speciale per diventare agente segreto del contro-spionaggio e per un certo tempo, non indossò l’uniforme e tutte le notti, nella casba, s’improvvisò commerciante di pelle e si diede alla pazza gioia, ma solo per scopi militari. Nella realtà delle notti arabe agiva e sventava attacchi contro le forze italiane. Papà, a parte mio fratello Ciccio, che era e resta, il più bello di noi quattro, aveva un fisico perfetto, era fatto di marmo come un Dio greco e piaceva alle donne. In breve tempo, imparò a parlare la lingua degli indigeni e si diede a corteggiare le belle baiadere e perfino l’amante di uno sceicco, ma solo per scoprire complotti e altro. Le donne, a più riprese, gli salvarono la vita. Con loro e grazie a una di queste, frequentò la corte del Re Menelik. Con quelle sue relazioni, poté agire nell'anonimato e in tutta sicurezza. Papà non fu un vero sbirro e spesso, salvò tanti indigeni da sicura morte; tutti gli volevano bene, sopratutto, quelli che non sapevano del suo doppio gioco. Col grado di sergente maggiore e con pochi uomini, corse in aiuto del suo capitano, salvandogli la vita. Ferito e insignito di una medaglia al merito, ebbe una licenza premio e ritornò a Raddusa. Alla fine della licenza, non ritornò più in Cirenaica. Con trenta siciliani che non sapevano tenere in mano nemmeno il fucile, né tanto poco una bomba a mano, perché abituati solo alla zappa, partì per le montagne del Carso, in quel Carso del carso! Il sergente maggiore e le sue trenta reclute si dovettero preparare mentalmente e moralmente per salire in trincea, ma prima, riuscendoci appena, dovevano imparare i primi rudimenti per familiarizzarsi col fucile e poi morire per la patria. Il sergente fece l’appello: -Scannapieco, Barbagallo, Pappalardo, Mangiafico, Cantalamessa, nessuno di quei poveri ragazzi

aveva la particella davanti al cognome, né una laurea!

Diolosa? Tu sei raddusano oppure mi sbaglio? Non vi sbagliate, signore sergente, mio padre, era compare del vostro papà e quest’altro, Cantalamessa, è mio cognato. A parte il sergente e i suoi pari grado, nessuno di quei giovani sapeva della potenza di fuoco del Kaiser! Il nemico che avrebbe affrontato era l’antagonista (di Vai pensiero, sulle ali dorate...) Quelli con l’elmetto a punta, erano i figli dei Teutonici e delle Valchirie. Non avevano paura dei nostri ed erano meglio armati! D’altronde, in tutte le guerre, gli italiani, sarebbero stati sempre i più scalcagnati del pianeta terra. Il sergente Cammarata si rendeva conto che quella guerra l'avrebbe potuto fottere e vedendo, intorno a se quei mezzi soldati, si convinse che sarebbe stato più logico di rinunciare a credere che si potesse vincerla, essere e poi morire non erano la stessa cosa. E da quel momento, non cessò di guardarsi dietro per vedere fatti e cose attraverso il suo terzo occhio, quello della ragione. Diolosà e suo cognato Cantalamessa non si staccarono più dal culo di papà perché avevano una paura da non crederci. Tutti quei giovani non erano soldati, erano soldatini di piombo catapultati nell’inferno di una guerra insensata. Diolosà cercò di attirare l’attenzione del suo sergente al quale disse:

- Perdonateci, ma vorremmo ritornare sani e salvi a Raddusa! In questa compagnia non conosciamo nessuno, aiutateci a sopravvivere! E fu così che, per un passo che faceva papà, loro ne facevano due, girandogli sempre intorno, come se fossero i suoi figli. Divennero inseparabili e da quel momento Vincenzo diventò la loro chioccia. Il resto di quei giovani veniva dalla provincia di Ragusa e anche quelli erano figli di povera gente che la sete di potenza di un'Italia d'operetta, mandava al macello. Secoli di soprusi e umiliazioni ci avevano fatto abbassare le ali e ci avevano parchegiati in ghetti d’atavica miseria. Da secoli eravamo soggetti del bisogno e della stupidità umana che anche in quella guerra ci faceva partire senza capire. Un’altra cosa che Diolosà non si spiegava e chiedeva a papà, era la seguente:

- Sergente, per quale ragione ci scambiamo colpi di fuoco e cannonate al buio e perché ieri il nostro cappellano, dopo la messa, ci ha detto che siamo qui per difendere la cultura umanistica e cristiana, dall’attacco dei barbari? Sergente, ma i tedeschi non hanno lo stesso Dio di noi?

-Soldato, non pensarci! Dio sa guardarsi da questi falsi preti, anche se la morte del suo figliolo, che fu nostro fratello, non gli ha insegnato nulla. Il cappellano è una piccola testa di pupo che crede di poter riempire d’odio i vostri cervelli e farvi accettare l’idea che quei giovani tedeschi appartengono alla schiera dei senza Dio, mentre giorno e notte i morti dei due campi non cessano di accatastarsi. La metà dei soldati di Vincenzo cadevano morti o feriti e quelli che gli mandavano per rimpiazzarli facevano la stessa fine. Papà si sforzava di capire il perché di tutte quelle guerre nel mondo e a chi giovassero quei crimini. Quel giorno e quelli che vennero dopo gli insegnarono a capire tante cose. Quei giovani tedeschi erano né più né meno che gente come loro: contadini, garzoni di bottega, operai e minatori. Era come se un Dio complicato e confuso perdonasse tutto, perfino le sue stesse contraddizioni. Cantalamessa, che fino a quel momento non aveva detto una sola parola, voleva chiedere qualcosa anche lui, qualcosa che gli bruciava sulla lingua e rivolgendosi a mio padre, gli chiese:

-Scusassi, signor Cammarata, vulissi addumannarici na cosa, quando finisci sta guerra? Cu la vinci: nuautri o iddi? Non dicissi ca mi sbaglio, ma haiu l’ampressione che ci stannu allisciannnu u pilu e u contra pilu!

-Sì soldato, ci batteranno perché siamo solo buoni contadini e nient’altro!

-E Dio, in questi casi, cosa fa? Papà, non ebbe il tempo di rispondere che Diolosà, prese la palla in balzo:

-E no! Fermi tutti, non toccatemi il Padreterno! Non infilatelo dappertutto, come il peperoncino. Siamo noi e solo noi i responsabili di tutto quello che accade sulla terra. Siamo riusciti a disarcionarlo e a sfrattarlo dai nostri cuori. Dio e il Cristo, non sono morti, sono spirito e corpo e di lassù ci guardano e ci proteggono.

Ma Cantalamessa non era dello stesso avviso:

-Che mi dicite mai! Ad ascutarivi, si può affirmari ca Dio esiste ed è amico vostru!

-Non solo esiste ed è amico mio, ma prima, tanto tempo fa, Egli mi camminò accanto e mi guidò.

-Ah sì! Cognato Diolosà di stu cavulu cappucciu! Vui l’aviti incontratu? Siti amici? E comu mai

non mi l’aviti apprisintatu?

-In questa vita, no! In una delle mie mille e una vita, sì!

-Ah! In un’autra vita? Certu, iu non c’era, cuntatilu!

-Avevo 18 anni, mi trovavo in contrada la Torre e non mi chiamavo Diolosà, bensì, Spartivento.

-Complimenti, che bellu nomi ca vi sciglistuvu!

-Posso affermarvi che quella mia vita era stata la più dura delle mie vite passate.

-E ci cridu!

-Stavo arando i campi di un cattivo e malvagio padrone, quando a un tratto notai un’ombra che mi camminava accanto. Sembrava quasi il prolungamento della mia povera persona. Poi, una voce che riconobbi, mi disse:

-Non temere e non aver paura, sono io, il tuo Dio, non dubitare mai di me, a te non ho nulla da rimproverare, tu non sei come gli altri! Tu soffri talmente che per alleviare le tue pene m'accompagno al tuo dolore!

-Allora, Dio mio, perché non vi siete manifestato prima? Dove eravate, quando ho avuto bisogno di voi?

- Ero accanto a te, ma tu non potevi vedermi. Me ne stavo quasi dietro di te come un Angelo guardiano. Senza di me la tua vita sarebbe cessata.

-Allora, se la mia vita vale cosi poco perché non mi richiamate a voi?

-Vuoi saperlo? E’ perché questi ultimi tempi sono diventato un Dio impotente, superato dagli avvenimenti. Il diavolo mi ha rubato il ruolo. Vi auguro che il mondo, dopo quest’ultimo olocausto, si ripopoli d’uomini come te, rispettosi dei valori morali e credenti in Dio.

Diolosà era talmente fiero di quello che aveva detto che quasi - quasi, s’aspettava un applauso e continuò a raccontare, di quella chiacchierata col suo Dio.

-Il bene e il male, padre mio, come lo spiegate, la vita e la morte?

-( Spartivento, tu non hai bisogno delle mie risposte, guardati intorno e vedi l’uso che fanno delle loro vite gli uomini. Non ho bisogno di cadaveri, si uccidono da soli e per superbia. La vita e la morte sono ancora due misteri divini di un equilibrio inaccessibile dal quale non riescono a cogliere il significato e i contorni. Avevo creduto nell’uomo, ma m’ero sbagliato. Da sempre, l’umanità, mi attribuisce colpe non mie e crea il dubbio sulla mia esistenza. Quando, invece, se l’uomo lo volesse, tutto potrebbe cambiare. Ma l’uomo ha voglia di cambiare? Nella mia realtà divina sono un Dio stanco che getta la spugna e tu, se puoi, domanda ai tuoi simili di dare una senso al miracolo della vita e delle morti annunciate. Se gli uomini sono incapaci di gestire la loro vita, cosa ci fanno sulla mia terra? Quando tutto va bene mi costruiscono templi maestosi! Quando i crimini si ritorcono contro di loro, patteggiano col diavolo. Sappi che è da tanto tempo che ho deciso d’ignorarli e lo farò per tanto tempo ancora, perché hanno deciso di rinunciare al mio potere divino. Mi hanno disarcionato e ora cavalcano la mia collera. Attenzione a loro che non sanno dove vanno. Dì loro di cercare Dio nell’uomo e viceversa.

-Non risposi che dopo un certo tempo e gettandomi ai suoi piedi gli domandai perdono per tutti noi. Da quel giorno, Dio mi ha abbandonato e per colpa vostra non mi cerca più.

Quei discorsi erano riusciti a fargli dimenticare le cannonate; era già sera, faceva buio ed era la vigilia di Natale e quello che, a prima vista, poteva sembrare un miracolo, accade. Un soldato del Kaiser sbandierò una bandiera bianca e sulla loro trincea si accesero trenta candele, mentre nella nostra, come sempre, per carenza di candele, tanti fiammiferi di legno fecero eco alle candele tedesche. Una tregua inaspettata s’impose in zona neutra: da un lato e dall’altro delle trincee, giovani bruni e biondi, si gettarono gli uni nelle braccia degli altri e in lacrime, si dissero

“gut Natale, Camarade, buon Natale, paisanu!” Suonò mezzanotte, si spensero le candele e i cannoni ritornarono, come al solito, a intonare il de-profundis e il fuoco riprese senz’anima, e la morte ritornò per vincere.

-Sergente Cammarata! Era Cantalamessa che ancora una volta, rincarava la dose:

- che cosa è la guerra?

- Bella questione! E' la cosa più terribile che possa esserci al mondo, è quella che ruba la vita e crea il vuoto.

Sembrava che l’avesse capito, smise di rompere e riprese a spidocchiarsi, sperando che di lì a poco, una fucilata l’avrebbe ferito a un piede e l’esercito, gli avrebbe detto: -Soldato scelto Cantalamessa Michele, medaglia di bronzo, al valore militare, congedato! Si rivedeva nella piazza di Raddusa a raccontare storie di guerra e di coraggio, mentre un dignitoso sussidio e un piccolo appezzamento di terreno avrebbero assicurato un sereno futuro alla sua famiglia. Diolosà, essendo fatalista, si conformava alle leggi divine e ascoltava nostro padre con diffidenza. Cantalamessa, stanco di quel “testa a testa” contro i pidocchi, si rimise a fare domande, sempre più complicate. Voleva che qualcuno gli spiegasse il perché della povertà.

-Scemo! Fu suo cognato a dirlo e non contento, aggiunse:

-Perché da generazioni, i nostri avi sono poveri e poi, dandogli il tu, vuoi sapere una cosa? Smettila di fare domande che rompono... La povertà è la conseguenza dell’indifferenza umana! Dio Santo! Smetti di spidocchiarti, non vedi che mi dai l’orticaria?

Il nemico non sparava più e il mortaio dei tedeschi sembrava che l'avessero rubato e con lui la guerra che immaginava finita. Cantalamessa tirò fuori della trincea la testa, dicendo: -Accendiamoci una sigaretta e vediamo cosa fanno i Fritz!

Si sarebbe detto che i tedeschi, aspettassero quel suo gesto: Una caterva di fucilate s’abbatté sulle loro teste e quando il furore del fuoco si quietò, una fetta di carne d’un milite ignoto rimase incollata sul petto di Cantalamessa. Diolosa, guardò verso il cognato ed ebbe l'impressione che una scheggia l'avesse colpito. Come un forsennato, si precipitò su di lui e lo strinse a sè come se fosse stato suo fratello.

-E Basta, basta! Non è successo nulla, non vedi che non è il mio sangue, eh Cristo! Non mi stringiri accussì! Vuoi farimi moriri pi troppo affettu?

Incosciente di un Cantalamessa, non era successo nulla, ma lui ci aveva provato a cambiare il suo destino.

Diolosà, gli fece promettere di stare attento e questi, per non deluderlo, si girò dall’altra parte, alzò gli occhi al cielo e fece il gesto dell’ombrello sul braccio. Scese la notte e la luna, nonostante la guerra, ritornò a brillare sulle trincee della morte, e gli uomini? In quei momenti di luna chiara avevano interesse a prestare attenzione a ogni piccolo rumore, perché mentre la luna faceva chiara la terra, la morte uccideva il cielo e faceva tremare la trincea. Una bomba tedesca, decisa e impietosa, cadde vicinissima a Cantalamessa e gli strappò il cuore, ma nessuno s'accorse che il caro Michele era stato ferito a morte. La battaglia, impediva di guardarsi intorno. Nessuno vide, né sentì i lamenti dei feriti. Un’ora intera di fuoco e grida, mentre i topi, dopo la tempesta di fuoco, ritornavano nelle trincee, per banchettare con i cadaveri più recenti. La notte fu assai lunga e aspettando il mattino, Diolosà non cessò di chiamare il cognato che non rispondeva. Abitualmente, i morti non ritornano e non rispondono, e quel silenzio non era normale e lui non poteva accettarlo e quando l’alba si levò, tra i tanti cadaveri che giacevano nella melma, trovarono quello del povero Cantalamessa. L’orrore fu tale che Diolosà scoppiò in lacrime e vedendo che una parte del corpo del cognato s’agitava ancora, corse verso di lui, ma dovette arrestarsi inorridito. Non era vivo, era solo un grosso topo che, dopo di avergli mangiato un testicolo, indisturbato e sazio, cercava di svignarsela, attraverso la bottoniera del suo pantalone. Diolosà gli sparò una fucilata sul pisello e uccise il topo che aveva mangiato l'attributo del soldato, che aveva versato il suo sangue per una stupida e inutile guerra. Gli occhi spalancati del soldato morto sembravano dire:

-Signor Cammarata, quando ritornerete a Raddusa, raccontate alla mia famiglia che sono morto per la Patria e per il Re!

Papà guardò Diolosà e avvicinandosi a lui, gli disse qualcosa che aveva letto in un libro del capitano Lombardi, che diceva:

-gli uomini nascono liberi e puri, col tempo, imparano a uccidere e a opprimere! Dicono, che si battono per sopravvivere, ma non è vero, ed è per questo che spesso fanno il male, perché il montare dell'adrenalina gli dà un certo godimento. L’uomo non dovrebbe farsi dominare dall’odio, ma realizzare la pace e il bene tutto, con l’aiuto della ragione, dovrebbe vincere con la dolcezza delle parole, ma non è sempre così! Ogni mattino, nascono uomini e donne che col tempo saranno padroni di altri uomini e di altre donne. Vogliono e riescono a creare ordini inumani e ingiusti!

Il sergente maggiore Vincenzo Cammarata aveva ragioni da vendere ed era per questo che non credeva più alle balle che il capitano Lombardi gli raccontava. Aveva creduto e continuava a voler cercare la fraternità e l’amore che avrebbero dovuto far ragionare gli uomini. E fu il rigetto e da quel giorno, incominciò a voler che la guerra cessasse e che tutti quei giovani ritornassero alle loro case. Il giorno dopo di quella cruenta battaglia, il cappellano, sempre vivo e sempre figlio di una ballerina, ripeté:

-Dio degli italiani, benedici le nostre bandiere e aiutaci a sconfiggere questo popolo di barbari che ci sta di fronte! Stranamente, quello stesso giorno, ma nel campo avverso e sempre, in lingua latina, il cappellano tedesco chiedeva al Dio Teutonico, gemello del nostro, le stesse cose. Finita la guerra, insieme, quei ministri di Dio, avrebbero messo il loro datore di lavoro nell’eterno imbarazzo. Poi, col tempo e con la paglia, ritornati nelle loro rispettive chiese, avrebbero raccontato a modo loro i fatti e misfatti di un’inutile guerra! E mentre nostro padre filosofava, sul fronte, la guerra continuava e lui, che non riusciva a capirne i contorni e i contenuti, decise di portare avanti la sua guerra personale contro la stupidità di certi suoi simili. La lettura dei libri che il suo capitano gli aveva offerto, nonostante il suo giudizio personale, gli aveva fatto capire che quella era una guerra economica, d’aggressore a idem. Addio nuovo ordine mondiale! Si battevano per far sparire la pace, raccontando che si facevano le guerre per creare la pace. Il contenuto dei libri del capitano stravolse il corso della sua vita e nel suo cervello sbocciarono nuove idee. Saprì a nuovi e più onesti sogni di: fate-bene fratelli e prese la tessera dei clandestini dell’internazionale socialista, cambiò il suo stile di vita e voltò pagina. Da quel giorno, il suo modo d’interpretare la vita non sarebbe stato più lo stesso e decise che non avrebbe più suonato la musica di quel mondo di mascalzoni. Quella sua decisione, malgrado non fosse male, non gli avrebbe fatto vincere le sue future battaglie politiche. L’ora della rivolta suonava e lo metteva in agitazione, ma parlare con quel testardo di un compaesano, non serviva più a gran cosa. Papà e Diolosà, non avevano più nulla da dirsi, perché non avevano la stessa visione delle cose ma quel giorno, come per un ultimo addio, papà l’attaccò e gli disse:

-Ho visto l’inferno da vicino e mi basta, non mi resta che credere che tutte queste tue storie, su Dio e la chiesa non siano altro che falsità! L’inferno esiste sulla terra! Ho visto tanta giovane carne bruciare e impestare l’aria! Ho visto gettare nella fossa comune centinaia di uomini! Li ho visti cadere, come vecchi corpi, nell’armadio della morte eterna! Quello che ti domando, forse non sarà originale, ma il tuo Dio, in questi casi, cosa fa?

-Sergente Cammarata, credo che nel vostro caso, si è occupato bene di voi.

-Eih! Diolosà del cavolo, perché si dovrebbe occupare solo di me? Non sa fare tante cose, allo stesso tempo? Non lo chiamava più signor Cammarata e, volutamente, lo sconcertava e gli faceva capire che non gli voleva più bene.

-Sergente, con dei discorsi simili, riuscite appena a scalfire la mia fede. Se volete parlare del mondo e Dio, parlate di voi che non avete la forza sufficiente e non fate il peso.

-Non faccio il peso? I morti sono accatastati lì, li vedi o no? Stronzo! Sono davanti a noi! Ieri e l’altro ieri, ho visto giovani tenersi la testa tra le mani e ho visto le loro vite esplodere. Adesso tu, te ne stai là, seduto ai piedi della tua fede, mi guardi e mi parli dall’alto in basso e anche se mi sembri sconfitto e rassegnato, non vuoi darmi ragione!

Diolosà era un tipo speciale e non lo si poteva demolire così facilmente.

-Signor sergente, credo di sapere perché attaccate Dio! Voi avete ancora bisogno di lui.

-Si! Ho bisogno di lui, tutti abbiamo bisogno di Dio. Dov’è ora?

-Non è in questa fossa comune che lo troverete. Cercate nel vostro cuore la fiducia e la fede. Questo è quello che vi direbbe Dio!

Diolosà, tu sei indottrinato e rispondi con i dogmi della chiesa. Non è così che potrò trionfare sulla tua ottusità. E il soldato, replicò:

-la cosa giusta sarebbe stata quella di non partecipare a questa guerra, ma essa finirà, prometto che non andrò più nemmeno a caccia di conigli. Per il momento siamo militari e dobbiamo combattere.

-Ma che cavolo racconti? Non esistono guerre giuste o ingiuste. Questi conflitti uccideranno sempre, ed è indipendente da questo o altri massacri buoni o cattivi. Promettimi che non crederai

più in Dio e nel Re! Tu non vuoi capire che, ancora una volta, l’abbiamo presa in quel... Quelle discussioni, si facevano sempre più sterili e inutili e presto, quei litigi sarebbero finiti con l’ultimo colpo di cannone che li avrebbe fatti ritornare alle loro case. Diolosà e nostro padre ritornarono a Raddusa. I vincitori, col trattato di Versailles, imposero alla Germania, condizioni ignobili. Quegli accordi furono utili solo ai guerrafondai che avrebbero alimentato le ceneri d’un fuoco che non si sarebbe spento con quella guerra là. Anzi, le rivendicazioni dei tedeschi prepararono le basi per tante altre guerre a venire. Ero pienamente d’accordo con nostro padre. L’esistenza o no di Dio era un particolare senza importanza. Papà, una volta cresciuti, ci avrebbe indottrinato, inoculandoci la sua fede negli uomini di buona volontà e nelle persone di Lenin e Stalin, che adorava come creature buone e giuste. Mio padre si sbagliava e come, nel caso di Dio, pedalava nel vuoto o meglio ancora, pestava l’acqua nel mortaio, confondendoci l'anima a condizione che ne avessimo una. Spesso, litigavamo e alla fine ero io che lasciavo correre. Non credeva nelle mie risposte e continuava a sperare in Stalin e Mao. Quei due personaggi erano mascalzoni pericolosi e dannosi, tanto quanto quelli della destra reazionaria che continuano a governarci. Per me, l’importante non era credere o no.

La fede non è palpabile, né visibile, è solamente una sbandata dell’inconscio! Si costruisce e si basa sulla sofferenza umana. Papà, da giovane, aveva creduto in Dio, ma da grande era cambiato e ci aveva trasmesso il virus dei suoi dubbi, trasformandoci tutti e cinque in bolscevichi e atei. Per colpa sua, avremmo scoperto, troppo tardi, i rovesci delle sue complicate medaglie che, nonostante i paletti che ci metteva, facevano capire e vedere, attraverso lo specchio della sua stessa vita, la sua immagine sofferta, i giudizi e gli insegnamenti che ci avrebbero permesso di scrutare l’anima della nostra famiglia, mini cellula di una società che andava a rotoli. Grazie a lui, e nonostante le sue tante contraddizioni, imparammo che la vita non era eterna. Ho visto sfilare, come su di uno schermo, il vento delle mie e delle sue immagini che mi dannarono, e ora, non possono più. Vorrei creare uno spazio tempo, saltare dal 1918 fino a oggi, 10 Marzo per cucirgli addosso questa mia ninna nanna che ho pensato questa notte e scritto in questa mattinata di sole :

Ninna nanna, ninna oh per papà.

Non ho potuto accompagnarti nella tua ultima dimora.

Invecchio senza riuscire a cambiare d’una virgola il mio carattere e senza mai perdonare come sapevi fare tu; So che là, dove giaci, racconti e parli, con i tuoi compagni rivoluzionari e rossi, dei tuoi figli. So che ci stai aspettando, ma non aver premura, l’abbiamo promesso a mamma e poi a te, mentre io solo l’ho promesso all’Angelo che Dio mi rubò in quel d’Amburgo. Non temere, verremo il più tardi possibile, ma saremo con voi e intanto parla di noi, dei tuoi quattro moschettieri e della tua cara Miledy Melina, tranquillizza mamma e mio figlio. Ricordi le nostre lotte politiche contro gli scagnozzi di Almirante, Scelba, Giannini, Lauro e i democristiani corrotti? Ricordi la nostra avventura a Punta Ala, i giorni e le sere passate sulla terrazza del mio ristorante? Ricordi quell’insenatura da dove partirono gli idrovolanti della squadriglia del gerarca e triunviro Italo Balbo? Quegli ettari di terre e mari gli erano appartenuti e poi i suoi figli, dopo la sua morte ingloriosa, li vendettero a una banda di trafficanti modello Caimano, Il corrotto di quell’operazione fu il dott. Marotta presidente dell’Enasarco, coadiuvato dal figlio del Generale Aloia e dall’avvocato Buonopane con bottega nei quartieri alti della capitale ladrona, cosi come continua a chiamarla quel “galantuomo” di Bossi che da mani a sera, si pulisce il culo col tricolore italiano. Ti ricordi che al nostro tavolo, in qualità di clienti simpatizzanti della sinistra italiana, s’invitavano Indro Montanelli, Leo Ferrer e Gino Cervi? Venivano per mangiare i miei bucatini, con pomodoro, peperoni arrostiti, vongole, aglio e prezzemolo, e tanto peperoncino, servito a parte, ma soprattutto, venivano per sentirti parlare, perché dicevi le cose con veracità: un rosso toscano e un trebbiano bien frappé, all’ultimo momento, ci liberavano dalle differenze sociali. Ed io ero fiero di te che affrontavi neri e bianchi, ricchi e lestofanti e alzavi in alto il pugno. Ricordi ancora le lacrime che feci versare alla cara mamma? I nostri pareri, sulla questione Mosca e paesi satelliti? Ricordi il

nostro andare e venire da via Landolina 70? Ogni sera, sottobraccio, uno alla volta, i tuoi figli si accompagnavano a te che t’accanivi a volere credere che gli uomini potevano cambiare e intanto tu diventavi, ogni giorno di più, un sognatore senza speranze possibili. Invecchierò senza poter vivere l’attimo fuggente ma terribile della tua morte, né la tua lingua, che stringevi tra i denti, quando t’accanivi intorno ai tuoi occhiali rotti che, con maestria, riparavi col cerotto, quasi fosse stata una ferita, causata dalle letture e riletture del tuo quotidiano comunista, né quando ti scatenavi contro Dio e i suoi falsi profeti. In uno di quei crepuscoli maremmani, ti raccontai il mio amore per Luciana e tu non so come, attaccasti con la tua vita militare, dove avevi conosciuto una giovane maestrina romagnola, a San Giovanni in Persiceto, vicino alla caserma del nucleo cavalleria. Ricordando quei momenti ti eccitavi come se avessi ancora 20 anni e invece ne avevi tanti, ma dicesti comunque che, se ti avessi concesso il permesso, avresti preso il treno a Montalto di Castro per vedere cosa era diventato quel tuo primo amore. Cercai, senza riuscirci, di farti cambiare idea. L’indomani, incazzatissimo, risentito e senza pronunciare una parola, né un buongiorno, prendesti la tua piccola valigia dei poveri cristi, ci mettesti dentro un cambio di biancheria intima, due paia di calzini e due camicie; uscisti fuori dal ristorante e poi, t’incamminasti come uno che non aveva famiglia. Ti diedi un km o due di vantaggio per scoraggiarti e spingerti a ritornare indietro e poi, visto che non mi ritornavi dissi alla mamma.

-Non preoccuparti, vado a cercarlo e te lo riporto.

-Eri sulla provinciale, seduto su una pietra miliare della vecchia Aurelia; sorridesti, falsamente imbronciato e poi, salisti, sicuro che ti avrei accompagnato allo scalo ferroviario. Quasi 50 anni erano trascorsi e tu sognavi ancora quelle terre di Romagna e i baci di quella fanciulla. Mancasti tre giorni e quando ritornasti ci fu poco da raccontare, perché alla tua età avresti dovuto contentarti dei ricordi che non tradiscono. Ora concediamoci qualche puntualizzazione non letteraria ma storica. La giovane di cui il papà mi parlava non era una contadinella ma una maestrina abbastanza colta e, si direbbe oggi, impegnata nel sociale e nella politica. L`allora sergente maggiore Vincenzo Cammarata in disattesa speranza di essere promosso aiutante di campo aveva 24 anni e il petto encomiato da numerose campagne d'arme. Aveva contribuito a conquistare la Libia come richiestogli, a maggior gloria del giovane Vittorio Emanuele e della Banca vaticana, da Giolitti e dal nostro concittadino Ministro degli Esteri Antonino di Sangiuliano. Ancora con la canna del fucile fumante, fu trasferito dalla sponda africana a difendere il confine nord della Patria. E da militar soldato nella cavalleria cammellata condivisa con gli ascari, fu destinato al corpo dei bombardieri. Che non era quello aeronautico, ma delle rinnovate bombarde medievali, cannoni a tiro parabolico da sfondamento a breve distanza con i quali si maciullarono seicentomila giovani vite, soltanto per la parte italiana. Nel gruppo della sua postazione c'era il "caro Sandro Sacchetti", un poeta di trincea, maledetto e sentimentale, epigono di Stecchetti di cui recitava a memoria le poesie. Da non molto ho scoperto che Lorenzo Stecchetti e il poeta Olindo Guerrini, romagnolo di Forli, erano la stessa persona. Di questo commilitone nostro padre tentò più di una volta di recitarmi una poesia che ricordava perfettamente. Ma ogni volta le lacrime e i singhiozzi glielo impedivano. In realtà era una "lettera alla madre" in forma poetica come se ne scrivevano allora, nella cui scia, celebre quella di Quasimodo. Ci fu tutto un movimento, una moda di anticlericalismo letterario, misto a istanze sociali di solidarietà, associazionismo, mutualità e quant’altro che sostituiva il pietismo da dama di carità tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento cui partecipò anche l`altro nostro concittadino Mario Rapisardi a cui abbiamo intestato un tratto del viale. Quella lettera, una volta diventata poesia, finì di essere profana, privata e personale, per diventare un sentire che tutti i compagni di trincea avevano provato in quei tremendi momenti, ma non ancora avevano espresso. E la consapevolezza personale divenne comune, attraverso l'invocazione alla madre, alla quale il poeta assicurava che finiti i giorni del dolore sarebbe tornato al tempo della pace e dell`amore, a poggiare la testa sul suo grembo come quando era bambino per esorcizzare e annullare le piccole e le grandi paure. Una delle volte che il papà tornò al fronte dopo aver curato le ferite non trovò la sua bombarda e alcuno dei suoi compagni saltati in aria compreso il poeta. Gli restò la poesia che

esaltava gli affetti, si inteneriva di sentimenti, e all'eroe Vincenzo, pluridecorato credente, patriota, interventista e volontario incominciarono a far capolino altre priorità, meno astratte e ideali. Sui quali poté agire in modo sconvolgente e definitivo quella maestrina. Il tenero poeta, quella volta, gli aveva chiesto di procurargli l'ultima raccolta di poesie di Stecchetti lì in San Giovanni in Persiceto, dove lontano dalle retrovie venivano curati i feriti e i malati militari. Papà Vincenzo era un frequentatore abituale di quell'ospedale, perche era sempre disponibile a partecipare alle missioni più rischiose. Era uno che se la cercava e il destino lo risparmiò proprio per quella sua sorta di incoscienza propositiva e presenzialista. Aveva il dorso coperto di schegge, diceva che si era sentito improvvisamente come punto da uno sciame di vespe inferocite, mentre un suo compagno cadeva col petto squarciato farfugliando una bestemmia. Non tutte poterono essere rimosse e una delle ultime la cacciò fuori dalla bocca trent’anni dopo (vi ricordate?). Era finita da qualche anno la seconda guerra mondiale, mangiavamo del riso e sentimmo lo scrocchio come se al papà si fosse spezzata la cuspide di un molare. Raccolse, spingendola con la lingua la particella. Era una scheggia ritenuta per tutto quel tempo nella guancia. La raccolse avvolgendola in un pezzettino di carta e la conservò nel portafogli fino a quando non lo perse o non fu borseggiato.

-E tu, caro papà, quel giorno, 50 anni dopo, andasti, ma la ragazza era diventata un’acida nonna di campagna che intrecciava panieri con le pannocchie di granoturco e non si ricordava più di te che ti eri dato 50 anni di tempo per andarla a cercare come un principe attardato e fuori tempo. Capii e non prendendomi gioco di te, non ti chiesi nulla, ma tu mi aggiornasti lo stesso, davanti a un fiasco di chianti, d’amori vecchi e rinsecchiti, di libertà anarchica e anemica, e di sogni impossibili. Ora, da quella sera, tanti altri anni son passati e voi tre, mio figlio, mamma e tu, siete volati all’incontrario, sotto la terra fredda, mentre anche io volo basso, guardando sotto di me per sapere se vedi il dolore dei tuoi figli. Volo da tanto tempo, da quarant’anni, per sognare voi che non siete morti ma solo, andati via lì dove siete, mi costate fatica, perché tutti questi sentimenti partono da quel cuore che tu e mamma m’avete regalato.

Oh si che volerò e sognerò; ora puoi appoggiare la testa sul tuo cuscino di terra e d’ideali e, se lo vuoi, sogna che siamo diventati nonni come sei stato tu; grandi e ancora in vita come ci hai lasciati; dormi papà: ninna nanna, ninna oh! Il tempo di fucilare la mia tristezza, con una breve esecuzione, per non rimuovere il dolore che si nasconde dietro alle parole slabbrate che scappano comunque e, poi, ritornerò a fare l’equilibrista sull’orlo della mia finestra che non è il settimo cielo. Papà! Sapessi come è dura stare sulla terra. E intanto siamo sempre qui, come quando c’eri tu, tutti vaccinati e forti per rinnovare un rito che ci fa incazzare. Dovremmo andare, senza i nostri figli e i loro? La mia vita e quella degli altri, mi sembra uguale per tutti, ma non è vero e scopro che la mia rotta non riesce a essere allegra, cosi come la vorrei per sentirmi il migliore, l’unico. Navigo per non affogare nell’immobilismo e per far credere che sono un uomo navigato. Come tutte le cose belle o brutte arriveremo comunque alla meta… e tu barcaiolo, non diventar Caronte. Si avvicina la fine di questa ninna nanna per mio padre con una lacrima di rimpianti che mi s’impiglia tra le ciglia e non sa raggiungere le stelle che restano a guardare le tante lune che non vogliono farsi vedere. Care e vecchie cicatrici che sono partite, lasciandoci le loro immagini che ci restano e insistono. Siete morti e morirete mille volte senza mai morire. Quando parlo di voi ai miei figli, racconto che c’eravate prima di Dio e ci sarete oltre; queste emozioni e le mie parole son diventate ferite d’arma da fuoco che gridano vendetta per un padre che sa sempre di poesia. Ah papà, come sono dure le vostre assenze, lasciami cantare una canzone universale: la mia terra lontana, le fanciulle che mi fecero ardere il cuore, i contadini delle tue contrade, i poveri e i ricchi ladroni di sempre, gli uni per bisogno e gli altri per mestiere, e fu su quella terra di Sicilia che tutto incominciò per te e per noi. Ma fino a quando, i figli dei nostri figli, potranno profittare di letti di rose e tavole imbandite? Noi, i tuoi vecchi ragazzi l’abbiamo saputo creare e i figli dei nostri figli? Ora c’è un altro mondo: sfide, attese eterne, coltelli a serramanico, profonde miserie da spezzare con l’ascia. So che se fosse possibile verresti a cercarci come quando, la sera, fermando a chiave la porta del n° 17 di via Teatro

Massimo, dicevi a mamma: - Tina, i to figghi sunu tutti o lettu? E lei, in lacrime per causa mia, ti rispondeva:

- No! Manca Arturo e sono già 30 giorni che non c’è! Ora son io che vi cerco e lo faccio da 34 anni. 75 anni vissuti alla giornata, come un mendicante che non ha capito che sarebbe bastato poco. Ho sputato in cielo, sperando che si trasformasse in poesia, ma scendono solo uccelli di rapina e inganni, mentre,” governo ladro” perché non piove felicità? Papà avevi ragione tu! Ho visto con te e senza di te tutto quello che c’era da vedere,ma cosa so? Spesso rinunciavo per non dover dire no. A malapena mi ricordavo il mio nome:

Arturo, Arturo, Arturo Cammarata che poi, stampavo e ritagliavo, lettera dopo lettera, per appiccicarle sul muro delle mie assenze che non possono più farmi male. Dormi papà, presto, l’uno dopo l’altro verremo da voi, fateci un po’ di posto, più siamo e meglio stiamo. Mastico la matita e strappo i fogli per farne pallottole da cestinare. Buona ed eterna notte Papà!

Il lettore, sempre che ce ne sia almeno uno, mi perdoni questa licenza e ora riprendiamo dalle pagine precedenti e al 1918:

-Caro papà ti rivedo sempre, come se fosse oggi, nelle terre di Raddusa, appena rientrato dalla guerra mentre zappi il podere di un padrone indifferente ai tuoi veri bisogni. Ricordo, quando mi parlavi di com’erano i rapporti tra cafoni e padroni, e come mi martellavi con i tuoi messaggi, dicendo che i ricchi proprietari consideravano i contadini come (u lippu ca crisci né canali supra li tetti di li casi.) ( che sono come il muschio che cresce sulle tegole delle case) Come potrei dimenticare tutte queste cose e quando mi dicevi:

-Guai ai poveri, che non sanno che non sempre si nasce vestiti delle virtù equivoche dei ricchi! I poveri? Rimarranno per sempre bestiame umano, buoni solo per morire sui campi di grano o nelle battaglie. I sopravvissuti saranno i depositari delle fatiche: di ieri, d’oggi e di sempre. Queste parole erano frutto delle sue letture che, egli sapeva elaborare ogni volta che doveva contrabattere le nostre osservazioni.

-Ma non tutte quelle diatribe, furono possibili, perché mi ero smarrito e tu non c’eri più accanto a me, per rispondere presente!

Ora non ci sei veramente, perché sei morto ma so per certo che quando voglio, i dialoghi postumi si riallacciano ed io ti parlo e tu m’appari e tutto diventa magia. Padre mio! Posso domandarti qualcosa?

Hai detto sì?

-Vorrei chiederti del mistero della vita e della morte e se l’uomo è fatto all’immagine d'un modello divino. Oppure, è Dio che è fatto all’immagine dell’uomo e se tutto ciò è vero o forse è stato per dare un senso alla nostra vita? Padre mio che te ne stai sotto la terra buia, voglio incontrarti tra cento anni, accanto ai figli dei miei per vedere se i tuoi sogni e i miei, sono stati gli stessi. Per vedere se si può ancora credere nell’uomo, nell’umanesimo che, spesso, mi fa piangere il cuore.

27 marzo 2011. Ricordi di un passato che mi accompagnerà fino alla fine di questa mia vita all’agrodolce.

Com’è strana la memoria che si copre di nebbie, di assenze, di improvvise riapparizioni e talora di ricostruzioni addirittura false o ingannevoli. Il nostro vissuto scorre come un racconto scritto da altri. La nostra storia non l’abbiamo scritta noi, pur avendola vissuta. Siamo stati costretti, a viverla oltre le nostre intenzioni e l’avremmo potuta vivere in cento modi diversi se le condizioni, il momento e i luoghi fossero stati diversi. Dovremmo guardare il nostro trascorso, in modo oggettivo, maemo essere giudici imparziali?

Viene il tempo delle malinconie e dei ricordi e anche quello del consuntivo che mi rifiuto di tirare. A che pro?- Il consuntivo va rapportato al progetto e al fine che si pensava di raggiungere. Ma io non avevo progetti. Forse avevo solamente desideri e sogni. Nulla che madre natura mi avesse dato come attitudine o qualità. Sognavo di diventare calciatore perché avevo due piedi come i miei fratelli, ma non ero nemmeno bravo come loro che non erano certo dei fuoriclasse. Non avevo una bella voce, non sapevo disegnare; non riuscivo ad applicarmi sui libri perche ero un sognatore e nient’altro. E allora, forza di gomiti! Ma quel tipo di forza non porta sempre lontano.

E da sognatore volevo partire senza sapere da dove e per quale altro dove... Mosso dal cambiamento delle stagioni e da un istinto da animale migratore come quello dei miei avi, che mi spingeva a partire, anche da me stesso. Strano come dentro di me convivevano perfettamente, la persona inesperta e il presuntuoso. Il primo non riusciva a definire alcune normali matasse della vita, l’altro aveva una straordinaria fiducia in se stesso da correre verso l’ignoto mondo delle più problematiche avventure. Fughe e ritorni. Ritorni anche dentro me stesso. Ero così, geneticamente viaggiatore che alle scuole medie mi iscrissi al regio istituto nautico. Da tempo, soprattutto da quando sono un pensionato, riaffiora il passato in fotogrammi color seppia o in bianco e nero e talora in colorama. E lo stesso evento, quando ne parliamo tra fratelli che sono altre mie varianti che mi spingono a scrivere. Arriva l`autunno e, poi l’inverno e sono giorni e tempi diversi che non sempre si ripetono come vorrei. Le malinconie mi tengono compagnia e insieme torniamo sugli antichi passi. Rivedo la campagna di mia madre, un declivio di terra magra che guarda a settentrione, dirimpettaia di un colle bianco di roccia calcarea, dominio di falchetti e conigli. Nel punto più basso, corre, in mezzo al suo canneto sempre verde, un rivolo d’acqua che lascia, nel bordo, una condensa gialla verdastra e nell`aria un odore sulfureo. La sua acqua ha attraversato la collinetta della zolfara, ma non si infiltra fino al pozzo accanto che accoglie un’altra acqua preziosa che aiutava a vivere, a rinfrescarsi, a coltivare verdure e ad abbeverare gli animali ma fino a quando non fu attivato un acquedotto, chi ne bevve ebbe la dentina nera e la dentatura gli diventava color della carbonella. Molte vecchie foto dei nostri padri difatti non mostrano sorrisi. Sorridevano solo quelle dei signori.

Lo sguardo, a nord, si perdeva in fino al vulcano e oltre, mentre il cocuzzolo del colle, per il dorso curvo e liscio come quello della pulce, veniva onorato dal titolo “monte pulce” che era appena una collina. E quando la mattina era chiara, contro sole, si vedeva il luccicore brulicante del mare. Sorgeva dallo Ionio, il sole nel suo vaporoso giallo rosato lento era inesorabile. I primi ad apparire erano dei covoni di pietra chiara che coprivano almeno il dieci per cento della distesa della nostra campagna. La terra a Ramacca, almeno nella parte collinare, non aveva quella qualità per cui la Sicilia veniva chiamata il granaio d’Italia. Si doveva scendere verso la pianura dove i corsi d`acqua rendevano pingue e grasso il terreno.

Ci fu una prima volta. Fu nel `37. Mio padre aveva comprato una Balilla berlina 4 posti. In catalogo lire 10.800. Per avere un’idea dello sproposito di quella cifra che fece arrabbiare tanto mia madre, penso a quanto guadagnassero allora un operaio:(200/260 lire il mese), un impiegato(300 lire), un generale o un accademico d`ITALIA (1000 lire). Quell`anno venne da New York lo zio Mario, fratello di mia madre, detto, ovviamente, l`americano. Si doveva sistemare l`atto dotale di mia madre e occorreva pure la sua firma. Mio padre con l`autista avanti, dietro mamma e lo zio, Io sulle gambe di papà e i miei fratelli dietro. Eravamo in sette dentro la Balilla ma allora non si sanzionavano queste eccedenze. Quel viaggio che fu il mio primo nella scoperta e nella conoscenza e,fortunatamente, non solo non mi impaurii o esaurii la mia curiosità, ma mi stimolò a cercare il mitico passaggio a nord ovest Lo trovai? Non lo saprei dire, non avendone certezza e non potendolo fare con le mie residue forze, mi sforzerò di inseguire il sogno con la penna o con la tastiera:

Profumo di fiori e frutti succosi sulle terre della mia gente; odore di fumo e fiamme dell’ulivo e del ciliegio che ardevano nel braciere per i giorni freddi d’autunno; panni stesi sulla lavanda e il

rosmarino in un mattino assolato che faceva fertile la piana di Catania e i suoi dintorni. Mi ritrovo bambino ai piedi della collina di mia madre, quel fazzoletto di terra pietrosa che i nonni ci avevano destinato e la mia famiglia chiamava la Minarda per il fatto che accanto all’ingresso della vecchia miniera di zolfo, davanti ad una delle sue grotte, c’era stato un tempio o piuttosto un’edicola votiva, per l’adorazione della dea Minerva, così raccontava una leggenda di tempi lontani. Ridere di bimbi che nascevano come i conigli, mia madre e la nonna, intende a dire il rosario e a sgranare gli stessi; concitate conversazioni tra mio padre e i suoi cognati, frasi a metà strada tra l’ideale fascista di zio Turi e il comunismo di mio padre, che fra le altre era anche ateo. Nell’aia le galline, il porco, la troia e i loro piccoli, nei campi una coppia di buoi attaccati all’aratro e un garzone, intento ad arare la terra per la semina del cotone o le fave, per fare il maggese, con la speranza che l’anno dappresso, il grano potesse essere sufficiente per sfamare quelle grandi famiglie d’un tempo, con tanti bimbi famelici, figli della lupa e dell’impero romano-fascista. Una lucertola abitudinaria prende il sole a tre passi da me, sul muretto dell’abbeveratoio, un uomo è seduto su di una vecchia sella fuori uso, quell’uomo è mio padre, curvo su se stesso, piegato dalla mia assenza. Magia dei ricordi, non sono più piccolo, lui è vecchio ed io grande e padre a mia volta, non siamo più nell’aia della casa sulla collina di mia madre, ma altrove: lui e la mamma, senza più collina e tanti anni addosso vivono a Catania ed io in Germania; Io, l’ebreo errante così come mi chiamava mio padre, che mi invidiava perché quel male profondo di correre la cavallina gli era rimasto in fondo all’anima, aveva vissuto 10 anni in Brasile, 7 di guerra sul Carso, in Cirenaica e in Romagna, e poi cinquant’anni di vita a Catania, monotona esistenza, con tante rinunce. Mentre io, il suo alter ego, a destra e a manca, sempre pieno di soldi e regali per tutti quando, raramente, ritornavo in Sicilia. Nel 1965 li ho portati in Toscana con me, a Punta Ala, nel porto che allora era solo un’insenatura tra gli scogli dove la mia barca ci si dondolava in mezzo, lì c’era il mio ristorante, il Piccolo bar del porto. Erano felici, non gli mancava nulla, papà mi aveva proposto un accordo, come paga voleva tutti i pezzi da cinquecento lire d’argento che avrebbe portato in Sicilia. Rimasero per tutta la stagione del 65, sfiniti, ma fieri d’essere i miei genitori, attenti e indispensabili; mamma ad aiutare in cucina e

papà alla cassa, poi, finita la stagione, ritornarono a Catania ed io andai a Roma a occuparmi della direzione dell’osteria del mafioso. Si ritennero traditi, mi avrebbero seguito a Roma, convinti che non avrei potuto fare a meno di loro. La mia vita senza di loro non valeva nulla e non si sbagliavano. Non so quanti anni rimasi lontano, lasciandoli invecchiare senza di me che gli dovevo la vita e tutte le mie pazze fughe. Restarono lì, saggiamente, aspettando il ritorno del figlio prodigo che, solo quando le sue ferite erano gravi, “si ricampava” (ritornava), come un guerriero stanco. Avevo lasciato la mia prima moglie, non avevo ancora figli, avevo 39 anni, tre ristoranti alle spalle e nemmeno un soldo in tasca e 200.000 di lire in debiti; ritornai a Catania dove per una stagione sulla scogliera gestii uno stabilimento balneare, fu un mezzo disastro, e come se non bastasse mi risposai e ingravidai una donna più scombinata di me; sei mesi dopo, ad Amburgo, mi morì quell’angelo chefeci cremare e seppellii in una fossa comune, tra bimbi emigranti e poveri. Quel mio primo figlio, era venuto per un solo mese, senza nemmeno poter brucare la tenera erba della vita. La morte di mio padre mi colse a tradimento, perché nel mio cuore c’era solo il dolore per il mio bimbo che mi aveva preso l’anima e la ragione. Furono mesi di pianti e rimpianti per quelle due creature infinitamente care. Il dolore fu grande, tanto da inchiodarmi sul posto, impedendomi di correre in Sicilia e dare degna sepoltura a mio padre, ma c’era sempre mio figlio, attaccato al mio cuore che non cedeva un po’ di posto per il mio caro papà, restava solo un padre, io, che soffrivo come figlio e come padre per i miei infinitamente cari. Ricordi, parole dimenticate e intasate in fondo al cuore, sensazioni di forze intense che non avrei più potuto vivere nella mia lunga vita d’orfano di padre e orbato di un figlio. Due vite importanti avevano reclinato il capo e piegati gli involucri delle loro esistenze, per andarsene nella terra fredda, senza luce, né vita. E da quel giorno, solo un eterno brivido costante, valige vuote nell’armadio degli scheletri importanti, una trilogia: mio padre del quale fui il figlio e mio figlio del quale fui il padre; stati d’animo vuoti di spiegazioni, spazi di silenzi infiniti e un testimone che non avrei potuto passare a mio figlio, così com’era riuscito a mio padre, con i suoi cinque figli. Il destino crudele non aveva voluto che quella staffetta si corresse. Ora ho 75 anni, se mio padre fosse vissuto tanto, avrebbe 119 anni e il mio Davide gli

anni del Cristo e forse, sul bianco muro della casa sulla collina di mia madre, insieme, io tra loro due, seduti sul muretto della mangiatoia, potrei vedere, come in un film, scorrere la storia di noi tre, insieme, mano nella mano. Da anni, parlo, in maniera postuma, con mio padre di me e di mio figlio, senza rischiare di diventare pazzo, parlo a mio padre che sapeva ascoltare, raccontare la sua infanzia, oggi voglio chiedergli perdono per non essere andato al suo funerale, ma sono certo che se avesse saputo della morte di mio figlio, avrebbe capito e perdonato. La nostra storia insieme è stata variegata ma senza zucchero, astringente come il succo del limone, castigatrice di tutti i possibili desideri che allora costavano cari. Anche se la Sicilia era ed è bella, non c’era tanta scelta, c’erano i bisogni atavici, quelli che ti facevano diventare bandito e poi, se ne eri capace, mafioso, o cane sciolto senza padroni, ma non duravi, perché la mia terra è agrodolce, odio e amore, genio e sregolatezza: scappa uomo, corri cavallo pazzo, ed io me ne andai. Caro papà, chiarissimo cantore, sorgente di buoni propositi, devo dirti una cosa, una verità:

I miei figli, malgrado le cazzate che ho fatto, li ho scodellati in Francia, dove hanno potuto avere un avvenire diverso da quello che ebbi io, in Sicilia, dove avrei continuato a scazzare, lontano dalla nostra terra ballerina e violenta, mi trovo bene e i tic e i toc non mi accompagnano più, sono un vecchio signore di campagna, figli e nipotini, d’estate, vanno e vengono nella mia casa, corrono sul mio prato tra voliere d’uccelli esotici, anatre, galline e vasche piene di pesci e rane. Ti lascio papà con la voglia di stringerti come facevi tu, posa un bacio sulla bocca di mamma e digli che anche lei mi manca.

Nona parte          [torna all'indice]

Ai miei figli piacerebbe poter dire:

-vi amo come mi amò mio padre, come un’amante, come un appassionato della vita, quale mi ritengo io.

Figli miei, non complicatevi la vita e non scombussolate la mia. Quanta fortuna abbiamo avuto d’incontrarci su questa terra e come, a volte, non né teniamo conto!

Vi avevo perduto e ora, da un anno, vi ho ritrovato e oggi, sono qui a San Michel, dove, insieme, passiamo le nostre vacanze estive.

-Caro papà, come puoi vedere, quello che scrivo è il risultato di momenti non certamente meravigliosi, perché voi: mamma, il mio bimbo e tu, siete morti e venire nel limbo dove giocate e fate rivivere i miei ricordi, non è possibile, cercare di rimpatriarvi sarebbe irrazionale. Non ha più nessuna importanza l’essere diventato come sono, vecchio e stanco, ma felice d’esservi appartenuto in quanto figlio e ai miei come padre E’ grazie alle mie continue depressioni se mi sono potuto permettere d’incontrarvi oltre l’aldilà della vostra morte. Vorrei che, di tanto in tanto, foste qui, insieme ai miei figli, per ascoltarci più sovente, per raccontarvi i ricordi che hanno realizzato l’altalena del cammino delle nostre vite. Con te, padre mio, non fu facile, le nostre conversazioni, anche le più normali si trasformarono in macerie senza spiegazioni, né regolamenti di conti. I miei figli vogliono sapere com’era il loro nonno ed io, oggi, lasciandomi prendere dalla nostalgia, racconto le pagine meno dure di noi due, per dare un senso alla mia e alla loro vita, per esistere e perdurare nella memoria di quelli che verranno dopo. Ora, al solito, con un po’ di fantasia e di buona volontà, voglio ritornare a Raddusa, quando rientrasti dalla guerra e ti fingesti uomo di buona volontà, senza bisogno d’iscriverti a nessun partito; cercando di scansare i casini che ti avrebbero rimesso i piedi nella merda. Lo Spirito Santo vigilava e rapportava a chi di dovere, fatti e misfatti della vita rurale di un paese dove languiva per mancanza di valori in campo. Gli oppositori vivevano alla macchia, erano banditi dal paese. La Santa milizia di Dio vigilava, sapeva e vedeva tutto. E tu che eri partito cristiano, ritornavi ateo e bolscevico. Bisognava che Dio lo sapesse e ti correggesse per rimetterti sulla dritta via e questo, prima che tu potessi predicare il tuo nuovo credo politico. Ma tu avevi imparato a fingere, eri accorto e sapevi quello che si tramava alle tue spalle e a partire di quel giorno, ogni qualvolta che incontravi il capo della milizia cristiana, cambiavi di marciapiede. Non eri uno stupido e per confondere le acque, imparasti a prenderti gioco del sacro e del pagano e per non perdere alla roulette della vita, chiedesti la tessera del partito della pagnotta: mangia tu che mangio io! Avevi avuto troppi problemi e fu per questi che chiudesti il tuo cuore alla sincerità e iniziasti una nuova vita. Rosina, Michelangelo e Peppino s’erano maritati e tu, continuavi a essere, il capo famiglia. La nonna ti dava fiducia e contava su di te per portare all’altare le sorelle nubili e poi, se sarebbe stato possibile, avresti potuto sposarti. La guerra aveva mischiato le carte e incasinato la realtà politica dell’Italia. Il fascismo, come un bimbo malefico, faceva i primi passi nella storia a venire.

1920-21, Mussolini s’affacciava sulla scena politica italiana come il marionettista-marionetta dell'opera da tre soldi. I suoi accoliti, le camicie nere, gli arditi del manganello, i violenti e i vigliacchi, che dal punto di vista del Duce sarebbero diventati l'avvenire dell’Italia, pascolavano i loro atavici vizi. La loro forza: dieci contro uno; olio di ricino e mazzate erano all’ordine del giorno. Nelle città siciliane e perfino nei villaggi, dove c’erano i sindacati di sinistra, bruciavano qualsiasi buco sovversivo. A Raddusa, non c’era nulla da bruciare e nessuno da picchiare, tutti conoscevano tutti e i fascisti che s’annoiavano, di tanto in tanto, per provarci, purgavano lo scemo del villaggio, che non era certo un Rigoletto istruito e solo perché quel povero cristo non aveva fatto il saluto romano. Il giorno della marcia su Roma arrivò e l’uomo di Neanderthal e i suoi seguaci, a cavallo, in auto o in treno, come se stessero andando a una colazione “chez Tiffany”, sbarcarono nella capitale e fecero paura a tanti. Il Re corto, Vittorio Emanuele il breve, che non amava Roma, disse:

- Eh pigliati sta pastiglia, pigliati tutto, a me, basta il dolce Valentino Nnè. Vai Mussolini, metti un po’ d’ordine nel parlamento, uccidili tutti, io farò finta di non vedere. In quel nefasto periodo, in Sicilia i fascisti e i mafiosi si dividevano tutto, così come fanno certi politici e i figli dei mafiosi d'allora e d'oggi. Mussolini non sopportava che don Calogero Vizzini, in Sicilia, potesse avere più successo di lui. Bisognava correre ai ripari, occorreva dare una lezione all’onorata società. Ed ecco il prefetto di ferro Mori, fiore all’occhiello del governo Monarchico-Fascista. Il Duce, il capo dei capi, gli diede pieni poteri e licenza d’arrestare i disturbatori della quiete fascista. Mori, era un uomo integro ma ignorante delle questioni mafiose. E ciò, lo portò a commettere molti errori. Si rese impopolare e arrestò molti innocenti, vittime di denunce gratuite. Convinto d’aver risolto il problema mafioso, anche lui ritornò sul Valentino, era paesano del Breve. La mafia, ancora una volta, finse di non esistere, entrando in letargo e aspettando tempi migliori. Mori non aveva capito qual’era il vero pericolo e pensare che molto tempo prima, quando era stato prefetto di Bologna, aveva contrastato le prepotenze degli squadristi fascisti ed ora, in quella occasione si schierava dalla parte del fascio. I due capi storici dell’onorata società erano con i feudatari ai quali, piano-pianissimo, avevano preso la mano. I nobili, abbandonarono le loro proprietà estive per andare a vivere in città. I possedimenti diventarono insicuri per quei nobili disonesti. I campieri facevano le veci peggio di loro. Nessuna foglia di verdura, o spiga di grano, si sarebbe mossa, senza l’ordine

dell’intendente o del fattore che era il braccio-lungo della mafia. I picciotti d’onore furono peggiori dei fascisti: terrorizzarono e sottomisero i giornalieri. Ritornò l’anarchia d’un tempo e la gentaglia si diede alla pazza gioia. La riuscita sociale fu per i soliti noti. Abulici e senza nessuna coscienza politica e all’unisono, gli italiani si vestirono di nero con i teschi di latta sul petto; il regime li aspettava tutti i sabati in piazza dell'esposizione,( ribattezzata piazza G. Verga): Camicie nere e fez in testa, coscienti e incoscienti, avrebbero sfilato al grido di: Viva il Duce e il fascio littorio e venne anche quella, la casa del fascio eppure il podestà. La casa del fascio? Un grande stanzone a piano terra e possibilmente, con sede sulla piazza: dieci tavoli, 40 sedie, un bancone per la mescita del vino e un tavolo all’ingresso per controllare se avevi la tessera del partito. Sul muro, alle spalle del bancone, una grande foto del nuovo padrone d’Italia. Mascella squadrata, occhi spiritati, fronte accigliata, posa da gladiatore e soprattutto, in divisa militare. Questo Berlusconi non lo fa mai di sabato!!! Così era la casa del fascio e così, oggi è la casa delle Libertà, dove cambia solo l'effige. Un luogo dove si giocava a carte e si beveva a credito.

Cristoforo Cammarata Junior, una sera dell’estate del 1925, seduto a cassetta sul suo carro pieno di sacchi di grano, stava attraversando la piazza, una vite di carretto, solo per dispetto, si svitò e si scosciò una ruota e una parte del carico invase il selciato. Cristofaro saltò dal veicolo, mentre papà che era in piazza, corse in suo aiuto.

-Ascoltami bene Cristofaro, se me lo permetti, mi metterò sotto al carro e lo solleverò, mentre tu, rimetterai la ruota. Facile a dirsi, ma difficile a realizzare. Papà aveva letto il romanzo di Victor Ugo, ( i miserabili)e quel giorno avrebbe voluto emulare Jean Valjan che, solo nel libro, aveva salvato la vita del povero carrettiere francese. Davanti a quell’insuccesso, Cristofaro disse al fratello:

-levati di ddocu! Ti faccio vidiri iu! Prendi tu la ruota e cedimi il posto. Vincenzo non poté credere ai suoi occhi. Il fratellino che non aveva letto il libro di Victor Ugo, si mise a quattro patte e con le spalle sollevò il carro e il suo carico. Non contento di quel che aveva fatto, uno per volta, sollevò i sacchi di grano che erano caduti e li fece volare e posarsi all’interno del carro, come in un mosaico.

Papà rimase di stucco e la voglia di applaudire lo prese e disse.

- Che forza!

-E allora! Non lu sapivi. Chi talii? Questo sugnu iu e a cu mi fa girare i cugniuni, attenzione! L’avvertimento vale anche pi tia!

Quel dono, era la sola cosa che possedeva e un giorno, quel dono, l’avrebbe messo nella merda e pensare che c’erano tanti doni per gli umani: quelli che nascevano con i denti e quelli che avevano una doppia pelle, quelli che avevano mani di guaritori, quelli che avevano un quoziente intellettivo superiore alla media e a lui, che era un Cammarata, il destino, aveva donato quell’arma micidiale e di lì a pochi anni, se la sarebbe vista brutta. Quel giorno, in piazza, c'era tanta gente ad assistere a quella scena del carro e subito si diffuse la notizia in giro e la gente, conobbe la storia di quel giovane forzuto che sollevava i carri con la schiena e faceva volteggiare i sacchi di grano come se fossero fascine di rami d’ulivo e che fra non tanto tempo avrebbe fatto paura a molti. Quando passava dalla piazza, la gente lo salutava con rispetto e l'invitava a bere e da quel giorno, nessuno gli cercò querela. Gli anni passarono e anche a lui, un giorno, non so perché, gli venne la voglia di andare a sfruguliare, (stuzzicare) il morale dei fascisti. Aveva 18 anni e non gli sarebbe dispiaciuto di festeggiare il suo anniversario, con una grande piramide di camicie nere; entrò come un elefante nano, per bere il suo primo bicchiere di vino e divertirsi un poco. Per nulla emozionato: “ Entrò,vide e vinse”; Ce l'aveva fatta... finalmente... era in quella casa del fascio che rassomigliava alla casa delle libertà del quartiere di Cibali, della premiata società dei magnacci della D.C. Entrò e non si scoprì il cranio e non fece il saluto romano. Apriti cielo! Il tenutario di quel bordello lo strattonò e poi, con uno schiaffo gli fece volare la coppola dalla testa. Cristofaro non si scompose. Calmo e deciso, raccolse il berretto, prese per il bavero il malcapitato e facendo come San Giorgio cavaliere, se lo mise sotto al piede sinistro e lo stesso trattamento usò col resto dei fascisti che avanzarono contro di lui. Lo Spirito Santo che vedeva di buon occhio l’ordine nuovo e la giustizia fascista; indossando la camicia nera, corse alla caserma dai carabinieri. I militi giunsero lestamente e circondarono lo zio e quella montagna di fascisti stesi al suolo. L’ammanettarono, ma resistette e,

nonostante i ferri ai polsi, menò a destra e a manca; lo rinchiusero, prima nella caserma e poi, dopo qualche giorno, nel carcere di Ramacca. Un mese di prigione dalla quale uscì con le ossa rotte e con gli attacchi d’epilessia. Per colpa di quell’incarcerazione trascinò la sua carcassa fino alla morte. Il Dio del caso col tempo e con la paglia gli avrebbe offerto la rivincita. Prima di morire, avrebbe assistito alla caduta del fascismo e il tiranno nell’ignominia, appeso a testa in giù, insieme a Claretta Petacci, nel piazzale Loreto! Ma ritorniamo indietro, al 1929, quando il fascismo era all’apice delle sue fortune papà aveva 37 anni e aveva deciso di rompere il patto con sua madre, giusto per farsi una vita tutta sua. Le sorelle erano tutte sposate, tranne Genoveffa che non essendo bella come le altre, non trovava marito. Papà ce la metteva tutta, ma lei non voleva sposarsi, perché l'esempio che davano i suoi fratelli non l’ispirava. Papà insisteva e cercava di piazzarla come poteva e sapeva: invitava amici, che dopo qualche giorno, non lo salutavano più e come se non bastasse, suo fratello Peppino, col quale era associato, lo metteva spesso nella merda. Compravano e vendevano grano. I mulini e i contadini, da qualche tempo, avevano sgamato, ( scoperto), che Peppino rubava sul peso, servendosi di falsi misuratori e altro. Michelangelo si era rimesso a fare il barbiere, Salvatore, Angelo e Cristofaro lavoravano le terre della famiglia. Bianca era sposata con Carbone e si occupava della bottega di generi alimentari e si vantava di essere lei a sostenere tutti. In parte era vero! Papà non la sopportava più e non sopportando quella situazione sciolse la società col fratello e andò via venendo meno alla promessa che aveva fatto a sua madre. Bianca ne fu felice, finalmente, l’intellettuale della famiglia s’era levato dalle scatole! Donna capace e litigiosa riuscì a spodestare tutti i maschi della famiglia, sottomettendoli. L’impero di Bianca incominciava e a riuscire quei cambiamenti, erano state: la frenesia e le umiliazioni patite a spingere le donne dei Cammarata a battersi contro i loro fratelli. Papà, per non avere storie con le sorelle e i loro mariti, si mise a scarpinare le campagne di Sicilia. Un giorno, volutamente, entrò nella proprietà dei fratelli Pollaci, dalle parti di Ramacca. Il bel Vincenzo, su di un calesse color mogano, all’ultima moda, che era la Ferrari del tempo, col suo abito di velluto color mattone, che proveniva dalla boutique dei fratelli Pandolfini, in Via San Giuliano, a Catania, arrivò come un eroe circense. I suoi stivali erano di cuoio colore testa di negro, sul capo, un cappello di feltro a larghe falde, di color verde vagone, un foulard di seta color crema fasciava il suo collo e tutto quel ben di Dio, era lui, un trompe oeil, un’apache. Mentre faceva quell’entrata trionfale alla Benhur, Nitto Pollaci gli venne incontro:

- Baciamo le mani, don Vincenzino bello!

- Baciamo le mani, don Nitto! Stretta di mano calorosa e poi:

-Cosa vi porta da queste parti?

- Sono venuto a vedere, se per caso, non avete ancora venduto il vostro grano.

- Il nostro grano l’abbiamo venduto, ma se volete comprarne, non distante da qui, c’è la fattoria dei Mirci, scusate, dei Conti, che, forse non l’hanno ancora venduto. Andate da parte nostra e dite loro, che siete amico nostro, non si sa mai, fare il nostro nome, potrebbe servire.

Salutandolo don Nitto disse:

-Dio vi accompagni e vi benedica?

-Don Nitto, non scherziamo con le cose serie e se per caso, incontrate Dio, non ditegli che mi avete visto. Questi ultimi tempi, non ci frequentiamo né abbiamo buoni rapporti, Se sapesse che siete amico mio, potreste avere dei grossi problemi anche voi!

-Don Vincenzino, siete sempre un simpatico mattacchione, non cambierete mai, sempre pronto a farmi ridere, grazie per il vostro buonumore e a buon rendere.

La giumenta baia scalpitò e poi, sfrecciò verso le terre dei Mirci. In contrada Minarda, dove non c’erano telefoni, né tam-tam per avvertire e prepararli ad accoglierlo, nessuno l’aspettava e lui li colse di sorpresa. In mezzo all’aia c’era la nostra futura mamma che dava da mangiare alle galline e davanti alle stalle i suoi due fratelli, Salvatore e Giuseppe che aveva un segreto nel sedere. Sembrava che non avessero visto mai un centurione romano. I Mirci – Conti, sconcertati, ammirarono la sua entrata e la sua eleganza, il calesse s'arrestò con maestria e la giumenta fece come al circo e come nel caso dei Pollaci s’impennò e alzò le sue zampe anteriori, nitrendo come una prima femmina del mondo equino! Papà saltò dal suo calesse, imitando la bestia: fronte alta e aggiustamento di capelli. I fratelli Conti, li chiamavano i Mirci, a causa di nostra nonna Rosa che

era una Mirci e in casa sua, chi portava i pantaloni era lei, ma quella non era la sola ragione. Fin dai tempi più remoti, tutti quelli che s’imparentavano con i Mirci, essendo spesso poveri, diventavano quelli dei Mirci. I Conti non gliene volevano e non se ne facevano un cruccio. Papà s’avvicinò ai fratelli di mamma presentandosi:

“Sono Vincenzo Cammarata e vengo dalla parte dei Pollaci, pare che vi resti del grano da vendere.” Zio Turi, fece segno di sì con la testa e prima che papà la vedesse, mamma scappò via, ma il fratello la chiamò: Tina, non t’ammucciari ( non nasconderti), veni e porta un campione di frumento per il signor Cammarata. La Tina in questione apparve sulla porta della stalla e poi, avvicinandosi a piccoli passi, con discrezione e con gli occhi sotto ai piedi, tentò di guardarlo. Che spettacolo che era lui e com’era conciata lei! Chi era quel diavoletto in gonnella e tu, Dio, prenditi tutto il tempo che ti occorre e guarda questa cenerentola tutta spettinata e in disordine, ai piedi? Le scarpe appuntite del fratello d’America, un abito d’incerto colore per vestire quella bellezza selvaggia, sulle spalle una giacca dimessa del fratello Giuseppe. Lei levò lo sguardo verso il visitatore, lo vide e sentì il richiamo del bosco e gli sembrò come in un sogno, tra spighe di grano e papaveri rossi. Finalmente, il suo principe azzurro era arrivato per liberarla dalla schiavitù dei fratelli, si guardò intorno e vedendosi brutta e mal vestita perse la calma e per colpa di quell'apparizione il sacchetto di grano gli scappò dalle mani e cadde a terra. Le lacrime irrorano il suo bel viso e lei fuggì, ancora un’altra volta, per nascondersi sotto il tavolo, come una bimba che aveva rubato la cotognata. Vincenzo non ebbe nemmeno il tempo di capire quel che stava accadendo. La vista di quel piccolo diavolo di una donna gli fece fondere il cuore. I fratelli, stupidamente, risero di lei e papà, non riuscì più ad articolare. L’affare del frumento, malgrado quel fuori programma, si concluse e papà, col cuore infranto, se ne andò via, ma si fermò a Ramacca e nella testa, un solo pensiero: mamma e solo lei, quella “Tina” che ci avrebbe donato la vita. Quella sera non sarebbe rientrato a Raddusa senza prima rivederla! In piazza c’era un albergo e sotto a quello una drogheria, quella di zia Lia: personaggio mitico del villaggio di Ramacca. Papà prese una camera e ordinò un piatto di pasta alla carrettiera. Mangiando e pensando a mamma, si ricordò che in paese, aveva un amico che andò a cercare subito per chiedere informazioni su quella famiglia un po’ curiosa. La povera Tina era nella stessa situazione di papà, non poteva sposarsi prima dei suoi fratelli, che non pensavano ancora al matrimonio. Le altre sue due sorelle; Vincenza e Concetta erano accasate con i fratelli Nicolosi e lei, doveva occuparsi della casa e dei fratelli. I suoi genitori erano morti e quei due non solo amministravano la terra, ma in più la trattavano quasi come una cameriera. A nostro padre bastò poco tempo per capire che se voleva conquistare Tina, doveva aggirare l’ostacolo o passare sul cadavere di uno dei due fratelli Conti-Mirci. Mamma aveva 30 anni e se avesse continuato ad aspettare sarebbe rimasta zitella come la zia Genoveffa. A papà occorreva un cavallo di Troia per arrivare fino al cuore di mamma, che non sapeva di possedere già! Dal canto suo, Tina non sapeva e non credeva che, così come era arrivato il suo principe azzurro, sarebbe ritornato sul luogo del delitto! Papà per amore di mamma, dimenticò di rientrare a Raddusa, ma scrisse una breve lettera ai suoi:

-Sto bene, non preoccupatevi, a presto, saluti e baci.

La bella Tina incominciò a curare la sua persona e poi, cambiò il suo look, ma non seppe esser discreta, anzi, esagerò un poco e i fratelli, non pensando a papà, si dissero: attenzione, intorno alla nostra casa, c'è un fimminaro ca sta ruotannu!

Il cavallo di Troia prese contatto con lei, che finalmente capì che il suo principe azzurro, era il mio papà. Ogni pretesto fu buono per cercare di vederlo, ma povera Tina, quelli erano altri tempi: una sorella da vedere, un’amica del cuore, ma dove, quando? A casa di quell’unica amica del cuore che ogni uno di noi ha. Finalmente poterono incontrarsi e guardarsi negli occhi, senza paura e col cuore colmo d’amore. Non si toccarono, nemmeno per mano. Non un bacio, né una carezza. Fu amore allo stato puro, così com’era lei. Papà telefono a Raddusa e fece sapere che un affare importantissimo lo tratteneva per qualche tempo a Ramacca. E intanto, la passione lo bruciava oltre ogni limite e oltre la sua vita stessa. Un messaggero andò alla Minarda per portare l’ambasciata. I Mirci furono sconvolti perché capirono chi era il pretendente e che avrebbero potuto perdere quella battaglia. Fecero buon viso e cattiva sorte:

- Ditegli che lo riceveremo a casa nostra, a Ramacca, sabato prossimo alle ore diciannove!

Papà, puntuale com’era il suo solito, accompagnato dall’amico, partì alla carica e si ripresentò agli zii. L’amico di papà, lo conoscevano, era una persona che contava e loro lo temevano. Gli zii, parlarono poco e credendo che papà fosse anche lui un mafioso, li ricevettero con tutti gli onori del caso. Si parlò di tutto e di nulla, mentre mamma al piano di sopra, nella stanza da letto, che era stata di sua madre, si faceva bella per impressionare il suo futuro uomo che, dal canto suo, stava cercando di far capitolare la fortezza dei Mirci, che non voleva cedere. Mezzora dopo, dal primo piano, tale a una stella del firmamento, la Tina-mamma scese e ammaliò papà e gli astanti. Sembrava un angelo disceso dal cielo, la Vanda Osir di Ramacca e Minarda. L’apparizione di Tina lo rese ancora più pazzo e confuso. Gli argomenti di papà non convinsero lo zio Turi.

- No e no! Signor Cammarata, spero che non pensi che la stiamo giudicando male. Non vogliamo mancarle di rispetto, per adesso è così, col tempo si vedrà.

Vincenzo si alzò e salutò, cercò e trovò lo sguardo di mamma, che con le lacrime agli occhi, si prometteva a lui con tutta l'anima. Fu uno sguardo d’intesa e da lontano, virtualmente, mamma baciò le labbra di papà. Non sarebbe stato un addio, con o senza il loro consenso, Tina sarebbe stata sua. Convinto e felice, partì per Raddusa. Il villaggio dei Cammarata era sempre nelle mani dei soliti noti. La situazione economica non migliorava, il Duce continuava ad avere sempre ragione. L’Italia era nella merda e con lei, gli italiani di seconda categoria. Fin d’allora, l’Italia era divisa in due il 51% di mascalzoni e il resto, pecoroni. Il podestà parlava di patria e di conquiste. I fascisti cercavano di farci credere che i tedeschi non erano più nemici. Erano diventati i nostri migliori amici e con loro, avremmo conquistato il mondo. In verità, ci saremmo coperti di fango. In quel periodo era mera propaganda, erano solo canzonette, perché non facevamo ancora la guerra. Dio ci aveva permesso di conquistare il nostro posticino al sole d’Africa: Tripoli, bel sol d’amore, faccetta nera dell’Abissinia, u surdatu nammurato, canzoni patriottiche per tutti e la vita che doveva apparire a tutti i costi, facile. C’era la miseria, ma non c’importava nulla, pare che stessimo meglio di adesso. Il colmo era che la gente ci credeva e, s’imbarcava per l’Africa e per un posto al sole.

Mussolini?

-Credere, obbedire e combattere!

Il Duce?

Raccontava che il resto del mondo, ci temeva e ci rispettava. Emanuele il breve, piccolo e sottomesso al Duce, gli aveva dato le chiavi del palazzo per iniziare il nuovo corso della storia, per inventare l’inizio della fine.

Chiudiamo questa parentesi e dimentichiamo il fascismo, per ritornare sulle tracce di Vincenzo per vedere cosa avrebbe escogitato per rapire mamma. Mise da parte la politica e si dedicò al suo sogno d’amore:

-O Ramacca, o morte! Una lunga corrispondenza incominciò per lettere interposte che andavano e venivano; era poca cosa ma in amore a volte bastano. I due si scrivevano, riuscendo a tenere segreto il loro amore al resto dei Cammarata che non sospettavano nulla. Vincenzo scriveva a Tina:

-Il mio amore per te non morrà mai. Il mio cuore batte e vive grazie a te. Ti porto in me e nel registro del mio amore ci sei solo tu. Il tormento per la tua assenza è il peggiore dei mali e vederti e non poterti stringere fra le mie braccia, vuole dire morire. Sospiro della mia vita, rispondimi presto! Resto sinceramente tuo, Vincenzo che ti pensa sempre e che dimenticarti non può! Vincenzino per la sua Tinuzza. Poi, una breve lettera di mamma che non riusciva ancora a dargli il tu. Una lettera, semplice, rispettosa e timida, e scritta dall’amica:

-Gentilissimo Signor Cammarata, ho ricevuto la vostra cara e appassionata lettera e posso dirvi che sono onorata per le belle parole che mi avete inviato. Sono certa che, se Dio lo vorrà, cercherò d'esser la mamma dei vostri figli e la compagna fedele della vostra vita. Vi prego di rispondermi quando prima e sempre su quel tono. Le vostre parole sono manna del cielo, non fatemele mancare. Vi saluto con rispetto e amore. Tina Conti dei Mirci.

Quante lettere d’amore s’incrociarono tra Ramacca e Raddusa. Poi, quando mamma si rese conto

che le lettere non erano baci e non facevanu purtusi, “buchi”, lei acconsentì a farsi rapire da quel che sarebbe stato l’unico uomo della sua vita. Non dimentichiamo che papà non fu uno stinco di Santo. Povera mamma, quanti rospi dovette ingoiare, quante corna e quanti cornuti, in via del Teatro Massimo. Ma non corriamo troppo e atteniamoci a quei momenti d’amore focosi che papà visse per mamma. Venne il giorno del ratto della Sabina ed egli, all’ora del vespro, arrivò a Ramacca. I fratelli Conti erano in campagna e mamma, come se dovesse esplodergli il cuore in petto, da giorni, comeuna gattina frettolosa, aveva preparato la sua valigia, tremante e confusa, attendeva l’ora fatidica. L’amica Angelina bussò alla porta della sua stanza e disse:

-E' arrivato, scendi, non perdere tempo, i tuoi fratelli potrebbero arrivare da un momento all’altro. Presto!

Mamma scese quella scala che non dimenticherò mai, perché ripida e di granito, e un giorno, da piccolo, salendola, rischiai di rompermi l'osso del collo. Quella casa, alcuni anni dopo sarebbe diventata il nido della sposa di zio Turi. La non facile zia Angelina che quando andavamo alla Minarda, per paura che gli rubassimo le uova, ci seguiva come se fossimo scassa pagliai. Mamma non sapeva come fare per scappare col suo principe azzurro. La paura la bloccava, ma la voglia di lasciare quella casa era grande tanto quanto l’amore per papà. Angelina la sgridò e tirandola per un braccio:

-Vieni, se non lo fai adesso, lo rimpiangerai per tutta la vita!

L'afferrò per la mano, per meglio strapparla a quella casa. Papà era in piedi, davanti alla portiera aperta della sua Isotta-Fraschini, che per l’occasione era stata agghindata come un nido ambulante. La sua amica per farle vincere la paura, le posò le mani sul sedere e la catapultò all’interno della vettura. Mamma s’aggrappò al braccio d’Angelina, dicendole:

-Tu, vieni con noi?

-Tu, sei pazza! Questa, non è la mia storia d’amore, è la tua. Siate felici!

Papà ringraziò Angelina e con l’aria del gran signore, disse:

-Autista, adesso possiamo andare!

La carrozza, senza cavalli, si allontanò verso Catania, lasciandosi alle spalle la polvere delle strade del villaggio di mamma. La zia Rosina, a Picanello di Catania, aveva preparato la stanza da letto per farne, per una sola notte, il nido d’amore del fratello e della sua sposa. E ora, con una briciola di fantasia e con i ricordi di mia sorella Melina, segretaria e custode dei segreti di mamma, entriamo in quella vettura e vediamo cosa accadde e come si svolsero i primi approcci. Vincenzo aveva perso tutta la sua baldanza e non riusciva nemmeno a parlare. Tina, rannicchiata, lontano da lui, spingeva forte, aiutandosi con la spalla, per sfondare la portiera e poi, se fosse stato possibile, schizzare sull’asfalto della provinciale che li avrebbe portati verso la felicità. Tra i due, non uno sguardo, né una parola, il silenzio comprimeva i cuori e non faceva presagire niente di buono. Vincenzo cercò di costruire qualche frase breve, ma non fu altro che un balbettare convulso e asfittico e poi, senza riuscirvi, cercò d’avvicinarsi a lei che continuava a scavare la vettura, per poi scappare nel nulla delle sue paure. Non so come fu, ma a un tratto, riuscì a prendergli una mano e con immensa dolcezza vi posò sopra un tenero bacio. Il coraggio era ritornato e lui parlò all’autista:

-Fermatevi in quella radura, quella che si trova, prima del ponte Simeto; prendete dal bagagliaio lo champagne e le paste di mandorla e servite. Mamma immaginò chissà cosa e cominciò a tremare e a battere i denti dall’emozione. Papà, con delicatezza quasi effeminata, depose una pasta di mandorla sulle labbra infiammate di mamma, ma quel dolcino non volle obbedire, Tina cercava di bloccarla tra i denti, ma la dolcissima diavoleria gli s’incollò al palato e ci rimase per un bel po’.

-Una coppa di champagne?

Mamma non sapeva cosa fosse, ma lo bevve lo stesso. Le bollicine di quella diabolica bevanda, le esplosero nell’anima e nella gola, e quando papà la baciò sulla bocca, la pasta di mandorla ritornò al mittente e poi sulle labbra di papà. Tina dalla vergogna svenne tra le braccia del suo bel Vincenzino, declinò il capo sul suo petto e non si mosse più. Intanto la notte scendeva sulla città e le strade si facevano deserte, s’accendevano le luci di Catania, mentre la campana della chiesa della guardia di Ognina suonava l’ora nona. Rosina e Ciccio Pistorio erano affacciati al balcone e l’aspettavano. La vettura si arrestò e mamma si svegliò con la testa appoggiata ancora sul cuore di Vincenzo che

palpitava d’amore. Presentazioni, cena e a letto... Per Tina era la prima volta che si trovava sola con un uomo, nell’intimità di una notte imprevedibile e forse, senza regole, né buone maniere.

-Cara, fai come se fossi a casa tua, preparati e mettiti a letto.

- Preparati! Era una parola carica di doppi sensi!

E no! E poi... no!

-Signor Vincenzo... mi vergogno... non ci conosciamo abbastanza.

- Cara! Siamo marito e moglie e tu continui ancora a darmi il lei. Non l'hai ancora capito? Tu per me sei la persona più importante in questo mondo. Gli altri non contano, noi siamo una coppia che presto costruirà la più bella famiglia della terra.

Tina non voleva ascoltare e avrebbe, se fosse stato possibile, costruire un muro in mezzo a quel lettone. La paura gli faceva battere i denti e gli confondeva l'anima e poi, in quella situazione e con quei bei discorsi, senza saper leggere né scrivere, si coricò vestita. La notte, complice, li rese arditi. Miracolo dell’amore! I primi raggi del sole entrarono e si posarono sul letto dei due colombi: Tina era tutta nuda e nelle braccia del suo Vincenzino che se la dormiva alla grande. L’impertinente sole svegliò papà e gli fece dire:

-Buongiorno amore.

-Buongiorno, Vincenzino mio!

In vestaglia lei e in pigiama lui color del loro amore, fecero colazione, salutarono e partirono verso piazzale della stazione ferroviaria di Catania, da dove presero la corriera per Raddusa, dove tutti sapevano già.

-Vincenzino, (sinni fuiu cu na Rammacchisi!) ( Vincenzino si è involato con una forestiera)Il nostro Casanova locale si è lasciato prendere al laccio da una contadina di Ramacca!

Mamma Carmela, seduta come una chioccia faraona, circondata dalla sua muta di figli e figlie, aspettava che il figliol prodigo si presentasse al suo cospetto. Salvatore, scostumato e vendicativo, chiese a nonna il permesso di andare all’incontro del fratello. Permesso accordato ed ecco che i due si trovarono l’uno in faccia all’altro. Ok Koral: La luna era rossa e il vento sparpagliava i colori di quella terra che era capace di tutto e di nulla. Salvatore, simile a un ambasciatore che non porta pena, con aria da grande inquisitore, disse:

-Allora, con tutte le rose che crescono nel nostro paese, dovevi andare a Ramacca per cogliere questo broccolo di donna?

Papà non rispose, ma in compenso gli mollò il ceffone che s’era cercato e meritato, mettendolo a sedere. Sono certo di quello che dico, perché, a proposito di zio Salvatore, pace all’anima sua ho un triste ricordo: ero giovane e un giorno che passavo da Raddusa, con lui, ebbi una discussione a proposito dei miei genitori. Non solo ne parlò male, ma insultò anche me, in quanto figlio. Quindi, credo in questo passaggio di una storia, che non fece onore a nessuno. Ritorniamo a quella disputa tra fratelli. A quel punto, nostro padre capì cosa l’aspettava. Una tragedia si stava preparando e lui, che era uomo d’immensa bontà, prese per la mano la sua donna che stava dietro di lui e le sussurrò: andiamo a inginocchiarci davanti a mia madre. Chiediamogli perdòno e la sua benedizione. L’inquisizione spagnola era riunita intorno alla sedia gestatoria. Erano tutti ai piedi del trono della mia possibile nonna, Vincenzo e Tina si tenevano per mano, aspettando l’ira collerica della nonna.

- Perdonatemi madre, non avrei dovuto dare uno schiaffo a Salvatore, ma questo non vuol dire che si possa mancare di rispetto a mia moglie; il fratello, a quelle parole, tremante, si nascose dietro a Bianca che, secondo lui, era l’unico maschio della famiglia che avesse le palle. Nonna aggredì i due innamorati senza nessuna pietà:

-Figlio ingrato, osi presentarti davanti a me, come se non fosse accaduto nulla? Sappi che, a partire da oggi, non sei più mio figlio. Ci hai tradito e per di più, ci porti una straniera, una bocca in più da nutrire. Non dimenticare che avevi promesso di non sposarti non prima che tutte le tue sorelle si fossero maritate. Nonna era cieca e tributaria della zia Bianca, alla quale s’appoggiava perché era diventata capo-famiglia e poi, posando la mano sulla spalla di Bianca, farfugliò come Nostradamus:

-Non avrete la mia benedizione, anzi, vi maledico e vi auguro, una vita di merda.

E lo diceva mentre piangeva e imprecava. Dopodiché, sfinita, si lasciò cadere sulla sua sedia gestatoria. Il figlio ingrato, come un agnello sacrificale, appoggiò la testa sulle ginocchia della

madre e supplicò:

-Madre, vi prego, ritirate la vostra maledizione ed io vi prometto di fare tutto quello che vorrete! La vita si riorganizzò alla maniera dei poveri e mamma dovette subire tutte le cattiverie delle sue cognate, perché papà guadagnava bene e la copriva di bei vestiti, scarpe e borse di pelle di coccodrillo; Abitavano vicinissimi a nonna e le sorelle Cammarata, venendo nella nostra casa, portavano lo scompiglio. Aprivano l’armadio di mamma, rovistavano tra le sue cose, criticando i suoi abiti che trovavano esageratamente costosi e poi, dicevano:

-Povero fratello nostro, lo stai rovinando disgraziataaa! Mamma era incinta di nostro fratello Cristofaro e Papà era come se fosse in cielo, per quel suo primo figlio tutto suo, e non poteva permettere che le sue sorelle la facessero piangere. Ancora una volta, prese il toro per le corna e partì alla volta di Ramacca, per andare dai cognati, sperando di fare qualcosa con loro. I fratelli Conti, quando seppero dell’arrivo del cognato, l’accolsero signorilmente, dandogli la possibilità di lavorare una parte delle loro terre e vendendogliene un’altra parte. La terra che gli toccò, non fu certo un dono del cielo. Era una terra in dislivello e piena di pietre. Ogni volta che pioveva, l’acqua lavava e portava via il terreno lontano, a valle, nelle proprietà degli altri, modificando la planimetria delle parcelle e lasciandogli come regalo, le pietre che facevano cadere il mulo e l’aratro. Turi e Giuseppe furono persone tristi e anche un po’ scontrosi che pensavano solo ai cavoli loro e mai e poi mai, avrebbero dato una mano a mio padre, anzi, spesso e continuo, papà, gli prestava dei soldi che, non potendo restituire, pagarono con dell’altra terra che non era una meraviglia. Mamma era al quarto mese di gravidanza e non poteva aiutarlo. Ma nonostante tutte quelle avversità, alla fine delle semine, papà, come tutti i contadini, riuscì nel suo lavoro e si mise a frequentare il popolo del paese per cercare d’inserirsi tra la gente che contava. Era amico dei mariti delle sorelle di mamma: Salvatore e Giovanni Nicolosi, ma quei passeggi e quelle relazioni non bastavano e intanto rimpiangeva il vecchio mestiere di sensale. E venne il giorno che le prime spighe di grano apparvero sulle terre di mamma e con loro, sbocciò Cristofaro. Papà era fiero e felice e quel giorno, in piazza grande, lo stava raccontando a suo cognato Turi Nicolosi, sceriffo del villaggio di mamma. Quel nostro zio, solo per comodo, faceva il fascista e nei giorni di festa, per obbligo e nient’altro, vestiva tutta la sua famiglia alla moda del regime; con camicie nere e fez col pompon! E una di quelle sere, passeggiando, incontrò il comandante della piazza militare della val di Noto. Lo zio li presentò e raccontò dell’esperienza militare di nostro padre, che il giorno dopo fu convocato alla sede militare, per essere reintegrato e incaricato d'istruire le nuove leve all’uso delle armi. Da quel giorno, nel cortile del carcere di Ramacca, iniziò il suo lavoro di sergente maggiore, addetto alla formazione militare. Gli toccò, pure, di occuparsi del gruppo raddusano. Quell’incarico l’accettò esclusivamente per denaro e non per ideale politico. Per colpa di quel suo incarico, molto tempo dopo, ebbi a vergognarmi. Perché dopo la guerra, avevo l’abitudine di accompagnare papà ai comizi del partito comunista. Un giorno, in piazza dell’università, stava parlando il compagno Pietro Ingrao. Era l’epoca, nella quale, noi comunisti e i nostri avversari politici, ci accapigliavamo e c’insultavamo come lavandaie. Mi ricordo, che un contadino Raddusano, nostalgico del vecchio regime e militante del M.S.I, sapendo che quell’uomo accanto a me era mio padre, mi disse:

-Chiedete a quel signore di vostro padre di tacere e domandategli di quando c’insegnava a tirare col fucile per conto di Mussolini e &. Non risposi e non chiesi nulla a mio padre. Col tempo, l’avrei capito, e fu grazie a un altro di quei giovani, che papà aveva addestrato, che seppi la verità sul conto del mio vecchio, che diceva a quei giovani:

- Io voglio insegnarvi a tirare sui vostri nemici, ma sappiate che i vostri avversari vengono dall’interno del nostro paese e sono i fascisti e lo ripeteva tutte le volte che se ne presentasse l’occasione. Un giorno, quando la sua ormai quello che diceva era diventato di dominio pubblico, incominciarono i suoi guai e che guai! Lo Spirito Santo che aveva sempre avuto dei dubbi sul conto di papà, avvertì l’autorità superiore, ma non Dio; LLLLLLui, L'immenso non faceva politica. Lo Spirito Santo, al contrario e di nascosto da Dio, si! Senza esitare lo denunciò ai carabinieri, e sì! Il sergente Cammarata fu convocato e dovette spiegarsi. Disse che era una calunnia, ma fu allontanato lo stesso dal suo villaggio e dovette ritornarsene a Ramacca, e anche lì, se la vide brutta. Grazie allo zio sceriffo, evitò l’esilio politico, ma per un certo tempo fu costretto a volare basso per farsi

dimenticare, e se non andò in prigione, fu solo per caso. Da parte mia, se un giorno, non avessi incontrato quel vecchio soldato, ancora oggi, vivrei col dubbio che mio padre aveva collaborato.

Decima parte                [torna all'indice]

18 mesi dopo, nasceva Ciccio Maccu, il terrore di piazza del teatro massimo e dintorni! Papà, temendo per l’incolumità della sua famiglia, decise di scendere a Catania per trovare una tana per la sua donna e i suoi due cuccioli. Trovò un basso, in via Cordai, nel cortile de “sfacinnati” ( quelli che non hanno nulla da fare). 4 settembre 1935, un lunedì, alle 11 del mattino, mamma, con l’aiuto di due vicine, mi mise al mondo. Quelle comari raccontavano che Mamma appena si levava dal letto, preparava il suo seno solo per me che con voracità l’aggredivo e lo facevo mio, poi mi rimetteva nella culla e accompagnava il suo uomo fin sulla porta di quella nostra prima tana, mentre le vicine, fuori nel cortile degli sfaccendati, aspettavano il bacio sulla bocca a Tina, che Vincenzino smacciava come una palla da tennis alla sua bella che guardandolo bene negli occhi diceva:

-Fai attenzione a tia, mascaratu! Alle otto del mattino, papà, era in piazza della porta di Aci, per collocarsi davanti al cappellificio del signor Barbisio. Quel pezzo di marciapiede era diventato il suo ufficio. I paesani di Raddusa e Ramacca andavano da lui con le mani cariche di campioni di cereali e in bocca, domande e consigli da chiedere:

-Zio Vincenzo di qua e zio Vincenzo di là, lo chiamavano così:

-Che ne pensate di questo grano, a quanto e a chi potrei venderlo? Divenne il consigliere più bravo e più onesto di Catania: proprietari di mulini, camionisti e agricoltori gli fecero guadagnare da vivere, ma restava un consigliore senza ufficio, con moglie e tre figli, tante necessità e una grande paura di sbagliare. Era cambiato tanto e a tal punto che un giorno trovò il coraggio per fare il gran salto: dopo di una lunga riflessione si trovò un buco dove stabilire la sua sede e allo stesso tempo incominciò a cercare un fittavolo per la terra della Minarda. La famiglia Sciarotta si fece avanti e per 1000 Kg di grano, due agnelli e quattro forme di pecorino per l’annata, prese in affitto le terre di mamma. Mi ricordo che gli affari di papà incominciavano a marciare bene. Lasciammo la casa di San Cristofaro e andammo ad abitare in via del Teatro Massimo, dove, di lì a poco, sarebbe nato Rodolfo. Vincenzo, anche se non sapeva guidare, si comprò una balilla, assunse un’autista e incominciò a volare nella vita e negli affari. Aveva tutto per farsi accettare dagli uomini d’affari e dalle belle donne, che mia madre e le signore oneste chiamavano puttane e sfascia famiglie. Povera mamma! Papà si era fatto una certa reputazione ma anche tantissimi amici, si affittò la metà dell’ufficio del signor Calvagna, in piazza del carcere vecchio e partì in tromba, alla conquista di tutto e tutti. Telefonò ad alcuni camionisti dell’Italia settentrionale, che sentite le sue proposte, accettarono di trasferirsi a Catania. E in tanto il Fascismo, contrariamente a quello che ne pensava mio padre, si radicava nel tessuto sociale. Vincenzo Cammarata non smetteva di fare l'indiano, evitando di strusciarsi al mondo della politica. Per lui, contavano solo i suoi ragazzi e la sua Tina, anche se di tanto in tanto le faceva qualche corno, ma a modo suo l’amava e ci rendeva tutti felici. La sua passione preferita, da quel momento, fu d’ammassare il più denaro possibile. I soldi sarebbero stati i benvenuti; era da poco tempo che frequentava il benessere e gli dava il tu. Per lui non c’era altro Dio che il denaro ed era lui che menava la danza. Sapeva bene che per riuscire in affari doveva contare solo su se stesso per guadagnare la felicità senza troppi sentimentalismi, in una casa dagli alti muri. Col tempo e con la paglia, sarebbe riuscito a far indietreggiare i dolori del passato che non dovevano più far parte del suo quotidiano, voleva vaste campagne incolte da vangare lungo i sentieri che gli si paravano davanti per riacchiappare quella gioventù che era scappata all’indietro come l’uccello che costruisce la sua casa all’incontrario; aveva 45 anni, le chimere? Le aveva sistemate nella soffitta dei ricordi, per ritornare, stanco di solitudine e catene, ma non di voce per cantare una nuova versione della vita per far nascere e crescere figli felici. E con molti sacrifici costruì un muro invalicabile intorno alla sua vita privata. Era arrivata l’ora di raccogliere i frutti delle sue pene passate che presto, si sarebbero trasformate in momenti sublimi ma senz’anima, perché aveva smesso di credere nel divino. La guerra prima e la vita dopo l’avrebbero fatto girare su se stesso come una trattola, mentre non smetteva di guardarsi intorno

come chi aveva smarrito la spiritualità d’un tempo che non ritornava indietro; non era sereno perché vedeva che il fascismo e il malcostume dilagavano e lui non poteva e non voleva far nulla per combatterlo. La sua felicità triste correva nel salone dei passi perduti d’un mondo senza speranza che lo faceva sentire come un blocco di marmo che nemmeno i colpi di un grosso scalpello sarebbe riuscito a scalfire. E allora, cosa fece? Abbassò la testa e si circondò d’omuncoli che l’amassero per non farlo sentire solo. Il suo tempo libero lo passava a distillare sani pensieri e ubriacarsene, mentre i mostri dei suoi malefici incubi, continuavano lo stesso a bussare insistentemente alla porta della sua intimità, che non apriva più. Non chiedeva nulla, voleva dimenticare i mali del passato. Cristofaro e Ciccio Maccu andavano a scuola in un collegio di buone suore una carrozza li accompagnava e alle cinque del pomeriggio, li riportava a casa.

1938, il 17 di settembre nasceva Rodolfo, ma per superstizione di mamma, papà lo dichiarò il 18. Tutte le domeniche l’autista ci accompagnava ai bagni della stazione centrale. Una galleria scavata nella roccia delle lave dell’Etna che si erano accatastate, creando la piazza della stazione centrale, 50 metri più in alto del livello del mare; un lungo tunnel impregnato di bollicine d’acqua salata ti accompagnava lungo quel budello che sapeva di alghe che penetravano la tua pelle di odori di mare prima ancora di tuffarti in acqua, annunciandoti il piacere della risacca che di lì a poco ti avrebbe dondolato sulle acque dei due mari (Ionio e Mediterraneo.) Quel corridoio era come un sudario, l’anticamera del lido balneare, sul quale, tutti gli anni, esperti carpentieri, ancora oggi, con tavole d’abete, costruiscono un mondo di brevi vacanze, per onesti e lestofanti che come bimbi attardati, saltano come cavallette addestrate sui castelli di lava dell’Etna. Al tempo della nostra infanzia le cabine avevano una botola per scendere in acqua e non esser visti dagli altri. Indossato il costume da bagno, si sceglieva di mischiarsi al popolino o profittare della porzione d’acqua che si trovava sotto alla tua cabina, nell’intimità, Lungo il frontale dello stabilimento balneare correva una grossa fune per permettere a chi non sapeva nuotare di afferrarsi e battere solamente le gambe, più lontano, più in là, al largo, una zattera e tutti sopra, in primo piano i bulli d’allora, in costume da bagno olimpionico. Lasciamo il mare e ritorniamo a cose più serie. Un giorno dell'era fascista, nostro padre, ottenne un contratto colossale di sali potassici: dalla Sicilia alle raffinerie di Marsiglia. Il tragitto era il seguente: dalle miniere di Caltanissetta al porto di Catania tramite camion, dal porto via nave a Marsiglia. Papà aveva organizzato quell’operazione, come si doveva, riuscendo a conquistarsi la simpatia d’un gerarca fascista che aveva corrotto, esponendosi con molto denaro, al punto tale da dover chiedere un prestito alla nostra banchiera (Tina Conti dei Mirci e dei Cammarata), una banchiera che custodiva una fortuna sotto i materassi e nel reggiseno. Ma ecco che Mussolini, senza chiedere il permesso a nostro padre, dichiarò la guerra alla Francia e all’Inghilterra.

L’asse di ferro, “Tokyo, Berlino, Roma”, scombussolò i birilli e fece sfumare quell’importante appalto di Sali potassici che servivano per la fabbricazione del sapone di Marsiglia. Papà perdette la più grande opportunità della sua vita e tanto denaro. Egli s’incavolò come un turco e decise di farla pagare al fascismo e ai suoi gerarchi. Da quel giorno, insieme al poeta Giovanni Formisano e altri, incominciò a cospirare contro il Duce. Aderì all’Internazionale Comunista e frequentando gli scantinati del vecchio quartiere di San Birillo cambiò il suo modo di interpretare la vita. Nel quartiere del malaffare, con la scusa che c’erano le case di tolleranza, i compagni comunisti riuscivano a eludere i controlli della milizia fascista. Mi ricordo che, quasi tutte le notti, Rodolfo piangeva e mamma diceva:

-Vincenzino vedi se riesci a farlo smettere e papà:

-lascialo gridare, in Italia due persone hanno sempre ragione e il diritto di gridare e fare: Mussolini e tuo figlio Rodolfo!

Quasi tutti i giorni, la nostra casa brulicava di parenti che venivano dalla campagna, chi per gli studi e chi per altri bisogni. Una miriade di cugini e cugine, bruttine, ma c’erano anche quelle dello zio sceriffo, che preferivo e alle quali, se non fossi stato bambino, avrei rubato il cuore. Erano belle da morire. Per farmi tenere in braccia e poi stringermi sui loro petti che sapevano di pane di Ramacca, m’inventavo tutti i dolori del mondo. Con i cugini era un’altra cosa, nell’ammezzato, univamo i letti e i giochi più cattivi e gli sfottò andavano e venivano e finiva, quasi sempre, a schifiu ( bordello).

Tutte le sere, papà fingeva d'arrabbiarsi. Saliva, poi rideva e diceva: -Non fatevi male, picciotti! Ci rimboccava le coperte e buona notte al secchio!

Adesso ritorniamo a Mussolini che aveva fatto quella mascalzonata a mio padre. Per quale motivo aveva dichiarato la guerra ai nostri antichi alleati? Che cosa gli era passato per la testa? Forse perché suo cugino Adolfo, invitandolo a Berlino, gli aveva mostrato la potenza delle sue armi? Sicuramente! Uno spettacolo che l'aveva impressionato e fatto sognare! L’Italia subiva le sanzioni delle nazioni democratiche per l’aggressione al Negus e al suo popolo. Mussolini e i suoi accoliti scazzavano e l’Italia fascista priva di materie prime si industriava a cercarle nelle case degli italiani e nelle cantine dei nemici del potere, gli antifascisti come mio padre e Formisano. Nessun fascista disse no e perfino mio fratello Ciccio che, malgrado che fosse figlio d’un antifascista, era sempre figlio della lupa ed egli collaborò e rubò il ferro da stiro di mamma e l’ho consegnò al maestro di scuola che era militante e proposto a segnalare quelli che s’erano mostrati generosi e gli altri, i figli del nemico. Tutti quegli oggetti di metallo non bastarono. Ma subito dopo, si fece la raccolta dell’oro e la gente si spogliò delle catenine e delle fedi, in segno d’amore per la patria e pensare che dopo la guerra, tutta quella gente, avrebbe dichiarato di non essere stata mai fascista. Alla faccia del caciocavallo! L’altro giorno, con piacere, ho rivisto il film di Charlot il dittatore e ho riso tanto, soprattutto d’Adolfo a Roma. Nel film Mussolini, a denti stretti, teneva, simbolicamente per la mano, Emanuele il breve. Tappeto rosso e grandi onori al Fùreur. Fiori, fanfara e grande uniforme. Un mondo di marionette si allargava e si stringeva intorno al Duce.

-Duce! Aea - alalà, più qua, che là!

Un gran banchettare di rivendicazioni e dichiarazioni di guerre illimitate! Il Re? Era come se non ci fosse! Era escluso dalla conversazione ma il savoiardo, tirava per la giacca Mussolini e gli domandava:

- Nèh! Che cosa gli hai promesso? Non dimenticare che il Re sono io, te capì?

-Mangia! Mangia e non rompere!

Dopo quell’incontro, il Duce si sentì più forte, a tal punto da servirci doppie razioni di olio di ricino. Clara Petacci e la Braun, l’una sotto braccio all’altra, fecero shopping in via Condotti, promettendosi:

- C'incontreremo a Berlino, amica dagli occhioni blu, perché te lo prometto qui a Roma! Diventiamo comari!

La Petacci e la Braun giurarono, che alla nascita dei loro innocenti marmocchi, l’una sarebbe stata la madrina dei figli dell’altra. Mussolini era forte come l'aceto e virile come una sega, tanto per crearsi una reputazione da mandrillo e poi, c’era la propaganda fascista, che lo definiva lo stallone del fascio, come B… lo è per Forza Italia; invece per Benito, furono credenziali di grande lignaggio per un ventennio che gli permise d’incarnare il maschio italiano. Ma anche se Adolfo fisicamente era meno forte e gli mancava un testicolo, era lui che faceva paura al mondo intero. I vincitori del passato avevano minimizzato il fenomeno nazi-fascista. Credevano che sarebbe stato un fuoco di paglia. I tedeschi non scherzavano e intanto, invadevano la Polonia che si lasciava schiacciare sotto al tallone germanico. IL mondo dei potenti si riuniva per sguazzare in un mare di proteste, ma nessuno andava a soccorrere i polacchi. I tedeschi non ne tennero conto e marciarono sull’Austria filo-nazista che aprì le braccia e offrì le sue belle ragazze ai nemici-amici. Ancora una volta, icompari dell’altra parte protestarono, ma i tedeschi, se ne fregarono e andarono a occupare il Belgio e l’Olanda. Non bisogna dimenticare che il nostro governo aveva firmato un accordo col resto dell’Europa, un patto di non aggressione mentre dall’altro lato, si alleava con i tedeschi. Mussolini aveva sete di conquiste e per non perdere il treno della storia, diceva che bisognava rompere il patto con i francesi e col resto del mondo. Ipso – fatto: dichiarazione di guerra a tutti i nemici dei nostri cugini germanici. Tutti a piazza Venezia. Il padre del popolo italiano avrebbe parlato agli Italiani. I francesi che abitavano la terra ferma ebbero paura, perché non erano un’isola come l’Inghilterra e sapevano che il loro esercito era in condizioni disastrose e non avrebbero potuto arginare gli attacchi dell'orda selvaggia. I tempi di Napoleone erano lontani e il popolo francese aveva le scatole piene dei parlamentari di sinistra e di destra che cercavano di salvare le facce e le loro posizioni sociali in una guerra che temevano. Incoscienti e presuntuosi, gli uni e gli

altri, fecero sapere a Mussolini e Adolfo che se non avessero smesso di scassare e non ritornavano sulle loro terre, Francia e Inghilterra li avrebbero castigati. Il risultato fu disastroso. Chamberlain, l’uomo con l’ombrello al braccio dovette volare a Berlino per tentare d’ottenere una vaga promessa che col passo di Danzica e le tre nazioni occupate, Adolfo, non avrebbe preteso altro. L’uomo con l’ombrello aveva creduto alla promessa avuta, ma prima ancora che il suo aereo atterrasse a Londra, l’armata del nuovo Attila, schiacciava il Belgio e perforava la frontiera francese e poi, martellava le coste inglesi. L’Albania, la Romania, la Bulgaria e tante altre nazioni di straccioni cercarono e riuscirono a copiarci il programma. Allora non c’erano i diritti d’autore e ogni uno faceva quello che più gli piaceva; quei popoli più erano poveri e più c’imitavano. Il fascismo più che il nazismo e il bolscevismo, erano alla moda come la canzone napoletana e sapevano di pic-nic. I francesi ebbero una felice idea ( la linea Maginot), opera buffa in un solo atto. L’esercito tedesco la guardò, l’annusò, la contornò e passo oltre. I giapponesi vollero essere della partita e nacque il trittico della follia. Il mondo si divise in due parti, con l’America che per il momento restava a guardare. I governi di destra, in Europa, avevano una certa simpatia per i fascisti, perché sapevano com’era nato quel regime. Per loro quelle nuove dottrine sociali erano l’antidoto contro il comunismo e prima o poi, gli italiani sarebbero rivenuti sulla parola data. Piazza Venezia nel giorno delle dichiarazioni di guerra era uno sventolare di bandiere, una folla oceanica si spingeva e s’agitava. Arrivavano da tutte le province d’Italia per ascoltare il discorso del Duce. Al primo rango, per diritto fascista, i fedeli in camicia nera e con i gagliardetti alla mano sinistra e la destra alzata, come Paolo Dicanio giocatore della Lazio, fascista e ammiratore di Fini e Larussa!

-Silenzio, il Duce parla!

La folla tuona: Viva il duce, padre della patria.

E tutti cantano:

-Sole di Roma che splendi libero e giocondo sui colli (de li mortacci sua!) Tu non vedrai altro sole al mondo miglior di Roma!

La gente, intorno, si sgolava intonando:

“ Duce Alea alala!”

Poi, come a ogni adunata, arrivava il momento che sazio per gli applausi ricevuti, il mostro sacro, avrebbe parlato:

-Italiani! L’ora delle decisioni irrevocabili è suonata. La dichiarazione di guerra è stata rimessa agli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra.

La folla, come se si trattasse di un regalo di Natale, esplodeva come nel quarantacinque che opportunisticamente convinti, avrebbero gridato:

- abbasso la guerra e viva la pace. Ma quel lontano giorno di maledette dichiarazioni tutti gli italiani si sentirono fascisti e fieri d'esserlo. Mussolini era riuscito a farci salire sul treno degli orrori. Poi non contento dell’enormità delle sue parole, disse:

-A partire da oggi, non sbagliatevi, i nemici di ieri sono i nostri amici, mentre gli amici dell’altro ieri sono i nemici di oggi. Tedeschi e Italiani non si tennero per mano, ma tentarono lo stesso di marciare insieme sui sentieri delle indegne glorie. Il Duce non smetteva di blaterare e continuando a dire cavolate fece l’elogio del popolo italiano, del suo coraggio e delle sue capacità, chiudendo il discorso con la promessa di conquiste da mille e una notte. Il popolo pecorone e bastonato, al grido di: “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza!” riprese la strada di casa.

Ma quando l'esercito italiano dovette scontrarsi con i greci e gli albanesi fu la vergogna di tutto un popolo; tranne qualche battaglione che combatté eroicamente, il resto fu un disastro. Se non fosse stato per le truppe tedesche che venivano sempre in nostro aiuto, saremmo ancora fermi al 38° parallelo. Non fummo capaci di vincere nulla e devo dire che fu meglio così, almeno nessuno ci odiò tanto quanto i tedeschi.

I belgi scapparono in Francia con i panzer dietro al culo. L’esercito francese scappò dappertutto, perfino nei suoi territori d’oltre mare dove li aspettava Rommel, la volpe del deserto. La Francia si spaccò in due. Il governo d’emergenza di Petan si consegnò e collaborò col nemico e l’altra metà, cercò di resistere, senza riuscirvi.

In Francia le S.S e i soldati semplici passeggiavano sui campi elisi e portavano a letto tante brave ragazze parigine, sulle spiagge della manica s’ammassavano canadesi, inglesi, belgi e quella parte di soldati francesi che volevano combattere ancora. Resistere non fu facile, i tedeschi dilagarono e sottomisero la nazione francese, ma non il suo popolo che per fortuna, in un impeto d’orgoglio nazionale diede inizio, dappertutto, alla resistenza e alla sua internazionalizzazione. L’America ci venne in aiuto, ma il loro gesto non fu sempre disinteressato e poi, per intervenire, visto che l’opinione pubblica americana non era per la guerra, ma dopo che i giapponesi attaccarono la base navale di Pearl Harbour, gli americani intervennero e giunsero in Europa e nel pacifico, con i russi armati dall’America, per fare terra bruciata intorno ai tedeschi, italiani e i giapponesi, per chi sarebbe stato: sconfitte e disillusioni. In pochi mesi piovve addosso a noi tutti, l’Apocalisse, il mare della manica divenne l’inferno di giorno e di notte. Tutti gli anti-nazisti e i militari delle varie nazioni aggredite s’imbarcarono per la Gran Bretagna, mentre gli aeri tedeschi e italiani cercavano di bombardare senza tregua. A Londra si costituì il quartiere generale degli alleati, dove s'inventavano nuove soluzioni per sbarazzarsi di quella banda d’assassini. E il mondo libero e non fece a gara a chi uccideva il più gran numero di nazi-fascisti, ma gli alleati non furono mai così terribili come i tedeschi, i giapponesi e i fascisti. Sei milioni di ebrei, moltissimi omosessuali e gitani; 30 milioni di morti tra soldati, civili ed ebrei. Gli italiani, senza merito e sotto braccio ai tedeschi passeggiarono sui marciapiedi delle più belle città del mondo occupato, profittando dei privilegi del vincitore, senza meriti, mentre quelli che nell’esercito italiano non erano fascisti, morivano con dignità. In Sicilia, anche noi scoprimmo la guerra e cosa fosse realmente! Le prime bombe caddero sulle nostre case e sulla nostra precarietà. Ogni sera, nelle città dell’Asse, suonava il coprifuoco per tutti. Disertavamo le strade e il corso principale, si spegnevano le luci e la gente si rintanava in casa, mentre le spie dell’U.M.P.A ci sorvegliavano, obbligandoci a chiudere gli infissi. La frase che usciva dalle loro bocche non la dimenticherò mai:

“luceeee!....”

Papà aveva comprato una radio Marelli; Ciccio e Cristofaro facevano il palo, seduti sui gradini del nostro basso e quando vedevano passare le spie del Duce, davano una leggera gomitata sulla porta per avvertire papà che abbassava il volume della radio perché era proibito ascoltare Radio Londra. Tra quei masnadieri del Duce c'era un vecchio fascista della guardia civile che era un figlio di puttana senza pari né dispari, che avrebbe avuto un gran piacere a denunciarci, visto che sapeva del credo politico di nostro padre, anche se non aveva elementi per segnalarlo. Mi ricordo che durante la guerra e dopo, quando sarebbe ritornato a essere un mezzo uomo qualunque, l’avremmo guardato schifati e forse l’avremmo anche ammazzato. Nessuno, nel quartiere, amava quell'omino piccino - piccino che per vivere toglieva e tagliava i calli da porta a porta, non quella di Vespa, l’amico del Cavaliere, e quell’omino veniva anche a casa mia e si piegava davanti a me e là, mi prendeva la voglia di dargli un pugno in testa per punirlo di tutta le paure che ci aveva fatto vivere, quando bambini, incontrandolo per strada, ci facevamo ancora più piccoli e tremavamo ed io, mi facevo quasi pipì addosso. E in tanto, in quelle sere di bombardamenti e di passi dell'oca, casa nostra e non cosa nostra diventava un luogo di cospirazione e quei notiziari ci confortavano e ci facevano sperare. Di lì a poco, le forze alleate sarebbero sbarcate sulle spiagge di Gela. Catania per i tedeschi era una piazza importante e l’aeroporto di Gerbini, la base aerea la più strategica della Sicilia orientale che si trovava nella piana di Catania. Ogni sera una pioggia di bombe cadeva sul porto, sulla città e su tutte le caserme. I bombardieri americani, grandi come case e assordanti come se ti stessero incollati all’orecchio, con fracassi inimmaginabili, squarciavano la nostra terra che non era stata per nulla la causa di quella guerra. E allora io che da piccolo avevo visto diversi film di Frank Capra, credetti che gli americani erano “brava gente”e facevano la guerra al male e alla mafia, ma mi sbagliavo e lo capii solo dopo la guerra di Corea e quella del Vietnam. Papà, non ci mise molto per accorgersi che il fascismo aveva il fiato corto e che era l’ora di uscire allo scoperto. Si scrollò di dosso il suo falso apparire e si mise a fare propaganda comunista, mentre quelli che avevano intrallazzato imperterriti, continuavano a fregarsi le mani perché per loro c’era sempre l’impunità. Papà fu tra quelli che sentirono prossima la caduta del fascismo, ma non fu accorto, dimenticò che c’era un tempo per ogni cosa. Alzò il tiro e si scatenò, accelerò le sue decisioni e partì lancia in pugno contro i mulini al vento che non sarebbero caduti mai. Non voleva aspettare e a causa di quella sua frenesia fummo costretti a ritornare a Ramacca, dove i fascisti locali, per fortuna nostra, non si occuparono di papà. Avevano altro da fare: resistere non era coniugabile con l'opportunismo dei fascisti; meglio preparare le valige e fuggire in fretta e furia.

Undicesima parte                         [torna all'indice]

L’epopea fascista era al termine della sua corsa che si concludeva in malomodo; i servi del Duce non godevano più di nessun credito e nostro padre, morto il nazionalismo più deleterio, poteva alzare la cresta e dare inizio alla sua vendetta. Ogni mattina, ci lasciava per prendere la corriera e andare a Catania e la sera, all’ora dell’Ave Maria, ci ritornava come un monaco della questua e con lui, tanti altri papà, che andavano e venivano, per combattere il fascismo e farci vivere un po’ meglio. In città, non aveva più amici, ma lui se ne fregava. Non si scopriva, né faceva sapere quel che macchinava per restare a galla.

Com’eravamo felici di saperlo dalla parte dei giusti e dei vincitori! Era il mese d’agosto del 43: i tedeschi non cantavano più Lilì Marléne. Gli Anglo - Americani erano diventati i padroni del cielo, della terra e del mare. Gli aggressori diventarono aggrediti, vennero derisi e colpiti da tutti i lati. L’attentato di Via Rasella fu un atto infame che papà condannò. I colpevoli? Furono i soliti gruppi di resistenza comunista: 365 innocenti, furono trucidati alle fosse Ardeatine, mentre uno degli attentatori vive ancora e non si vergogna. Era il caos e anche a Ramacca, cadevano le bombe e nasceva nostra sorella Melina. Per noi, i giovani dei Nicolosi e quelli dei Cammarata, il carcere del villaggio e il suo enorme cortile, divennero teatro di grandi sparatorie, con fucili e pistole di legno. Le nostre battaglie furono cruente, come quelle dei grandi, che erano maestri di morte. Ci dividevamo in due gruppi ben distinti: da un lato i tedeschi e i fascisti, e dall’altro gli americani, ed io, per non sbagliare, sceglievo arrivano i nostri. Così come gli adulti, anche noi, a modo nostro, combattevamo e aspettavamo la fine della guerra vera! Nel cortile del carcere, le nostre battaglie degeneravano e qualcuno ci rimediava un bernoccolo. Poi, ritornata la pace, tutti in piazza a giocare al pallone. Per i più grandi; “i nostri padri e i giovani soldati”, non era facile trovare da mangiare. I tempi erano duri e nutrirci non era di tutti i giorni, né senza rischi. Vivevamo di mercato nero; tutti compravano e tutti vendevano qualche cosa, anche il proprio onore. In America, un personaggio della mafia, un antieroe, un volgare criminale apparve sulla scena d’una guerra, dove mancavano solo quelli come lui; quel mostro salì su d'un aereo per volare su i cieli di Sicilia. Pare, che l’avessero fatto uscire dal carcere, espressamente, per lanciare un messaggio al popolo della mafia:

Il tam-tam dei picciotti d'onore si attivò per annunciare:

-Adoperatevi per permettere lo sbarco in Sicilia! Gli affari? Non temete, riprenderanno. La Bandiera della nostra terra, color rosso e giallo, svolazzò, agganciata a un paracadute americano. Il padrino dell’operazione fu Luky Luciano, un mafioso sanguinario e senza scrupoli, condannato a 30 anni di carcere per crimini vari. Di lui, si diceva, che aveva commesso omicidi, rapine, traffico d’alcool e droga. Era un uomo d'onore all'incontrario; un galantuomo(!?). Dopo quella sua gita in aereo, non ritornò più in prigione e in Italia gli permettemmo tutto. Insieme al clan della famiglia Genovese e al generale Poletti (italo americano) s’occuparono, a modo loro, della distribuzione dei doni del piano Maschal. Mentre si preparava lo sbarco, Emanuele il breve, resosi conto che la guerra era perduta anche per lui, si fece e ci fece un'auto gol e la nostra fragile Nazionale dei calci in culo, si sfasciò e inventò, ancor prima di Hellenio Herrera, il catenaccio. Quell’infame Re era il nonno dell’attuale, incasinato, V. Emanuele IV futuro Re di questo nostro fottuto e nostalgico paese. Quello del 1943, ordinò al generale Badoglio d’arrestare il Duce e di patteggiare la resa con gli americani. Il Re V.E. III voleva far credere che tutte quelle malefatte non erano per sua colpa. Buon sangue non mente e suo nipote, l’imbroglione di queste ultime cronache all’italiana, anche lui, pescato con le mani nel sacco, l’ha detto:

- Noi, i reali d’Italia, siamo tutte persone per bene e lo giuriamo sulla corona de li mortacci nostri. Quanto squallore! Per il momento ci basta Emanuele Filiberto, con il suo inno all’Italia e la grossa coppa vinta a ballando sotto le stelle! Ma dimentichiamoli e restiamo nel tema di quel giorno di storia. L’esercito si spaccò in due. Carabinieri, soldati fedeli alla casa reale e fascisti, si

affrontarono. Fu guerra di cecchini e di sbandati che, in gran parte, volevano salvare solo la pelle. Tutti i colpi furono permessi perfino la fuga! In Sicilia, non c’era più un tedesco; perché anche loro, avevano avuto paura della mafia e degli americani ed erano scappati per riguadagnare, quel che restava delle loro case. Le loro forze si attestarono prima sull’Aspromonte, come avevano fatto i Borboni d'un tempo e poi, una volta sconfitti, s’asserragliarono nel convento di Montecassino. Il Duce venne imprigionato nella fortezza del Gran Sasso e vigilato, come solo, i soldati del re, sapevano fare. Per Adolfo, non fu difficile liberare il suo (famiglio), ( personaggio comico dell’opera dei pupi e buffone di corte). Lo liberò senza troppa fatica e lo rimise alla testa di un nuovo governo di fantocci, la Repubblica di Salò, parola che in francese vuol dire( cosa fitusa, vastasu, uomo di poco conto). Insieme i due compari, in brevissimo tempo, perché non ne avevano poi tanto, avrebbero fatto più danni di prima. L’Italia si trovò in piena debacle, occupata per metà, come la Francia che, in parte, collaborava con l’occupante. Non si capì più nulla, né chi era chi, né chi fosse il vero nemico. Cioccolata, biscotti, sigarette, sifilide e pane di segala e poi bianco come la neve; che confusione, che bordello a cielo aperto! Un giorno mio fratello Cristofaro trovò un piccolo passero che non sapeva volare ancora. Lo raccolse e lo portò a casa. Lunghissimi giorni di coccole, molliche di pane e qualche spaghetto spezzettato, insaporito col pomodoro e il basilico. Ogni mattina, Cristofaro, infermiere e futuro medico, l’esortava a volare, ma lui, povero passero, aveva paura. E venne il giorno che decidemmo di dargli la libertà e tutti e cinque, tristemente felici, andammo sul balcone, per vederlo volare via, ma nel nostro cuore c’era il desiderio che non ci abbandonasse. Dieci minuti dopo, ritornò e si posò sulla ringhiera, rientrò in casa e si sistemò in una vecchia coppola di papà. Diventò la nostra mascotte: entrando e uscendo a suo piacimento o seguendo nostro fratello dappertutto, finché un giorno, il nostro fifì affettuoso vide una mollichina di pane sul marciapiede e senza precauzione, abbandonò la spalla di nostro fratello e si lanciò per raccattarla, ma non toccò il suolo, perché entrò dritto nella gola del gatto: ( Friz-Hausen ), che l’aveva posta lì, espressamente, per catturarlo; una bestiaccia color grigio-topo, smobilizzata e dimenticata a Ramacca dal caporale Hanssen. Cristofaro gli assestò un calcio nel sedere e glielo fece sputare sul marciapiede ma, ahimè, morto! Il giorno dopo, si fecero i funerali e quella scena, me ne ricordò un’altra; i funerali di Medoro, il cane di Raddusa. Il lutto durò appena qualche giorno e poi, la vita riprese, mentre i nostri padri continuavano a dubitare e a chiedersi se quella guerra dovesse essere a quel modo.

Un’altra storia di volatili mi scuote la memoria e mi spinge a raccontarla. Protagonisti, sono nostro fratello Ciccio e i colombi del palazzo di Peppino Limoli. Ciccio s’era messo in testa di catturare i piccioni che nascevano e vivevano nei buchi che i muratori lasciavano sui pignoni dei palazzi. Era convinto che se si fosse arrampicato, come un alpinista, da un buco all’altro, tenendosi con una mano e ficcando l’altra nel nido, sarebbe stato un gioco da bambini, cosa facile a dirsi... Grazie a quella sua idea, avremmo potuto mangiare almeno un piccione a testa. Come il solito, io e Cristofaro ci lasciammo convincere e lo seguimmo in quell’avventura scellerata. A mezzanotte in punto, Tarzan venne a svegliarci:

-Cercate di non far rumore, se vogliamo mangiare del piccione, dobbiamo andare sulla terrazza. Non ci diede nemmeno il tempo di reagire, incoscientemente e senza sentire le raccomandazioni di Cristofaro, scavalcò la ringhiera e s’arrampicò sul muro dei colombi e come un gatto famelico... Una fragilissima tettoia, sotto di lui, copriva la stalla dell’asino di Peppino Limoli. Cristofaro osò:

-Fai attenzione, se cadi gli ammazzi l’asino!

Ma lui non ascoltò nessuno e si diede a scalare come un alpinista ignorante. Ecco che, con quattro salti, si trovò davanti al primo buco, muso contro…

Ficcò la mano dentro alla casa dei piccioni e mamma colomba, non avvertita, presa dalla paura, gli sbatté in faccia e scappò via mentre lui lasciò la presa e cadde.

Aprite cielo! Sfondò il tetto della stalla e successe l’irreparabile.

Ciccio cadde sul somaro di Limoli. La scena s’aprì sotto a un cielo stellato e carico di brutti presagi e subito un concerto per bestie e voci varie iniziò con stonature stridenti.

L’asino, dallo spavento, fece una grossa puzza, scalpitò e ragliò pure come un gran tenore, Ciccio se

la fece addosso e gridò: mamma mia!

-Sceccu, perdonami! Poi, veloce come un furetto, ci raggiunse e si incollò a noi. Quel film passò talmente veloce da non lasciarci nemmeno il tempo di reagire. Eravamo sconcertati e allo stesso tempo inchiodati sulle mattonelle d’una terrazza che scottava. Ciccio ci afferrò per la mano e ci trascinò fino ai nostri letti. Fuori, nel buio della notte, successe il finimondo. Il figlio di Peppino mentre l'asino ragliava e non smetteva, gridava:

-Arrusbigliativi tutti, si stannu arrubbannu u sceccu! Papà, senti il frastuono ma finse di dormire, sapeva cosa era successo, perché erano giorni che vedeva i nostri maneggi; conosceva bene i suoi avvoltoi affamati. E noi non fiatammo e restammo nei nostri letti, senza riuscire ad addormentarci. Addio piccioni! Stavo per dimenticare che, qualche settimana prima dello sbarco in Sicilia, quando comandavano ancora i tedeschi e i fascisti, sulla terrazza della scuola comunale, per ordine del comando militare avevano piazzato una mitragliatrice che non aveva mai sparato un solo colpo, ma restava lì a fare bella figura! Mi ricordo che, puntuali come un orologio svizzero, una squadriglia di bombardieri americani passava di lì per andare a bombardare il porto di Catania e quello di Messina. Quei bisonti alati, senza curarsi di noi, solcavano il cielo di Ramacca, che ai piloti, doveva sembrare una cagata di mosca sulle loro carte geografiche. Ma ecco che un piccolo aereo, con a bordo un fanatico fascista, si levò dalla base di Gerbini e partì all’attacco di quelle fortezze volanti. I Piloti americani non fecero nemmeno caso a quel tricicolo alato che mai avrebbe potuto alzarsi alla loro quota. Lo individuò, invece, la solerte e attenta contraerea ramacchese che, scambiatolo per un aereo nemico, non gli sembrò vero potere finalmente entrare in azione e guadagnarsi la prpria porzione di gloria.

L’aereo fascita e autarchico fu fortemente abbattuto tra le grida di giubilo dei fascisti addetti alla mitragliatrice e dalla popolazione ramacchese tutta.

Solamente, in inseguito, quando andarono a verificare, al posto di un aviatore americano, trovarono una camicia nera con il petto squarciato dai colpi di una mitragliatrice italiana. Gli americani, ingrati, invece, di ringraziare per la collaborazione, a scanso d’ulteriori equivoci, pensarono bene di sganciare tre bombe su Ramacca che fecero diecine di morti. E per fare capire che non scherzavano, ogni volta che passavano sul cielo del nostro villaggio, non mancavano mai di mitragliare qualche contadino che si trovava a lavorare i campi. Finito il macabro spettacolo, la flottiglia volante se ne andò per la sua strada. Papà si rese conto che per colpa di quei fanatici fascisti dell'ultima ora, sarebbe stato meglio di sistemarsi nelle grotte della montagna. Ci procurammo un carretto, lo caricammo delle cose più essenziali: pentole, carbone, stoviglie e tutto quello che poteva servire per fare da mangiare. Come letti, balle di fieno.. La nostra grotta era su d'un promontorio e tutte le sere, al momento della cena, avevamo diritto a uno spettacolo di fuoco antiaereo. Il campo d’aviazione di Gerbini era quello da dove era partito il feroce aviatore fascista, morto per troppo patriottismo, si trovava a valle, quasi a un tiro di schioppo da noi. La contraerea nazifascista sparava alla cieca, per darsi coraggio e noi, seduti all’aperto, sulle pietre che papà aveva trasformato in sedie, cenavamo accompagnati da quei frastuoni di proiettili trancianti e le bestemmie dei padri, in notti di fuoco, cariche di false stelle filanti. Dopo quei bombardamenti, molta gente, seguì il nostro esempio e occupò tutte le grotte che c’erano intorno a noi.

La vicinanza di gente diversa da noi e sbandata ci rese razzisti e papà, a più riprese, fu costretto intervenire per riportare la pace in quei luoghi. I nostri vicini di grotta, sfollati e disorientati, andavano per le campagne e rubavano di tutto. Spesso e continuo, avevamo la visita del maresciallo dei carabinieri che con i suoi uomini cercava ladri e soldati che si fossero dati alla macchia. Un gruppo di quei giovani soldati, ai quali, nostro padre aveva offerto degli indumenti civili, per ringraziarlo, gli avevano lasciato una mula militare, tante uniformi e qualche fucile. E il maresciallo, quelle bestie e quelle cose, cercava.

E venne alla porta della grotta Cammarata. Papà, aveva fatto la guerra e sapeva come comportarsi con gli uomini di legge. Noi, i suoi cuccioli, restammo a guardare cosa avrebbe fatto e detto, per non farsi sequestrare la mula.

La mula! Era un soldato a quattro zampe! Vallo a sapere!

Qualifica: mula o mulo militare! Numero di matricola, grado della bestia e vizi. La nostra non era

stata congedata e come quei giovani soldati, anche lei era ricercata e passibile di plotone di esecuzione. Il maresciallo e nostro padre si intesero sulla questione dell’ibrido ed egli promise che alla fine della guerra l’avrebbe restituita. In quanto a me, fu solo colpa mia, se mi beccai il nomignolo di: ( Arturu, pani duro ca nbudda do culu)! Arturo pane duro, con la vescica sul culo. Quel nomignolo non mi fu facile scrollarmelo di dosso e accettai quell’ingiuria perché ero un bimbo. Ma ora, a 70 anni, nessuno mi rivolge più quello sfottò. La povera mula non mi aveva fatto nulla e quelle mie vesciche sul sedere erano solo un incidente di percorso.

Un giorno, piccolo e stanco avevo chiesto a nostro padre di farmi salire dietro di lui, ed egli prendendomi per un bracco, mi issò e m'installò sulle natiche della mula che mi limarono il sedere, mentre papà, comodamente seduto, ma senza farlo apposta, godeva della sella. Per un mese circa, dovetti sedermi su di una piccola camera d'aria, come se avessi avuto un attacco di emorroidi precoci.

Melina aveva un mese di vita e mamma, essendo ammalata non poteva allattarla. Bisognava fare due Km per andare e due per rivenire per trovare il latte presso l'ovile e quella missione era uno dei tanti lavoretti che toccavano ai miei fratelli maggiori. Un giorno, mentre attraversavano un campo di grano, un caccia inglese si staccò dalla sua squadriglia e picchiò a capofitto su di loro, Cristofaro lasciò cadere il recipiente e il latte che si sparse sul campo di grano e poi, afferrando la mano di Ciccio, come due coniglietti impazziti si diedero a gambe levate, per raggiungere un grosso masso di tufo. IL pilota, vigliaccamente, sparò qualche colpo e poi, come se avesse mitragliato il Duce, se ne ritornò contento, in mezzo ai suoi. Devo dire che i due scugnizzi di Vincenzo se la fecero addosso. Rientrarono senza latte e senza recipiente e con la tremarella in corpo. Quella scena e il loro racconto mi fecero capire molte cose. La guerra, quella vera, non era come quando giocavamo nel cortile della prigione di Ramacca. Intanto, in Sicilia sparirono quasi tutti i fascisti e il colore nero delle camicie dei fanatici ridivenne indumento per il lutto. Tutti i segni ostentatori e compromettenti scomparvero o furono nascosti negli scantinati, in attesa di tempi migliori. La guerra “made in Italy”, stanca di trascinarsi dietro i suoi morti e quelli degli altri, si mise a suicidare la sua stupidità, senza riuscirci; i camerati sbandarono, e poi, cercarono come fare, per rifarsi una verginità e cogliere l’attimo fuggente degli equilibri possibili in quel casino di nuove prospettive.

Le delazioni piovvero a catinelle e molte persone compromesse passarono alla casseruola. Ancora una volta, italiani contro italiani, innocentisti e colpevolisti e tutti in coro, a reclamare il sangue e il cuore dei loro ipotetici nemici nascosti, un po’ dappertutto e intanto i volta gabbana si riciclavano mentre in misura diversa pagavano sempre gli stessi! A quell’epoca avevo 8 anni, la mente libera e il tempo per registrare tutto quello che accadeva intorno a me.

Bisognava incominciare a guardarsi intorno e ad apprendere come fare per crescere senza correre troppi rischi; l'importante non era partecipare, se non volevi morire di fame, dovevi vincere tutte le competizioni per non andare a letto a pancia vuota. Erano tutti là, ancora, davanti e dietro alla mia coscienza incontaminata, quella d’un bimbo che incominciava a divorare un passato che non aveva creato lui e credeva seppellito. Erano intorno a noi, dappertutto e appena rallentavi il passo o il gesto, qualcuno ti fregava la sedia, la tavola o l’ipotetico desinare. Se venivano scoperti, strisciavano e si lasciavano andare a sceneggiate grottesche e patetiche.

E come se non bastasse, c'erano quelli che si prendevano sul serio e raccontavano di aver fatto la resistenza, ma erano solo opportunisti e mercenari delle combine. Quel periodo, mi faceva pensare a una riflessione di Hausmann che all’incirca diceva:

- Questi uomini, il giorno che il mondo gli crollerà sulla testa, là, dove le fondazioni della terra se ne vanno ramengo, questi uomini seguiranno l’appello guerriero solo per ricevere il loro prezzo e poi, senza rendersene conto, si faranno uccidere senza morire. Quelli che verranno dopo, cercheranno di sostenere sulle loro spalle tutto il peso del firmamento, perché credono d’essere, per sempre, le fondamenta dell’universo.

Quello che Dio ha lasciato andare alla deriva, i prossimi mercenari forse lo difenderanno con le loro miserabili paghe, cercando di salvare la somma della vita, ma non riuscendoci mai!

Hausmann aveva ragione, perché i mercenari e tutti i suoi surrogati sono una conseguenza del marasma sociale che cancella i veri valori della vita.

Mentre scrivo, Dominique mi passa accanto e mi chiede:

-Cosa è che hai? Da un po’ di tempo sei di malumore.

Non so se sarebbe stato il caso di rattristarla, ma lei voleva sapere ed io, che credevo fosse giusto risponderle:

-Ieri, a mezzanotte era il 31dicembre 2OO7, un secondo dopo un altro anno e poi il primo gennaio del 2008, ed io sono qui, sempre più vecchio e stanco, spalando le ceneri d’un ipotetico funerale di parole! E mi trovo, senza bisogno di cercarmi, come quel tizio che si bagnava nudo nelle acque gelide della Senna. Mi vedo al suo posto e guardo l’acqua che corre e s’allontana, mentre resto a incartapecorirmi da solo, in mezzo al fiume che mi lascia e se ne va verso uno strano mare nel quale sono certo che non troverei le soluzioni per finire questa mia storia. Mi ritrovo e mi rivedo con la testa fuori dall'acqua, stordito dall'immobilità che mi lascia portare via dalle mie chiacchiere, senza una destinazione ben precisa e senza reagire. Credo che questo nuovo anno si presenta male e mi farà svirgolare. Chissà! Forse è perché divento vecchio? O forse è perché mi gelo gli attributi ( tout court). Il freddo di questi giorni mi fa sempre più paura, è come una cappa che vorrebbe soffocarmi la vita per scappare dalla mia anima. Per tanti anni ho creduto d’essere nato puro, timido e chiaro come un cristallo di Boemia, ma poi, col tempo, il mio cuore è scoppiato come fan tutti, come un’ordinaria e mal riuscita porcellana, per farmi diventare e disperdermi come coriandoli di carne, nemmeno buona per i cani. Oggi ho 73 anni e nonostante i deliri del momento, gli accordi sono e non sono ritornati in me; vorrei immaginarli puri come quando ero bimbo e ci credevo, ma è troppo tardi? Si! Perché non ho più l’età. Chi per caso si trovasse in simili situazioni, s’ammazzerebbe. Perché non l’ho faccio? Perché non sento questo bisogno? Vuoi proprio sapere il perché? Questa mattina, quando mi hai preparato il bagno, l’acqua era bollente ed io mi sono bruciato e non ho pensato più al suicidio. Poi, quelli che tentano il suicidio, sono coloro che non conoscono il piacere della vita tiepida che tu mi dai, ecco perché, grazie al tuo amore, la mia vita è come su di un’altalena, mentre quella di certe creature è tutto un suicidio. Ho conosciuto e vissuto questi stati d'animo, ma ora con te accanto, so fare la differenza e ogni mattina trovo sempre un pretesto, qualcosa da fare o da dire, per non tentare la morte che vorrebbe… anche se riconosco che sono i tipi come me i primi candidati al suicidio. Ora, in questo preciso momento, dichiaro alto e forte d'aver preso una decisione:

rinuncio a pedalare come un forsennato e voglio fare come la lumaca: partire per il mondo, portandomi sulla schiena la mia casa virtuale, i miei libri reali e le mie tante emozioni da raccontare come se fossi in un mono-vano, per far ritornare il sereno. Ho conosciuto momenti nei quali non mi accorgevo di portare sulle spalle, non una casa, ma una “truscia” di guai ( un fagotto). Ora, il panico ha sloggiato e ha liberato il ponte ed io non mi nascondo più dietro le debolezze d'un tempo, perché se lo facessi ancora, potrei mandare a puttane la mia ritrovata dignità. Sono stanco di percorrere viuzze a doppio senso, dove potrebbe passare una persona sola. Cara Dominique, ogni qualvolta che scrivo tu mi parli e mi fai perdere il filo dei miei disordinati pensieri e faccio fatica a riprendere le mie tristi litanie. Lo so! Mi sono appesantito e in questi giorni di feste pagane, ho mangiato troppo e non porto più a spasso né cane, né il mio corpo. Prometto, che oggi non mangerò e poi, dopo aver scritto ancora qualche pagina, abbandonerò l'ordinatore e uscirò col cane.

Dominique rinuncia a dialogare, non ha più voglia di ascoltare altre parole stonate. Mio Dio, come sono afono! Lei s'adombra ed io, come al solito, non riesco a chiederle scusa. Lascio che si allontana, restando con la mia storia tra le dita che scorrono sulla tastiera e ritorno col pensiero, nel lontano 1943, a quando avevo 8 anni, e a Ramacca che era in mano ai nuovi occupanti, gli anglo-americani che saranno, inseguito, rimpiazzati dai democristiani.

La fine della guerra ci permise d’abbandonare la grotta e ritornare al villaggio. Papà riprese i suoi viaggi tra Catania e Ramacca. Comunque andasse la vita, bisognava sopravvivere e il denaro che mamma aveva messo sotto il materasso non aveva più alcun valore e c’erano le lire americane (

Am-lire), ma noi avevamo sempre più fame. Per comprare un chilo di durissima carne, occorreva una valigia d’Am-lire. Ecco che Ciccio, uguale allo zio Peppino, versione sicula brasiliana, escogitò un sistema per nutrirci tutti. Uno di quei giorni di precarietà eccessiva, mi s’avvicina e afferrandomi per mano, mi dice:

“Scimunito! (Munito di sci!) Ascoltami bene, fai attenzione e non raccontare a nessuno di questa nostra conversazione. Domani mattina tu, piccolo nano, come se lui fosse un gigante, avrai l’onore d’essere associato alla mia persona! Insieme andremo nel quartiere generale degli inglesi, ma prima dobbiamo procurarci la merce che ci occorre per negoziare con loro!

Andammo nella bottega di zia Lia e comprammo due uova, quattro pomodori e un grappolo d’uva, poi, guardandomi fisso nelle pupille degli occhi e mettendomi in mano le due uova, disse:

-Guai a te, se le rompi ti scasso le corna.

-Dio mio com’era gentile, questo mio fratello che quando poteva, mi metteva qualche calcio nel sedere, giusto per farmi capire chi, di noi due, era il più grande:

Partimmo decisi a far fortuna come quella volta del pesce di Vincenzino a Porto Alegre. Eccoci davanti alla caserma degli inglesi:

Erano grandi e biondi, avevano gli occhi azzurri ed erano seduti spaparanzati, con le gambe penzoloni, sul bordo della finestra. Ci videro arrivare e risero di noi, scambiandoci per dei marocchini. E mentre noi li avevamo scambiati per degli angeli, loro ci prendevano per i figli del Negus. Un soldato, scambiandoci per arabi, ci disse, più o meno così: .Arouah, scoum, chamené! Ciccio s’incavolò!

- Ehi! Jonnj, che minchia dici: io sono italiota, andestente? Non l’hai ancora capito? Ti funziona la caccavella? Lisent tu mi? Ero sconcertato, non sapevo che mio fratello parlasse l’inglese! Ero in estasi e pieno di ammirazione!

- Iu a tia, dare tomanten e tu dare a mia, carnebiffet??? Mi capiscisti? Bisognava vederli ridere! Poveri soldati. Ciccio era riuscito ad avere la loro pelle e da quel giorno, il piccolo indigeno ebbe i loro scalpi e tutta la loro amicizia... che a lui interessavano poco. Divenne la mascotte e il loro fornitore più titolato. Gli scambi cominciarono e continuarono per tanto tempo e casa nostra si riempì d’ogni ben di Dio! Mamma fu contenta e con quelle derrate in scatola poté aiutare anche le sue sorelle. A Monte-Cassino, contrariamente che a Ramacca, fu una carneficina, gli italiani si battevano gli uni contro gli altri per una causa senza principi, né valori. Il Breve, il piccolo re, abdicava in favore del suo spilungone d’un figlio di forse! Quando padre e figlio, uscivano insieme, a vederli, mi facevano pensare all’articolo ( iL). Umberto era e fu, come la fanciulla che danzò una sola estate, fu quel Re che regnò meno di una stagione, lo chiamarono il Re di maggio. Ancora oggi credo che gli eredi, dovrebbe vergognarsi per essersi alleati con quelli che sterminarono sei milioni di ebrei. Oggi, gli eredi dei Savoia, sfidano la cronaca e senza lavorare, sguazzano nei Gossip e vivono nel lusso e in mezzo a quelli che contano.

-Viva l'Italia della barca che Va! Tutti noi vorremmo dimenticare e rispolverare l’oblio ma le generazioni a venire, si ricorderanno sempre, perché non è facile scordarsi del male che ci hanno fatto. Non dobbiamo dimenticare quei campi di grano, trasformati in cimiteri militari, gravidi ancora di bianche croci che rimangono lì a testimoniare la follia del genere umano e nello stesso tempo ricordano alle generazioni d’oggi e domani che a presente è anche frutto delle sofferenze e del sacrificio di tante persone che ci restano care. Quei cimiteri di guerra furono organizzati e file interminabili di parenti ci vengono a piangere, su gli antichi campi di grano dove amici e nemici, gli uni accanto agli altri si rigirano nelle fosse, come trottole impazzite! Come furono toccanti tutte quelle belle intenzioni! Mi sbaglio? No che non mi sbaglio e il grosso megafono degli arrangiatori di versioni, grida ancora:

-Circolate, non è successo nulla e che i sopravvissuti, ritornino a casa.

1944, e una flotta di navi e battelli di tutte le specie, incuranti e senza anima scorazzava sui mari di mezzo mondo. E quella era la flotta dell’eroe italo-americano, Luky Luciano. Agli occhi dei corrotti, era un uomo d’affari tranquillo e dallo sguardo triste che viveva una vita dorata in quel di Napoli. Il mafioso aveva rivoluzionato il mondo del crimine, portandoci le ultime novità

dall’America. In Italia le operazioni della polizia, non riuscivano a farlo condannare. L’America l’aveva rifilato all’Italia, come persona “Non desiderata.” Da noi veniva considerato un eroe perché aveva permesso lo sbarco degli alleati e intanto, corrompeva tutti quelli che avvicinava. A Torino, tramite: l’istituto farmaceutico Schiapparelli, con l’aiuto del suo direttore, riuscì a fare entrare centinaia di chili d’eroina. Tutto questo e altro erano stati possibili perché a quei tempi, l’Italia era terra di certuni e ora pure. Berlusconi, che è qualcuno, sa come vanno le combine e come si deve fare per evitare la prigione. L’industria chimica italiana e tante altre fonti erano nelle mani della peggiore fauna politica, come lo è oggi… E le navi dei veleni, affondate nel mediterraneo, lo confermano. I mafiosi circolavano liberamente e ottenevano perfino il porto d’armi. La polizia, grazie alle raccomandazioni politiche, li tollerava e li lasciava agire, a condizione che non ci scappasse il morto. Il generale italo-americano, Carlo Poletti, divenne il governatore di Napoli e il mafioso Vito Genovese, il suo braccio destro, mentre Luky Luciano divenne il Re della malavita.

Non fu solo la guerra a uccidere! Il dopo guerra fu micidiale: centinaia di bimbi continuarono a saltare in aria, grazie alle bombe, le granate e le mine, abbandonate un po’ dappertutto, dall'amico di ieri e da quello di domani. Il tempo passò lo stesso e papà decise di riportarci in via del Teatro Massimo. L’ufficio di Vincenzo Cammarata divenne una cella del partito comunista a cielo aperto e lui, non fu più lo stesso uomo di prima. A quel punto della sporca storia, bisognava fare i conti anche con lui che era convinto d’essere investito d'una missione sociale. Papà, l'utopista stratosferico, diceva che Stalin aveva bisogno di lui. Lo gridava sui tetti:

- conquistare il mondo alla causa comunista.

Papà non dava ascolto a quelli che, fino a quel giorno, gli avevano permesso di arricchirsi; i suoi sogni lo fecero esagerare e confondere “ la minchia col bummulo”( con l’anfora) e i nostri bisogni con quelli degli altri.

Viva il comunismo della libertà! Il suo modo di concepire la politica lo rese visionario, ma restò lo stesso un animale politico senza collare e senza padroni. Ricordo che s’infervorava per un niente e mandava tutti a quel paese. Il giornale dell’Unità divenne la sua bibbia. Mentre quel lecca sedere di Togliatti e tanti altri capi comunisti di mezza Europa, si accomodavano intorno al tavolo della nomenclatura sovietica, lasciandosi confondere le menti. Tutti i comunisti del mondo, indistintamente, presero ordini da Mosca. C’era da vergognarsi, perché quelle scelte permisero la rinascita della destra, che sapeva cosa c’era di vero e di losco sul conto del regime sovietico che era simile a quello della destra reazionaria che non faceva morti m’affamava l’uomo della strada. Crescevo e leggevo altre verità che mi allontanavano dall’ideale comunista e da mio padre, col quale, spesso litigavo. Papà, con quella sua maniera di fare, s’inimicò la Catania che contava. Si ritrovò isolato e non partecipò più alla tavola di quelli che comandavano. Aveva scelto il suo campo, che non era più quello del grano del “Margherito”, una contrada di Ramacca che permetteva di fare il buon pane a tanti. Quando a casa non c’era più nulla da mangiare, dalla vergogna non rientrava e andava a mangiare nella bettola di don Alfio un piatto di cotiche e fave. Mentre mamma continuava a distillare il poco e inutile denaro che ci restava, con parsimonia.

Vincenzo Cammarata era comunista e voleva restare tale; nessuno dei suoi pochi amici importanti riuscì a farlo ragionare. Lui se ne fregava e preferiva correre verso la rovina commerciale, piuttosto che rinunciare al suo credo politico. Con cinque compagni fondò la sezione “ Francesco Lo Sardo” deciso a ritrovare la sua vocazione pagana. Don Ciccio Distefano era l’unico amico che gli restava e credo, che fosse il padrino di mio fratello Cristofaro. Quell'uomo cercò di convincerlo ad abbandonare il sentiero della rivolta e a riflettere prima di attraversare il ponte che l’avrebbe allontanato dalla via della saggezza. Era deciso e pronto a tutto, perché era un’idealista e non aveva nulla a che vedere con i falsi comunisti o pseudo intellettuali. Che piovesse o ci fosse il sole, fu sempre pronto a donare a quelli che vivevano nel bisogno, dimenticando che era lui, che aveva i piedi nella merda. Era il tempo nel quale credeva negli uomini e pagava lo scotto! Spesso, nascondeva male le sue disillusioni. Credeva che noi, essendo troppo giovani, non potessimo scegliere da che parte stare. Quante volte, divenuto grande, lo strinsi tra le mie braccia, come se fosse lui il mio ragazzo! Ricordo che si dimenava, cercando di liberarsi dalla mia presa come una

vecchia anguilla, ma non riusciva a scapparmi e allora gridava:

- Non è vero, il comunismo trionferà! Per lui, ero solo un reazionario che cercava di avvelenargli la vita e farlo dubitare. Poi, venne il tempo delle ciliegie e a una a una come nella storia del pettine, i nodi vennero. L’Ungheria e la Cecoslovacchia ci sconvolsero e seminarono il dubbio nelle nostre giovani coscienze. In quell’epoca, avevo 24 anni ed ero giovane direttore di sala all’hotel Eden Riviera, d’Acitrezza. Tutti i pomeriggi, inforcavo la mia moto e andavo da papà, nel suo ufficio, dove, con tre compari e compagni di partito, giocava a tresette. Le verità che gli annunciavo, lo facevano uscire dai gangheri e destabilizzava i nostri rapporti, mentre io, gli facevo perdere la briscola e la scopa. In quell’ufficio, non si facevano più che pochi e miserabili affari: la politica e il gioco delle carte la facevano da padrone e finita la partita, andavano da don Alfio per un altro bicchiere di rosso. Via Landolina 70 era diventato il rifugio peccatorum di tutti i diseredati della terra. Non erano più, come per il passato, uomini d’affari, ma solo una moltitudine di poveri cristi che venivano per domandare un aiuto o qualche lira. Ho un ricordo che non posso tralasciare di raccontare. Era il 1951 e qualcuno che gli voleva ancora bene, gli aveva fatto ottenere un appalto umiliante ma buono, ancora, per farci smettere di mangiare pasta e fagioli. Papà ci convocò nel suo ufficio-sala da gioco: Cristofaro, Ciccio ed io.

-Ragazzi miei, non ho più l’età per correre le campagne, vorrei delegare uno di voi tre per eseguire questo contratto.

Alcuni giovani leoni della democrazia- cristiana, si rivolgevano a lui per affidargli un lavoro così fastidioso e complesso che difficilmente altri sarebbero riusciti a portare a compimento: Nostro padre accettò ma perché, effettivamente, era l’unico che conosceva i luoghi e la gente che avremmo incontrato. E poi, era la sola maniera che ci avrebbe permesso di guadagniare qualche soldo che avrebbe fatto respirare un po’ la famiglia.

Non potevamo dire no perché, minchia! Avevamo fame! Accettammo e fu Ciccio, che di appena 19 anni, partì, con cofani e forconi, all’attacco del fumeri o se vogliamo, diciamolo in francese( fumier) “ concime stallatico”. La sua missione richiedeva molta diplomazia e un gran coraggio. Con un camion che impestava l’aria, tre uomini e quattro forche, di paese in paese e accompagnati dai gendarmi, per domare la resistenza dei contadini che li aspettavano alle porte dei villaggi, mio fratello, giovane e inesperto, avrebbe dovuto marciare su sentieri di stalle di mezza Sicilia ma come molti giovani, si considero un generale e come tale cercò di comportarsi, ma il suo atteggiamento non impressionò nessuno, anzi, per Ciccio e &, furono battaglie dure. Per il primo viaggio, papà gli aveva consigliato di andare nei villaggi delle nostre rispettive famiglie. Andò a Raddusa, dove si scontrò con uomini e donne disperate. Alle porte delle stalle trovarono i contadini, pronti a infilzarli come polli. Avevano forche, pale e picconi e avrebbero venduto cara la loro pelle. Guai a Ciccio, se avesse osato toccare un pezzettino di merda dei loro animali. Per i contadini, quel concime era in grado di far maturare i frutti e il grano delle loro miserabili e poi, quel concime naturale, era Dio che glielo aveva dato.

Guai a chi volesse portarglielo via. Papà, aveva raccomandato di farsi accompagnare dai gendarmi, mentre Ciccio pensava che bastasse dire:

-Sono il figlio di don Vincenzo Cammarata, ma non fu così e dovette correre fin dentro la caserma dei carabinieri e trincerarsi dietro al corpo d’un maresciallo malaticcio e fragile, tanto da ritrovarsi per terra, l’uno sull’altro. E poi, per la prima volta di quelle battaglie a venire, L’ordine fu ristabilito in mezzo alla merda e per la stessa. Ciccio e i suoi uomini, poterono caricare e ripartire. Ogni volta, era così e anche peggio. Dopo ci assegnarono l’appalto della distribuzione dei sacchi di concimi chimici. Dieci lire a quintale, cinque per ogni sacco di 50 chili, duemila lire a camion e bisognava scaricare un po’ dappertutto. Mi ricordo che tutti e tre, andavamo come facchini, da una fattoria all’altra, con quei sacchi maledetti da Dio e dagli uomini, che ci bruciavano la pelle. Quel denaro era per mamma che si dibatteva tra mille difficoltà per non farci morire di fame, anche se la nostra, non era fame nera. I siciliani, non erano stupidi e non ci volle molto per capire che tutto quel perbenismo, ancora una volta, era una bella truffa. Le cose sono cambiate? Gli anni infami se ne sono andati via? Mamma e papà, non ci sono più, sono diventati ossa e poi polvere, riposano nella cappella di Bianca Cammarata, che forse, non è stata così cattiva, come pensavo. Spero solo, che

nel chiuso di quella cappella, non rompa le scatole ai miei genitori.

2 gennaio 2OO7, sono intento a scrivere, le mie dita scorrono veloci e solidali con me che mi sento tra cielo e terra. Vorrei sbrigarmi e finire questa nostra storia per rileggerla con voi prima che il mio ascensore arrivi. Un giorno o l’altro, sul molo della vita-morte, l’immaginario Caronte, accosterà la sua chiatta, aprirà la botola della sua stiva e m’inghiottirà. Qualche parte, sotto terra, incontrerò o no i miei genitori e a voi fratelli miei, quelli che mi sopravvivranno, prometto di scrivere e comunicare buone notizie di mamma e papà.

E ora una virata nel tempo di pria e di poi:

Questo è il Natale di un anno che dovrebbe corrispondere al 2804 della storia della fondazione di Roma e noi continuiamo a pagare le colpe dei nostri padri. Gli antichi romani forse avevano ragione. Dicevano che per rigenerarsi bisognava fare le guerre! Ma le guerre generano solo il vibrato dei chirurghi sociali che creano l’inizio e la fine dell’inutile chiusura dei vuoti che non si riempiono mai, la dove le notti dell’umanità che muore, aspettano che passi il massacro, che ha tutto il suo tempo ed anche il nostro. I filosofi più fini, dicono che le guerre si fanno per costruire la pace; ma non sarebbe meglio di non fare le guerre? Dio del caso, fai che la gente smetta di perdersi. Vorrei poter ritornare indietro nel tempo e ritrovarmi seduto sui gradini della scalinata del palazzo delle finanze, in piazza del Teatro Massimo, quella che per noi, fu il circolo massimo e l’Agorà dei nostri padri. Ora ci provo, come quando sognai di nonno e Raddusa. Eccomi, ci sono: Chiudo gli occhi e ci riesco.

Catania 1945! Ho dieci anni, sono in quella piazza, rivedo il ricovero antiaereo e un’altra realtà, quella che non è più come un tempo. Alla mia destra il palazzo dei mutilati delle passate guerre, poi, una dopo l’altra, fino all’angolo di via Michele Rapisarda, le botteghe: quella dello spedizioniere signor Curcio, Cannavò e il macellaio Nicotra; davanti a me il palazzo dell’opera lirica, alla mia sinistra il panificio della famiglia Bonfiglio, la segheria dei fratelli Distefano, la tabaccheria della vedova Stivala e all’angolo, il salone da barbiere della famiglia Reina. E tutto a un tratto sento uno schiamazzo sordo che giunge dalle strade e dai vicoli che danno sulla piazza. La voglia di vedere bene e chiaro, mi consiglia di sgranare gli occhi. Li vedo arrivare alla chetichella, l’uno dopo l’altro: Giovanni il panettiere, Nino il Professore, Luciano il sarto, 'Nzino il merciere, i Costanzo , i Graziano, gli impellizzeri, i Gambino, i Cammarata, i Bertolo e poi tutti quelli che conoscevo per il loro sopranome ( cimicedda, coglioni imbastiti, brachiti-brachiti, collo di nuzza, Ciccio sciò, etc, etc! Dio, com’eravamo magri! Piccoli e incartapecoriti come solo i figli della guerra, sapevano essere.

Bimbi senza infanzia, né gioie, che tentavano di recuperare il tempo che era volato via. Un vecchio maglione, pieno di giornali, letti e riletti, una matassa di spago, che dopo un certo armeggiare, grazie alle mani esperte di Pippo u scarparu diventava un pallone e il gioco era fatto. Si formavano le squadre, più eravamo e meglio era, con noi, il pallone non si annoiava e prendeva calci da tutte le parti. Io abbandonavo subito, non amavo correre troppo e poi, nell’ufficio di papà, c’era il signor Raimondo che lavorava per noi e col trincetto e una macchina rudimentale, scorticava i copertoni rovinati per ricavarne le tele che vendevamo al signor Minotta che fabbricava le sue famose scarpe. Alcune di quelle tele e i battistrada servivano per riparare le gomme che potevano essere usate ancora. Molta fatica e poco guadagno. Ancora un pessimo investimento di papà.

1948: il pallone di stracci lasciò il posto ai primi palloni di cuoio che costavano cari e noi, per averne uno decente, fummo costretti a quotizzarci e a comprarlo in società. Il ragazzino che metteva più monetine aveva il diritto di formare le squadre e s'era possibile, far vincere la sua squadra, se no, sequestrava il pallone e incavolatissimo se lo portava a casa. Ogni pomeriggio, dopo la scuola e i compiti, appuntamento in piazza. Le squadre scendevano in campo, una lira a gol, ma quelle erano latitanti e firmavamo i nostri primi pagherò che non erano debiti d’onore.

- Questo è gol.!.. Non è gol.!.. Ci tiravamo per la camicia, ci spingevamo e alla fine “finiva a schifiu” perché nessuno voleva pagare e non pagava. Sfiniti e delusi dai risultati, andavamo alla fontana di via del Teatro Massimo, ed era più l’acqua che ci buttavamo addosso che quella che si beveva. Poi, felici ritornavamo ancora una volta nella piazza che si faceva buia. Il fischio dei nostri padri e il vociare di chi non sapeva fischiare ci riportavano a casa.

Dodicesima parte                  [torna all'indice]

Per alcuni di noi, le cene d’estate si vivevano e si recitavano su i marciapiedi di via del Teatro Massimo. S’improvvisavano tavole e si mangiava all’aperto. La famiglia dei Papa era composta da Tredici metri, Ministra, Benito testa di lignu, Ciccio sciò, Armando l’operatore di cinema e una figlia di cui non ricordo il nome. Riparavano macchine da caffè e la loro casa era sempre piena di carcasse di macchine e pezzi di ricambio e quindi, d’estate, per loro era un piacere mangiare all'aperto. Apparecchiavano la tavola sul marciapiede, dirimpetto alla nostra casa, e lì, dopo qualche bicchiere di rosso, scoppiavano liti spaventose. C’era tanta gente che si sedeva fuori, ma lo facevano con più discrezione. Via del Teatro Massimo, per noi del ceto medio-basso-basso, era un bel vivere. Le serate erano piacevolissime, la gente si scambiava parole e sapori: una fetta di mortadella, un tocchetto di pecorino, un bicchiere di vino e un po’ di pane di Ramacca. Molti ragazzi della mia età, figli di fascisti, con nomi infamanti, restarono marcati a vita: Benito, Ciano, Emanuele, Margherita, Italo, Adolfo e tutti quanti, anche dopo la guerra, vissero nell'imbarazzo. Molti papà comprarono le scarpe di copertone che nostro padre scuoiava e Minotta fabbricava. Quelle scarpe erano indistruttibili, ci facevano puzzare i piedi e ce li facevano sanguinare. Noi, rispetto agli altri, eravamo dei privilegiati perché eravamo i figli del fornitore e ne possedevamo due paia per ogni uno di noi. Calzarle non fu una vacanza, né un momento magico. A parte quelle scarpe che erano un insulto, tutti, buoni o cattivi, puri o impuri, cercammo d’essere felici, perché la guerra era finita concedendoci il perdòno e lasciandoci sperare in un mondo migliore che, a gruppi, ci obbligava a fare salti di gioia. I miei fratelli più grandi, incominciarono ad allontanarsi da me e dai miei problemi, loro ne avevano da vendere e a me, preferirono i loro nuovi amici. Non ho alcun gran ricordo con loro, furono di poche parole, perché avevano deciso che per loro ero un coglione visibile.

-Ora che riesco, in qualche modo, a scrivere non potete sapere il piacere che provo nel parlarvi attraverso questa storia balzana che potrebbe continuare a farvi vergognare di me, anche se credo d’essere diventato un uomo che dei tic e dei toc ha fatto un’arte che gli ha permesso di calcare le scene di mezzo mondo. Com’è bello e costruttivo che, alla fine d’ogni storia, tutto rientra nell’ordine delle cose e le incomprensioni si stemperano e ci fanno perdonare e capire. La mia rivolta di giovane imbecille l’ho vissuta male e sempre da solo, tanto solo che, a volte, la mia scena era vuota di me e di voi. La mia testa era in disordine e, forse, fu perché non seppi chiedervi aiuto o non sentii la vostra presenza. La mia solitudine interiore mi fece scappare via dai vostri silenzi di gioia. Vostra madre, per colpa mia, pianse e voi, i suoi paladini mi metteste alla gogna. Ogni volta che ritornavo nella vostra casa depositavo il mio piccolo cuore straziato sul petto di vostra madre. Mi stringevo forte a lei e singhiozzando, le chiedevo perdòno. Lei non riusciva a parlarmi, ma io la capivo lo stesso perché sapevo che le sue lacrime erano il suo perdòno per quel figliol prodigo che ero. Mi guardava e dopo un poco, ritrovata la sua voce, diceva:

-Tu sei il più bello dei miei figli! Perché non vuoi essere diverso? Forse hai paura? Parla! Cuore di mamma tua! Perché, continui a fare il clown, per piacere agli altri?

-Avevo ragioni da vendere che nessuno voleva comprare, e allora? Ritornavo a scappare ancora e ancora, e non smettevo di salire su treni senza destinazioni. Quante volte li ho presi e ripresi, per ritornare da vostra madre con l’anima sporca e l’amaro in bocca! E a ogni ritorno, mamma mi stingeva a sè per rassicurarmi. Qualche ora dopo, il tam-tam, nel quartiere, annunciava la novella: il figliol prodigo, il figlio della signora Tina è ritornato. La vergogna, come al solito, era tutta per me. Me l’ero meritata? Dal vostro punto di vista, sì!

Questa rivisitazione, (1945-50, è terminata).

Ritorno alla cassa di risparmio e al mio tavolo da lavoro, da dove, di tanto in tanto, alzo gli occhi e guardo il prato del mio giardino che si lascia divorare dal gelo del 5 gennaio 2008. Gli uccelli volano basso davanti alla mia finestra per reclamare le molliche di pane che ora abbondano sulle nostre tavole. Da dietro, alle mie spalle, arriva la mia donna che mi dice:

-Arturo tu m'ami?

-Che questioni! Si che t'amo!

- Sei sicuro di non rimpiangere nulla del tuo passato?

-No! T’amo e non rimpiango nulla e nessuno! Ma mento! Ho sempre mentito e a lei nascondo tutta la mia disperazione, i miei pensieri profondi, i miei problemi e i miei dolori. La separazione dai miei figli non è stata facile, perché d'allora è stato come se m'avessero amputato la vita, come se intorno a me, la nebbia si fosse messa a fabbricare il silenzio, l’esitazione e il soffrire. L’amore per la mia donna, solo parzialmente, mi ha guarito e mi ha rimesso sulla carreggiata. Imparo a occuparmi di lei e ad amarla come merita. La calma regna tra di noi. Con lei, tutto diventa facile. Prima amavo senza amare. Ora lei è qui e si stringe forte a me. Quante volte, davanti alle finestre, sera e mattino, vedo levarsi il sole e coricarsi la luna? Prima non era così.

-Tempo, fermati! Non uccidere i ricordi brutti o belli che furono!

E ora, come in una favola, se me lo permettete, voglio raccontare, condensata nello spazio di una settimana, la storia della mia vita, con mia madre:

Lunedì:

Avevo 20 anni e non dirò come e cosa avevo fatto per raggiungere quell’età.

E mamma che soffriva per colpa mia, mi domandava:

-Che cosa vuoi farne della tua vita?

Cosa potevo dirle? Che la vita mi faceva paura? E poi, lei lo sapeva. In silenzio, posavo le mie labbra sulla sua fronte sudata e scappavo fuori, con le mie mille scuse a fior di pelle per asciugare le mie lacrime e poi, stringere i pugni nelle mie tasche bucate e lasciar passare altri 5 anni.

Martedì:

Avevo 25 anni e fatto cento mestieri. Mamma era sempre lì, davanti a me per rifarmi la solita domanda:

-Che cosa vuoi fare della tua vita?

-Che cosa voglio fare della mia vita?

Non si stancava di chiedermelo, ed io tacevo e lei, ancora una volta, prendeva le mie mani e vi piangeva sopra, ed io, le dicevo:

-Non piangere mamma, non né vale la pena, perché non so fare nulla! Continuerò a trascinare la mia vita come sempre. E' la sola cosa che riesco a fare!

Un terzo della mia vita l’avevo smarrita, senza sapere dove, né come!

Mercoledì:

Avevo già 30 anni e cercando d'eludere la sorveglianza di mamma, tirai fuori dall’armadio un vecchio tascapane di papà. Poi, come posseduto da una frenesia insensata, lo riempii di indumenti inutili. Misi il contatto e la moto si diede a rumoreggiare, mamma mi corse dietro per bloccarmi ancora una volta e per impedirmi di scappare da lei:

-Dove vai, hai deciso di farmi morire? Che cosa stai facendo della tua vita?

-Che importanza ha la mia vita?

Mi allontanai da lei e partii come un ladro sulla strada dell’imprevedibilità. Sette anni passarono da quel mercoledì: avventure e disillusioni, genio disordinato, miseria e nobiltà e quasi sempre tutto questo nel caos. Schiavo e padrone, matrimonio e divorzio e per finire: ritorno alla cassa di risparmio siciliana.

Giovedì:

Era ancora, uno dei tanti giovedì, troppi, tutti quelli che avevo mancato con mamma, e quel giorno ero ritornato per riportargli il figliuolo prodigo, che continuavo a essere. Ero sempre lo stesso uomo, quello che aveva sperperato la sua vita e sconquassata quella di una povera madre. Non abitavano più in via del Teatro Massimo. Cristofaro gli aveva trovato una casa accanto a quella di Melina. Papà e mamma s’erano fatti vecchi ed io, non me ne ero accorto, perché da tanto tempo non vivevo più con loro. M’apparvero sulla porta: mano nella mano dell’altra, mi si strinsero intorno con amore per entrarmi nell'anima come se avessero voluto fondersi con me e diventare una sola persona. Aspettavano il ritorno di un figlio che aveva mancato al suo dovere. Quella sera, dopo cena, papà mi disse:

-Vieni figlio mio, usciamo! Eravamo ancora una volta sottobraccio come ai bei tempi, quando cercammo di rifare il mondo. Era stato il mio caro nemico politico e ora era una piccola figura consumata dagli anni. Da quel giorno e, per qualche tempo, riprendemmo le vecchie dispute ed io, per non deluderlo, gli feci credere che la rivoluzione era per il giorno dopo. Qualche mese con loro e poi, riparti ancora una volta in Toscana e un giorno, così com'ero partito, ritornai e pensai che forse, sarebbe stato meglio se avessi smesso di correre la cavallina storna e fossi rimasto con loro. Papà fu felice d’avermi accanto a lui e tutte le mattine, insieme, si andava ad aprire il suo ufficio, dove cercai d’inventare qualcosa. Con noi, nelle combine, c’era anche Nino Commercio, un disperato delle piccole truffe che mi voleva un gran bene, ma trovava sempre soluzioni di merda, che a stento ci facevano sbarcare il lunario. E un giorno, mamma, affettuosamente, mi parlò di Rosetta Gambino e della cattiva sorte che gli era capitata. Solo a lei, a vent’anni, avevo promesso che un giorno l’avrei sposata, ma come il solito, l’avevo solo bidonata, non sedotta, ma solamente abbandonata. Venendo a conoscenza di tutto quello che gli era capitato, non trovai di meglio da fare, che riparare quel senso di colpa che m’accompagnava. Il suo Dio, per marito, gli aveva dato un pederasta, che a sua volta, gli aveva dato una figlia. Quel diverso frequentava i gabinetti del cinema Olimpia. Un giorno, Rosetta seppe e lo mandò via. Lei Viveva in casa della sorella, aspettando, che forse un giorno, il suo principe azzurro sarebbe passato di là per portarla via sul suo destriero bianco. Il principe azzurro non era più il bel giovane d’una volta, era solo un guerriero stanco e in cerca di riposo. Arrivai a piedi e gli disse:

-Vieni via con me. Non la liberai dal drago, ma una buona e cattiva cosa la feci; cercai di regalarle una vita migliore. Rosetta, non fu tutta rosa o tutte spine ma mi frantumò ugualmente il poco equilibrio che mi restava! In breve tempo: lei, la sua bambina ed io portammo lo scompiglio nella casa della povera mamma mia. Tornare indietro, riportarli dalla sorella, richiedeva un certo cinismo. Non feci nulla e sperai che mi lasciasse e se ne ritornasse dalla sorella. Ma l'avevo messa incinta, io che non ero destinato ad aver figli perché, a detta di mio fratello Cristofaro, illustre ginecologo, forse ero sterile ed io, feci salti di gioia contenuta. Afferrai per mano la donna bisbetica, la figlia del pederasta, il mio bimbo a venire e li riportai dalla sorella, non certo per abbandonarli. In Germania mi avevano offerto un posto di chef di cucina. Partii promettendo che appena trovavo casa, sarei ritornato per portarli ad Amburgo, da me. Con lei la vita era diventata un inferno; m’inventava amanti e scappatelle da degenerato del sesso. La mia notorietà di ottimo cuoco non si fece attendere. Guadagnavo abbastanza e tutti mi volevano, come chef. Un ristorante tenuto da una famiglia ebrea, mi propose di lavorare per loro e oltre alla paga, m’offrì un appartamento al primo piano di quell'immobile, sopra al ristorante. Accettai e quando fui certo che assentandomi, non avrei perduto il lavoro, affittai una macchina e andai a cercare la mia ex e la sua bambina. Con lei, volle portare anche sua nipote Rosaria e il suo gran baule. E venne il giorno del miracolo, quello che sarebbe dovuto essere l’attimo più bello della mia vita.

1978: un angelo, scese dal cielo per invadermi di felicità, ma non per molto tempo, dovetti lasciarlo in mano alla medicina, ritornandomene a casa col paniere vuoto. Una complicazione intestinale me l'avrebbe strappato dalle mani che incominciavano a tremarmi. Il bimbo stava bene…, ma aveva un’ostruzione al colon! Bisognava operarlo entro i primi giorni di vita, tagliare la parte malata, creargli un ano artificiale e poi, innestargli un budello del suo apparato intestinale.

L’operazione sarebbe stata un gioco da ragazzini:

- Signor Cammarata, il bimbo è stato colpito dal morbo di Erik Spraugue. Non tema nulla.

In effetti l’operazione riuscì, e qualche giorno dopo, lo levarono dall’incubatrice, lo vestirono e lo misero con gli altri bambini. 15 giorni e poi, di notte, il telefono di un mio amico, che parlava tedesco e teneva i contatti tra me e l’ospedale, fece squillare il mio e lui e unico amico in terra straniera, venne e bussò alla porta, aprii e dal suo volto capii:

-Sbrigati, andiamo, tuo figlio sta per morire, bisogna tentare un’altra operazione. Per non fare paura alla madre, dissi:

-Rosolino ha un problema, devo accompagnarlo e riportare indietro la sua vettura. Il mio volto, da solo sarebbe bastato per far capire quello che stava per arrivarci addosso, ma ancora una volta, com’era il suo solito:

-Sei un bastardo, hai sempre la testa alle puttane! Io ti lascio, sei un uomo senza onore! Domani telefono a mia sorella che mi manderà i soldi del biglietto e poi ti lascerò con le tue donnacce! Non risposi, perché non ne valeva la pena. Col cuore frantumato e ingiuriato, tentai d’ignorarla. Strada facendo, dissi:

-Rosolino fermati davanti a quella chiesa protestante! Era la sola in funzione, ma quando scesi e tentai d'entrare, il grande portone era chiuso, come se si trattasse di un fondo di commercio. M’inginocchiai sui gradini gelidi d’un monumento inutile per inventarmi un Dio qualunque. Pregai senza fede possibile e immaginabile, barattai la mia vecchia carcassa in cambio di quella del mio angelo! Che stupido che ero stato, a credere che Dio potesse esistere, assistermi ed essere alla mia mercede! Deluso da Dio, abbandonai il sagrato di quell’anonima chiesa per raggiungere la clinica. Non so quanto tempo restai ad attendere l’esito dell’operazione. Tre ore, quattro? Il chirurgo mi venne incontro e mi disse:

-Non resti qui a rodersi il cuore, ritorni a casa, l’operazione è riuscita. Ed era la seconda volta che un medico mi diceva: Non si preoccupi, va tutto bene.

-Per precauzione, l’abbiamo messo sotto respirazione artificiale. E mentre Rosolino traduceva le parole del dottore, sentii che il mio angelo era già morto. Rientrai a casa. La mia strana donna m’aspettava seduta sul letto, piangeva e continuava a insultarmi, mentre io, sordo e con l'anima spenta mi trascinavo, virtualmente, dietro al corpicino inanimato di mio figlio. Mi ricordo che l'avevo chiamato Davide, perché il mio datore di lavoro era e, forse, è ancora ebreo. In quel tragico momento della mia vita, mi aveva messo al collo una catenina con la stella di Davide. Stella che porto ancora al collo. Io, l’ateo impertinente, mi avvicinai al letto, me la sfilai dal collo, deciso a restituirla il mattino dopo. Erano le tre della notte, il sonno mi aveva vinto ed io mi ero addormentato e sognato la morte di mio figlio. Ricordo che nel sogno scendevo le scale e sul pianerottolo, m’imbattevo nel giovane di colore che faceva il lavapiatti da me, e in quell’incubo, gli dicevo:

-Mammadù, il piccolo Davide è morto.

I singhiozzi della straniera che mi dormiva accanto mi svegliarono, ed io, mi liberai da quell’incubo premonitore. Mi girai verso di lei, scesi dal letto, la presi per i capelli e poi, gli diedi due ceffoni e le dissi:

- Tu e le tue puttane! Vai al diavolo! Stronza che non sei altro, nostro figlio è morto!!!!! Poi, mi presi la testa tra le mani e scoppiai a piangere con tutte le lacrime che mi restavano. Lei si rese conto d’averla fatta grossa e cercò il perdòno, ma accanto a me e dentro al mio dolore, non c’era più posto per lei. Doveva accontentarsi del vuoto che aveva creato. Il mattino dopo, accompagnato da un impiegato del consolato, ritornai all’ospedale, dove il chirurgo, che aveva capito il mio stato d'animo e l'aria che tirava, ci fece accomodare nel suo studio, restandomi lontano, a distanza di sicurezza, ma prima che ci sedessimo, tentai di saltargli al collo, mentre la persona che mi accompagnava, un signore grande e grosso, mi bloccò tra le sue braccia e mi fece lasciare la preda. Chiesi e ottenni, che gli staccassero i tubi del polmone artificiale. Il chirurgo, colpevole di negligenza, disse:

-Se vuole un’autopsia, non ha che da chiederlo. Risposi di no! In verità era successo che dopo la prima operazione, l'avevano vestito e messo nel lettino senza fare attenzione ai rischi che avrebbe potuto comportare il contatto della stoffa sull'istallazione dell'ano artificiale. I punti di sutura s'erano scuciti e l'ano di plastica era entrato nell'intestino e scatenato un'infezione prevedibile, con relative conseguenze; ma che importanza poteva avere per loro? Era solo il bimbo di un terrone! E quel giorno volevano farmi credere e accettare che non c'era stata negligenza alcuna. Incaricai una società di pompe funebri per farlo cremare e diventare tenera cenere. Quella sarebbe stata la sua ultima sofferenza. Me lo misero in una scatola a misura di bimbo e lo seppellimmo nella fossa comune di un cimitero, nel quale tentai di sotterrare il mio dolore.

Rosolino mi voleva un gran bene e per farmi piacere, comprò una vecchia birreria e mi disse:

- Siamo soci, fanne quello che vuoi.

Avevamo deciso di chiamarla San Valentino e d’inaugurarla, il 14 febbraio del 78. In meno d’una

settimana, lavorando spediti, riuscimmo a essere pronti per l’apertura. Era il 12 di quel maledetto mese, mentre mio padre moriva ed io non ne sapevo nulla. Il suo corpo gelido, da tre giorni, m’aspettava insieme ai miei fratelli e mia madre, sicuri che da lì a qualche giorno sarei arrivato per onorarlo, ma non ne sapevo nulla. Il ristorante dell’ebreo non aveva il mio indirizzo e fu per caso che poterono contattarmi. Rosetta era passata per recuperare la posta. Avevo il martello in mano e stavo attaccando qualche quadro. Lei entrò e come se non fosse successo nulla:

-ah! Toh! Ti devo dire una cosa, tuo padre è morto. Lo seppelliscono oggi. Ti fanno sapere che se vuoi, ti aspettano. Per me era troppo tardi. Non avevo più lacrime da versare, mio figlio me le aveva prese tutte. Telefonai a Catania, cercai di spiegarmi e far capire il mio stato d’animo. Credevo che avessero capito, poi, col tempo, seppi che qualcuno di loro, aveva condannato quella mia decisione di non andare. Un grande uomo e uno più piccolo mi avevano lasciato.

Col cuore pieno d’odio per Dio e la sua corte, m’incamminai verso l’Elba, fiume e porto d’Amburgo. Guadando verso l’orizzonte, dove immaginai che si trovasse la mia terra, piansi mio padre, attraverso il dolore della morte di mio figlio: io figlio di Vincenzo e padre di Davide, maledissi la vita! Con Rosolino, per colpa di Rosetta finì male e tre mesi dopo ci separammo. Partimmo per Parigi, la mia signora in quel tempo aspettava un altro bambino, il padre? Ero io! Ci fermammo a Bruxelles da Enzo Montagna e anche lì, fu ancora il bordello e poi arrivammo a Parigi. Mio fratello Ciccio mi fece lavorare con lui e con un suo amico che ora è morto e che sarebbe diventato il padrino del mio secondo Davide.

Il 26 novembre del 1978, Davide secondo, nasceva, rassomigliando, come una goccia di mare, al fratellino, che avevamo perduto. Grazie a mio fratello, conobbi i gestori della pizzeria “da Salvatore”che erano tre fratelli sminchiati e presuntuosi e stavano per perdere la gestione. Come al solito, colsi la palla al balzo e riuscii ad avere quel locale per una manciata di spiccioli. La gelosia di mia moglie si rimise in movimento. Più lei m’accusava e più le mettevo le corna, sciacquandomi le trippe e la libido, ma senza riuscire a contenere la sua cattiveria e gli insulti, perché era una vera popolana. Vi ricordate, la vecchia filastrocca di mamma, che iniziai, alla pagina 66, e che m’ero fermato a giovedì? Sì? Continua!

Venerdì:

Avevo 44 anni, e non 44 gatti, col resto di uno! Rosetta aspettava un altro figlio, sarebbe stata la volta di Fabio e non avevo altro da fare che andare a Catania affinché mamma potesse incontrare e conoscere il mio secondo genito:

Tina e Davide! La gioia di mamma fu immensa ed io presi mio figlio e lo posai sulle sue gambe. Davide si aggrappò al suo collo e la sbavò e sdentato com’era, si diede a morderla come se fosse il suo frutto preferito e più antico. Amore ancestrale? Certo! Sembravano conoscersi da più vite. Poi, mamma se lo strinse e lo baciò dappertutto e gli disse:

-Sei più dolce di tuo padre e anche un poco chiù mascaratu! Mamma era felice, ma non dimenticò di chiedermi:

-Che cosa hai fatto della vita che ti ho dato?

Gli mostrai mio figlio e lei capì e come al solito, pianse e pregò il suo Dio per me e per i miei figli. Sommerso dai miei pensieri, presi Tina tra le braccia, la strinsi al mio cuore e sentii che presto l’avremmo perduta. Ritornammo in Francia, un mese dopo, mamma, si lasciava ghermire dalla morte. Il suo Vicenzino era morto da due anni e lei, un giorno dopo l’altro, da quando il suo uomo se n’era andato via, s’allontanava sempre di più dal mondo dei viventi. Melina era sempre più grande e mamma diventava sempre più piccina e minuta. Si scambiarono i ruoli: nostra sorella divenne la sua mamma e lei, la sua bambina.

Ci chiamarono da Catania:

-Venite, accorrete, mamma si lascia morire.

Quella volta là, non avrei mancato all’appuntamento. Non avevo un figlio da piangere, mi restava solo una mamma che voleva andare dal suo uomo che l’aspettava. Ciccio ed io prendemmo l’aereo e volammo fino a Catania. Eccomi davanti a lei che non mi chiede più nulla, non m’interroga e non mi assilla con quel suo:

-Che cosa hai fatto della tua vita?

Quel giorno era di sabato, avevo 46 anni e mi sentii dire come se stessi solo con me stesso:

-Dio del caso, fai che mamma, senta la mia voce! Aveva un solo occhio aperto che si riempì di lacrime, segno che m’aveva visto e capiva.

-Grazie Dio!

Erano le sue ultime ore, ed eravamo tutti intorno a lei. Gli parlai, perché era sabato:

Sabato:

L'ultimo sabato della nostra vita insieme. L’ultimo giorno della settimana delle nostre botte e risposte:

-Mamma, quando tu partirai, niente sarà più come prima. Avrei voluto avere un’altra mamma come te, per rimpiazzarti, ma Dio non ha voluto.

Dolore, strazio e nient’altro! Mi sembrò che le sue labbra stessero per dirmi:

-Cosa né hai fatto della tua vita?

Distrutto e con l’anima lacerata, replicai, zitto zitto, dolcemente:

-Mamma, perdonami per tutte le lacrime che ti ho fatto versare!

Il giorno dopo, mamma morì e raggiunse papà. Ora non ci sono più. Sono sotto la terra fredda! Sotto alla terra nera! Largo al factotum della morte e sotto a chi tocca (!?) Io, potrei dire:

me ne frego e me ne fotto, ben venga la morte, ma, per il momento, mi nascondo dietro all’ombra della mia ombra e cerco di rimanerci finché posso.

Addio mie vecchie cicatrici.

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La collina di mia madre

(Mia madre, mio padre e io.)

Mia madre voleva che, crescendo, diventassi cattolico, apostolico e cristiano e in quell'ottica non aveva trovato di meglio che farmi battezzare, nella speranza di salvarmi l'anima.

Mio padre diceva che l'anima era un pisellino per certuni e non per tutti, con due attributi di qualità superiore, o meno. Crescevo senza sapere a chi dei due dare ascolto. Per non inimicarmeli e solo per questo, mi inventai un Dio a mio uso e consumo, ma presto lo trovai stancante, complicato, ingombrante e devastante; Lo misi alla porta, l’incenerii e con lui, bruciai l'innocenza dell'uomo che voleva formarsi in me. Li seppellii nel giardino dei passi perduti, lasciando che il corso della mia vita prendesse la sua e la mia strada e deviasse il mio destino. Mio Padre, il solito burlone, diceva:

- Ama il tuo prossimo come te stesso, ma lasciandolo in pace. Speravo che pur senza papà, mi sarei liberato lo stesso da quelle pastoie che mi rendevano un nano. Da piccolo, alto quanto un soldo di cacio, volevo salvare il mondo e poi, diventare la voce di quelli che non ne avevano. Ma la mia vita scombinata non mi faceva smuovere il culo. La sola cosa che riuscivamo a fare, il mio culo ed io, era di stare a guardare che la carovana passasse. Vedere e non far niente, mi avrebbe lasciato il tempo per riflettere e capire quello che facevano gli altri e quello che non avrei dovuto fare io. Vivevo al risparmio (alla giornata,) rubando l'esperienza dei kamikaze della vita. La prima cosa che scoprii, fu il metro per misurare la felicità e la ricchezza che non era uguale per tutti e che i diritti degli uomini, andavano e venivano a secondo di chi era l'uomo che mi stava davanti e s'era lui che possedeva il metro e le chiavi del maniero. Le rivoluzioni spicciole erano i privilegi di quelli che non possedevano nulla e non avevano niente da perdere. Il possedere le conoscenze, non era una questione di differenti intelligenze, ma solo d’interessi diversi: quelli degli uni e quelli degli altri. Ora, se potessi, con l'aiuto del Dio del caso, vorrei che si realizzasse un mio antico desiderio che vorrei raccontare. So per certo che è difficile che si realizzi, ma io voglio raccontarvelo ugualmente: - Prima che la mia anima se ne vada via verso una fine che l'ucciderà oltre la morte, vorrei diventare una lacrima di sale, un sorriso di stanchi ricordi, per rimpiazzare quel mio percorso che è andato a puttane! Ricordo che crescevo disordinatamente e, malgrado ciò, la gente mi giudicava con indulgenza ma mia madre no, lei non la pensava così e mi diceva:

-Tu non ti sei mai occupato di te come avresti dovuto! Hai voluto cacciare nelle terre degli altri ragioni che non ti appartenevano credendo che fossero migliori delle tue. Gridavi la tua speranza ai quattro venti, cercando fin nel profondo delle tue trippe che credevi fossero il prolungamento della tua anima. Ma quelle scelte non ti sono servite a nulla.

Mamma diceva che ero immaturo e che avevo succhiato un seno che non era il suo. Immaturo, agro amaro, non riuscivo a capire, se mia madre e gli altri parlassero per aiutarmi o per distruggermi. Poi, con gli anni l'oggi divenne il domani, che sarebbe diventato diverso di ieri, per poi trasformarsi in forse, rubandomi un figlio. Mia madre aveva cercato d’insegnarmi a sorridere, a parlare e a cantare con voce da tenore una vita che aveva perduto i suoi accordi ancestrali. Crescevo e il mio destino cambiava, si ritorceva contro se stesso, lasciandosi andare con gioia ragionata, perché voleva riportarmi l'equilibrio e insegnarmi ad amare in un mondo insensato e senza musica. Ed io, senza prendermi troppo la testa, vissi una vita azzoppata, perché non avevo saputo seppellire i cadaveri eccellenti che avevo nascosto nell’armadio del mio cuore che, a volte, si sfasciava sotto il peso dei miei peccati di ieri, di oggi e... Malgrado certe avvisaglie, in questo mio vecchio cuore, continuano ad arrivare idee malate e amori fragili per rendermi ancora la vita anemica, vita che ha già pagato un grande prezzo perché non ha più nulla da dare. Questo m’accadeva lontano dallo sguardo affettuoso di mia madre che non credeva più nella mia redenzione. Io, disperato e deluso aspetto che mi piova un miracolo addosso, mentre impunito come ero, mentivo, restando immobile per non rischiare. Un desiderio malsano mi spingeva a nascondermi tra le pieghe di storie altrui o in

quelle della mia famiglia di sempre che, senza interruzioni, si ripetevano all'infinito. Allora, di tanto in tanto, con accidia, spegnevo la luce della stanza dei miei ricordi dove, con me, dormivano i miei crimini pensati, ma mai consumati. Passò tanto tempo ma con la paglia, la mia vita si lasciò addentare. Da alcuni anni, sono diventato più saggio e mi lascio accompagnare da un diverso destino che m'aiuta ad apparecchiare la mia tavola che, purtroppo si fa sempre più mono posto. Sono stato un circense, un domatore che non ha saputo trattare con l'uomo animale, che né allora, né oggi ha paura di me. Lo spazio tempo nel quale vivo, spesso, mi riporta all'interno di certi periodi della mia infanzia, quando, maldestramente, senza riuscirci, cercai di trattenere il tempo che poteva e doveva contare. Ora che tutto va meglio, cosa potrei chiedere alla vita? Se potessi, gli chiederei di lasciarmi stare in pace, e poi, col suo assenso, gli direi:

- Lasciami gridare che ti amo! Grazie vita che mi esplodi dentro al cuore e produci il vento che gonfia le vele d’un amore tiepido. E ora, dopo tutti questi lunghi anni di assenze non giustificate, entra nell'anima mia e violenta la tranquillità ritrovata. Ma fallo dolcemente! Avanza con garbo, come sai fare tu, un piede dopo l'altro, senza far rumore. Amami e rimetti l'ordine nel mio essere e non essere. Sai una cosa? C'è voluto molto tempo, ma alla fine, ho imparato a camminare a piedi nudi nei cuori della gente e adesso, posso promettere che non griderò più sui tetti delle case del mondo. Sono 30 anni che il sole di Saint Michel mi scalda e con tenerezza mi culla, e si prende cura di me. Sole di Francia che accarezzi la mia testa calva e mi inoculi il vaccino contro la voglia di tornare indietro, sotto a quel sole di Sicilia, arrogante e senz'anima. Quello siciliano m'incendiò e m'incenerì la vita passata, come se non fosse stata la mia. Mi rivedo bambino, inesperto e alto come tre mele, l'una sull'altra, a piedi nudi, davanti al muro della casa sulla collina di mia madre, calciando il vecchio pallone delle mie precarietà. Ma solo adesso, grazie al Dio del caso, quei momenti non esistono più. La vita s'è fatta generosa, mi si siede accanto, leccandomi le ferite che son diventate cicatrici. Come puoi constatare, sono vecchio nel corpo, ma non nell'anima. Vecchie parole slabbrano la mia bocca e la tristezza accompagna quel che resta della mia esistenza, e tu la Vita, vieni, abito al n° 3 del vicolo dei platani, nelle terre della Loira atlantica. Le mie ferite si sono rimarginate, restano solo vecchi ricordi, giusto per non dimenticare. Un miracolo è avvenuto:

Posseggo un nuovo cuore. Il dio del caso mi ha concesso un credito illimitato, perché ha capito che il mio cuore è una pompa che sfiata e perde colpi. La vita mi ha ridato fiducia, anche se continuo a vivere senza regole.

-Grazie per avermi tirato fuori dalla fossa. Le prove che mi hai imposto mi hanno fatto capire la ragione per la quale vivo su questa bella terra di Francia. Mia moglie, la dolce Dominique, dice che non mi lascerà mai. Lei è la mia Musa, la mia seconda vita che continua in lei e in me. Grazie a lei posso organizzare e rimettere in ordine i fili dei miei pensieri. Prima, intorno a me non c'era niente e nessuno. Adesso c'è lei che è qui per vivermi accanto. I suoi occhi sono i miei che vedono chiaro e trasmettono all'anima nuove lezioni di vita e d'amore. Insieme, disegniamo l'ordine delle cose. Cancelliamo e riscriviamo la storia dei nostri passati che, solo adesso, si fanno presente. La mia vita? Non l'avrei voluta come è stata. Avrei voluto una storia senza dover mentire, né uccidere la memoria. Mi sento sicuro? Posso dire che questo capitolo è chiuso? Sono certo che è questo il risultato che volevo? Avrò la forza di attaccarmi al liscio scoglio della vita? I buon pensanti dicono che nulla è impossibile! Non condanno la vita per essere scappata via, ma piuttosto la ringrazio perché è ritornata indietro, piena di significati e nuovi valori.

-Grazie vita che mi dai tanto e che mi fai correre come un cavallo stanco che va verso un destino che si fa cuscino per riposare e riprender fiato. Il tempo che passa mi fa vecchio ma sereno senza più pudori e con la voglia di ritornare bambino. Spesso, con la fantasia, mi travesto da bimbo per sgambettare la morte che mi guarda col suo unico occhio, quello stupido, quello morto, quello che fa tanta paura!

Malgrado tutti i miei malanni e le tonnellate di pillole, posso considerarmi fortunato. Alla morte sono riuscito a confondere le carte perché ho scoperto il suo gioco, è miope. Non può afferrarmi, nelle trasmissioni e nei passaggi dalla vita alla morte, spesso, si sbaglia di vittima e prende fischi per fiaschi. Quando mi gira le spalle, senza che se ne accorge, la spintono, cade e s'arrabbia. La

morte, per vivere, deve lavorare tanto; non sa dove sbattere la testa, ma non smette mai, perché pare che glielo abbia ordinato Dio. Il supremo, l'unico, il solo! Nel mondo ci sono troppi candidati all'olocausto, perché i miserabili sono tanti e sono scomodi. Sono gli emigranti di sempre e di prossimamente su questo schermo. Giorno e notte corrono nelle terre degli altri, perché non ci sono più terre da conquistare. Hanno paura e questo, spesso, si trasforma in odio e crea l'incomprensione e l'intolleranza. Io sono stato un emigrante atipico e imprevedibile che scappava dai ghetti e conquistava sempre i quartieri alti dei figli di buona madre! Per fregarli, sono dovuto andare a scuola, dove ho appreso lo stretto necessario: leggere e scrivere, male ma sufficiente per fregarli. Col tempo, su i marciapiedi di Catania, avrei completato le mie classi, alla carlona. Nelle terre di Sicilia, quando papà era ancora di questo mondo, i ricchi erano ricchi, ma non sempre signori. I cafoni erano sempre più poveri ma non sempre maleducati. In questo mondo che passa, scassa e lascia, nessuno è soddisfatto, né contento. Oggigiorno, non si dice più:

- Dio vi benedica, ma la gente aspetta ancora che il nuovo Messia venga per portargli non la verità, ma la chiave per entrare nel salone dei mille passi, senza doversi rompere la schiena. Così va la vita, che non dà sempre tutto! Scrivo, ascolto radio Sorrento e guardo fuori, dove vedo le rondini che, anche quest'anno, sono ritornate: amorose, gentili e felici. Sono venute e si sono sistemate sotto la grondaia che borda la nostra casa. Tutti gli anni, in primavera, ritornano, come lo fanno i bimbi delle nostre due famiglie: Pia, Chiara, Matteo e Sergio, i miei fratelli e i loro figli, che portano la gioia nella nostra casa, ma la fanno diventare più piccola che mai. Quando invece, siamo soli e loro non ci sono, i nostri animali domestici riprendono a respirare e il giardino torna a vivere in maniera diversa: il cane, la gatta, i pesci nel bacino, le tartarughe e il coniglio Pasqualino Cammarata, capitano di fregata. Sono dieci anni che le rondini e i nostri familiari, non mancano a questo appuntamento primaverile, pieno di felicità per ricontarci e raccontarci, gioie e pene.

Ai nostri cari e alle rondini, ogni qualvolta che arrivano, diciamo:

- Benvenuti! Benvenuti! E Mentre ciò accade, non posso impedirmi di pensare a quei cari che non sono più con noi: nostra madre, nostro padre e mio figlio. Care immagini che non mi ritorneranno più! Nella vita che ho vissuto, ho conosciuto epoche diverse: miseria, prosperità, lusso, lussuria e quando, in certi momenti, i dispiaceri mi afferrano per la mano, penso sempre a quell'artigiano dell'universo, al quale, vorrei dire:

-Dio, non vedi che è l’ora di rinnovare le stagioni della vita?

C'erano stati giorni, nei quali, il mio cielo diventava color del bronzo, senza nuvole, né pioggia e dove, una siccità fuori stagione uccideva la terra sulla quale vivevo. Se l'artigiano del mondo fosse un vero Dio, tutto quello che accade non sarebbe così approssimativo! E nel mondo non ci sarebbero più ingiustizie e l'amore tra i popoli diventerebbe la lingua universale. Se non sbaglio, parlavo della signora morte? Non l'ho dimenticata, perché anche se sono vecchio e malato, mi attacco ancora alla vita. La morte m'intriga e mi sconcerta. Gridiamolo convinti:

- Viva la vita e abbasso la morte che, come dicevo prima, è cieca e sorda, fa male alla razionalità della mia anima che non vuole lasciarvi, perché sa che anche dopo la morte mi mancherete oltre ogni bene e ancora oltre! Quante volte, sullo schermo della mia quotidianità, appare e scompare il volto di mia madre che cerco e non trovo più davanti alla casa, che esiste ancora, ma non ci appartiene e resta sempre ai piedi della sua collina.

Addossata a quella casa, c'era un salice piangente che mi lasciava profittare della sua ombra. Il vecchio che sono diventato, vorrebbe ritornare sulle ali di un vento di scirocco africano per planare sopra a quelle terre che furono dei miei avi per cercare di rivivere la loro storia. Una volta lassù, stanco di volare, mi lascerei cadere ai piedi dell'albero che ha sopravvissuto a tanta gente per piangere mio figlio, mia madre e mio padre, che sono le mie sole vere cicatrici. Poi, tutto quello che mi circonda, potrebbe ridiventare noia, sempre noia o forse no(!?) La vita, quella di tutti i giorni, malgrado me e voi, continua e mi fa ritrovare i sentieri che avevo perduto là, dove la felicità tiepida fa capolino per vedere se sono diventato migliore. Ho vinto? O perso? Che importa! La mia nebulosa corre penosamente lungo un percorso immaginario, ma va comunque là, dove il vento spazza la sabbia di un deserto che per fortuna mia, non abito ancora, ma che forse, senza saperlo, ho attraversato. Quanta fatica e quanta volontà, mi ci sono volute, per domare e vincere il mio passato!

Per me il mio futuro sarà sempre imprevedibile. Gioca a nascondino e m'impedisce di controllarlo, come mi succede con certe mie verità che, spesso, vanno alla deriva. Ci sono giorni nei quali mia moglie teme per me e mi chiede:

- Perché porti sempre una pistola alla cintola?

Ed io sorrido perché so che mentirò ancora.

-E' per accordare la mia fiducia agli uomini che mi cercano per aggredirmi.

Sai, cara, anche se lo volessi, o solamente lo pensassi, sarebbe pericoloso sporgersi, mentre il treno delle fragilità, va e viene. E' in momenti come questi che non dimentico che il mio destino non è stato scritto ancora e che nella mia vita ci sono stati e ci sono ancora troppi se, ma, se e ma... Dolce amore mio, amica mia cara e unica, sappi che l'universo degli egoismi non l'ho inventato io. Noi viviamo in un oceano in tempeste di vite, dove se non sai nuotare, puoi lasciarci la pelle. La fauna umana e la schiuma del mare di Sicilia mi hanno insegnato tutto quello che c'era da imparare, facendomi capire che quell'isola resterà per sempre una terra di terremoti di case, di cose e di vite. Non avrei potuto avere una matrigna peggiore. No!

La Sicilia, 25.000 kmq di luoghi d'incontri e di scontri di popoli di diverse culture che hanno creato quel che siamo diventati. E un giorno, stanco di viverci, mi presentai davanti a lei, per lasciarla senza rancore e di comune accordo. Io l'amavo, ma lei non mi vedeva nemmeno. Il giorno dell'addio arrivò e fu, come se stessi saltando nel buio di un precipizio, del quale non avrei mai toccato il fondo. Non mi ruppi il collo, né morii, solo perché era un salto nel dubbio. Non c'era nessuna ragione per restare e continuare a consumare il selciato di via Etna, salotto di tutti i ricchi e di tutti i poveri. Indistintamente figli della sindrome dell'indifferenza. La Sicilia ed io, eravamo stati dei pessimi amanti, destinati quanto prima a separarsi senza nemmeno pretendere gli alimenti, che d'altronde non mi aveva mai versato, perché faceva come i miei datori di lavoro che non mi pagavano mai i contributi e non me li pagherebbero, neanche oggi, ma solo a che non sia un raccomandato. E nonostante tutto ciò, mi attaccavo all'idea di restare e tentare di vivere a Catania, che si vestiva di una dignità usurpata. Quanto invece, avrei dovuto fare i bagagli e andare via subìto. Abbracciai mamma e dissi ciao ai pochi amici che avevo e partii perché sapevo che non sarei mancato a nessuno. Con me o senza di me, la vita poteva continuare tranquillamente, perché per loro, ero e non ero. Poi, quando il vento e il tempo della speranza, presero i colori dell'arcobaleno, in calore come una scatola di fiammiferi in piena estate e che stava per esplodermi tra le mani, m'agitai e mi mossi per riprendere sentieri sempre più tortuosi. Quattro stracci, in fondo a un tascapane di plastica e andai via ancora una volta. Le ragioni? Non mancavano, eccole: la miseria, la tristezza di una vita mal vissuta, l'immobilismo sociale, l'ingiustizia, il mio odio per i caporali, ma soprattutto il mio rancore verso me stesso, perché non avevo saputo regolare i conti alla mia fragilità. Le mie scarpe da mercato cinese si erano consumate sui marciapiedi della Catania bene, strusciandosi alla sindrome dell'indifferenza delle belle scarpe degli altri, come quelle che mi sarei pagato in Toscana. Era il tempo nel quale vivevo accanto all'utopia di mio padre che non voleva sentire ragioni. Povero padre che, nonostante gli anni, credeva sempre in Stalin, col quale m'inquinava l'esistenza. Non ero, ed ero andato a scuola, perché povero e affamato di tutto e da tutti. Mi mangiavo la lana sulla schiena, come fanno le pecore. Per un certo periodo della mia gioventù, avrei potuto accettare di essere giovane e povero, ma invecchiare e restare tale mi faceva paura. Mi ricordo che, ogni volta che cercavo di prendere l'ascensore della riuscita sociale, qualcosa o qualcuno, impediva quell'incontro. L'ascensore si guastava ed io, come un topo da laboratorio consenziente, salivo a piedi fino al settimo cielo, dove il caporale di servizio, mi diceva:

-Troppo tardi! Ritorna domani! Mio padre era comunista e ateo, e sarebbe morto convinto di aver avuto ragione di battersi e di questo non gli dò torto, perché nonostante i nostri differenti punti di vista, anche io ero e sono come lui. Ancora oggi, la speranza in quei suoi ideali, mi corrode l'anima e mi rende cieco e settario perché il mondo mi fa schifo e perché c'è tanto perbenismo calcolato. Prima d'entrare nella stazione, mi fermai sul lungo mare di roccia lavica che si affaccia sul mare Ionio. Alla mia destra, il porto e la città vecchia, alle mie spalle, il quartiere del malaffare con le sue luci rosse e la miseria tutta intorno. Alla mia sinistra la stazione ferroviaria, con un solo binario, che va e viene da Palermo, per Caltanissetta, Siracusa, Catania e di lì a Messina e ai ferry- boat, che ti

fanno andare in continente. Entrai nella biglietteria e feci un biglietto circolare, come qualcuno che volesse fare il giro del mondo. Sui binari, treni fatiscenti e senza alcun conforto aspettavano per caricare quelli del sud, che vanno a cercare fortuna al nord, dove parlano diversamente da noi e dove, come padroni, non hanno avuto il Borbone. Sui marciapiedi un’armata di disperati, ogni giorno che Dio comandava, si batteva e corrompeva i controllori per accaparrarsi un posto a sedere e i controllori li accontentavano, come accade ancora nelle regioni del sud; i più furbi, quelli che nonostante la solidarietà tra poveri, non si facevano scrupoli, andavano fin nei depositi dei treni e là, saputo quale era il treno in questione, occupavano il massimo dei posti e quando il treno accostava al marciapiede, i gabbati, dovevano constatare che qualcosa di strano era accaduto. Non c'erano quasi più posti liberi. Gli insulti, all'indirizzo dei controllori e le liti esplodevano e la gente si pestava e le donne, i vecchi e i bambini tremavano, supplicando i loro uomini di lasciar correre. Nessuno desisteva, ne andava del loro miserabile onore e i più gagliardi si facevano giustizia con le proprie mani. Ore di attesa sotto al sole, col sudore che ti s'incollava addosso e ti faceva puzzare come le bestie. E poi, i panieri con la spesa per il viaggio e i bimbi da allattare e i giovanotti che sbirciavano i seni delle contadine, facendo finta di nulla. Era il circo, tutti gridavano e continuavano a spintonarsi per farsi largo o per proteggere la propria famiglia. Quei treni venivano chiamati:

- I treni da spiranza, (i treni della speranza!) Il convoglio che nonostante tutto poteva cambiare la tua vita e quella dei tuoi figli. Dopo quegli sbandamenti di vite conditi di pugni e calci, una pace precaria e diffidente, ristabiliva un certo equilibrio e gli animi si calmavano, ma si continuava a guardarci in cagnesco, come se fossimo stranieri. Il corridoio si riempiva di fatiscenti bagagli fatti di cartoni e fagotti alla Charlot. Per andare al cesso, occorreva conoscere cosa era lo slalom o fare pipi non so come.

Durante quei viaggi, l'atmosfera si faceva pesante e si caricava di cattivi odori e tu potevi sentire dei discorsi di questo tipo:

- Dico a lei, che fa finta di non capire, vuole rimettere le scarpe? Non s’accorge che sta impestando il vagone?

S'improvvisavano tavole e si tirava fuori tutto quello che c'eravamo portato dietro per sopportare quelle 30 ore di viaggio, da Catania a Milano o Torino. E dai col pecorino, le cipolle, i pomodori, le arance e il vino. Poi giocavamo a carte e il tempo non passava lo stesso. Ma perché madre natura non mi aveva dato le ali? Cosa ci facevo in mezzo a quella povera gente? Io che, se avessi voluto, avrei potuto pagarmi la seconda classe che era meno catastrofica? E quel giorno rimasi e guardai l'ora, che era quella della partenza di un treno che restava ancorato al marciapiede per aspettare la coincidenza di Siracusa e quella di Palermo, due treni che se la prendevano comoda.

Quel giorno un sole senza cuore cercava di far fondere le lamiere che ci allontanavano dai finestrini, che senza pietà, bruciavano le teste. L'unica fontana della stazione non dava più acqua. Gli animi si scaldavano, mentre io, mi battevo col finestrino che non voleva aprirsi. Poi, stanco di resistermi, si lasciò andare come un melone d'acqua. Finalmente, riuscii, anche io, a tirare la testa fuori dal guscio come le tartarughe dell'isola di Pasqua. Sul marciapiede c'erano quelli che restavano per sempre, perché invalidi, oppure, rinunciatari. Gente che sarebbe rimasta in quella terra di contraddizioni e di forti emozioni. Gente che ci guardava partire, sconcertata e afflitta: madri, spose e bimbi agitavano fazzoletti e lacrime per quelli che partivano. Per me, nella folla non c'era nessuno, ma volli salutare anche io e mi drizzai in tutta la mia persona e salutai la mia terra, facendolo a modo mio:

- Porca Sicilia, maledetta Sicilia, terra di imbroglioni per necessità, ballerina e terremotata, per colpa del tuo vulcano! Ti maledico, ma ti lascio col cuore infranto! Addio terra dei miei antenati. I miei figli non nasceranno qui e nemmeno i loro figli, che meritano altra sorte! Un'ora di attesa e poi, il treno anemico del sud per il nord, si mise a sbuffare e il capo stazione apparve e sollevando la paletta e portandosi alla bocca un fischietto d’arbitro di quarta serie per tentare e riuscire un frisc… l’immaginai, mentre riempiva i polmoni di fiato avvinazzato e dandoci del voi per fischiarci in faccia:

- Andate a farvi f...! Altri tre mila disperati che levano le tende e si tolgono dalle scatole! Grazie Dio misericordioso e anticomunista, noi, i lavoratori stabili, ti ringraziamo e ti promettiamo che vigileremo, affinché non ritornino più! Aveva ragione! Era un uomo che andava a messa, beveva

vino Santo e votava democrazia cristiana, perché quel posto l'aveva avuto, facendo il galoppino all'onorevole ( Scelba), che era di Caltagirone, come lui. E il treno impallò tutti i suoi cavalli vapore e si mosse, prendendosi tutto il tempo che non aveva più! E poi, si mise a correre stancamente e mentre guardavo il panorama d’un sud costruito sulle scarpate, tra sassi e macchie di capperi, mi misi a pensare a tutti i viaggi, veri e immaginari, che la mia testa e il mio cuore mi avevano fatto fare durante la mia giovane vita. Spesso prendevo il treno, ma quando non avevo soldi volavo con la fantasia e, come un'astronauta, correvo nello spazio e poi scendevo in picchiata sulla collina di mia madre. Volavo sempre più in alto, fin dentro l'occhio dei cicloni biblici per rubare i segreti e le ragioni della natura. L'aver vissuto da ateo, non è che mi fosse servito a qualcosa, né mi faceva marziano, ero come i cristiani, un po’ più incavolato e sifonato di loro, perché speravo sempre d'imbattermi nella pietra filosofale, per dialogare con la vita e la gente. Sul treno, tranne i giocatori di carte e qualche giovanotto in cerca di un possibile primo amore da conquistare, il resto del convoglio e i controllori dormivano. Rassicurato e rannicchiato, in un angolo della piattaforma del vagone, attaccato a me stesso e respirando gli odori del pisciatoio che mi stava accanto, stanco e avvilito, mi misi a sognare della pietra filosofale e di mia madre che mi rimproverava per non averla raccattata. Facevo sogni, a volte splendidi e facili e a volte terribili. In quel sogno, camminando nell'eden delle mie utopie, m'imbattei su quella pietra, che voleva trasmettermi le tavole delle buone maniere e un po’ di quella filosofia che mi manca ancora. Nel sogno mamma piangeva e mi diceva:

- Quanto mi farai soffrire! Quando cambierà la tua stella? Ed io, durante quei frangenti, fatti d’incubi, mi svegliavo per riflettere sulle cose che si potevano tentare, senza doversi rompere l'osso del collo. Spesso, i sogni son desideri fuori dalla realtà che ti fanno perdere tempo prezioso. Non riuscivo a capire, che fino a quel giorno tutta la mia vita passata era stata un accumulo di errori e appuntamenti mancati. Scappavo da tutto e da tutti e intanto, arrivavano le prime dolenti note, i primi fallimenti e le occasioni perdute per un soffio, per una parola mal detta, per uno sguardo di traverso e di troppo, oppure, per un sorriso di ringraziamento che non avevo saputo fare. Dovevo partire, e andai in Toscana e ritornai a Catania, andai in America e ritornai a Catania, andai in Francia e ritornai ancora a Catania. Poi, non so cosa mi successe né il perché mi calmai e ritornai in Francia dove cercai di capire il motto:

“ Egalité, Fraternité e Liberté!” Mentre sulla terra uomini come Bush, Berlusconi e Sarkozy continuano a nascere, per rovinare i popoli della terra e per creare l'odio e l'intolleranza: i rossi contro i neri, i figli di Dio contro quelli dei senza Dio. Ora sono 30 anni che l'ultimo treno della mia vita ha fatto scalo a San Michel chef chef, dove non sono arrivato per caso. L'amore per la mia donna mi ci ha portato e mi ha detto:

- Scendi e riflettifai il punto. La corsa era finita e le cavolate pure. Non restava che sedersi ai piedi della saggezza universale e sfogliare l'album di tutti i ricordi, senza cercare di scartare le foto meno belle.

In questo villaggio francese ci sono arrivato da straniero, come quelli che lo portano scritto in fronte e non fanno nulla per nasconderlo e sanno cosa l’aspetta, perché non hanno più niente da perdere, né da dire e perché quello che si poteva dire era già stato raccontato dalla gente del luogo, molti secoli prima che io ci arrivassi. La Francia ha saputo calmare la mia rabbia e mi ha reso migliore. Mi trovo e vivo sulle scogliere dell'atlantico bretone, quasi sulla spiaggia che mi fa dono di porzioni di vita serena e ragionata. Pensionato rassegnato e nostalgico di un passato che bene o male, valeva la pena di vivere. E i ricordi? Con calma mi si accompagnano. I più importanti? I miei genitori sono stati affettuosi ma poco lucidi. Parlare di loro non sarebbe difficile: furono gentili e generosi con tutti, ma prima venivamo noi, i loro cinque figli. Quei sentimenti di grande solidarietà umana gli incasinarono la vita. Mamma non c’entrava per nulla, perché non si occupava di politica e credeva in Dio incondizionatamente. La pietra dello scandalo era nostro padre che massacrava le sue ultime relazioni sociali importanti. Mamma faceva fatica a raggiungere le due estremità della precarietà. I cassetti della credenza, spesso, erano vuoti, tanto che anche i topi le disertavano!

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Seconda parte    

Un giorno di quelli in cui non aveva lasciato nemmeno un soldo a mamma, papà, rientrò all'ora di pranzo e vedendo la tavola preparata di niente, giusto per distendere l’atmosfera, s'inventò un pranzo come nei migliori dei ristoranti, anche se sapeva che quel giorno, a tavola, ci sarebbe stato pane cotto con le cipolle e il pomodoro. Cose che non mancavano mai nelle case di chi non aveva di che pagarsi la carne e il pesce tutti i giorni che Dio comanda. Lui, l'uomo di tutte le situazioni difficili, vedendo i nostri sguardi interrogativi, alzò il tono della sua bella voce, per farla sentire anche alla famiglia accanto e disse:

-Ragazzi miei, quante volte ve lo devo dire di tenervi bene a tavola? Dovete incominciare con le tagliatelle alla bolognese e solo dopo, potrete mangiare il filetto di bue e le patatine fritte! Sono stato chiaro? Non rimpinzatevi come dei maialini, lasciate un po’ di posto per il tiramisù!

E lo diceva convinto che avremmo capito e forse riso. Chissà se il vicino e la sua famiglia sentirono mai e soffrirono, ma noi non ridemmo e mangiammo il pane cotto, con sopra una foglia di basilico e un filino di olio di sansa! Spesso, il mattino, quando m'alzavo per andare a scuola e cercavo le delizie della prima colazione che, da tempo immemore, non c'erano più, mi mordevo il palmo della mano come se fosse un cornetto alla marmellata. Papà era già a tavola e non sorbiva il suo caffè nero, perché era fatto con l'orzo, ma rifletteva e poi, vedendomi e sentendomi accanto a lui, sorridendo con tristezza, mi diceva:

- Non pensare sempre a mangiare, è l'ora di andare a scuola, ti prometto che oggi, a pranzo, ci sarà il ben di Dio. Da noi era sempre così, i giorni di felicità, si accodavano o sorpassavano i giorni di miseria nera! Eravamo felici a fasi alterne; erano momenti che ci facevano assaporare meglio i piatti fortunosi e succulenti di mamma. Malgrado tutte quelle acrobazie per far tacere i crampi della nostra voracità, papà e mamma, con magia, riuscivano a farsi amare da noi, perché sapevamo, che se avessero potuto, ci avrebbero regalato la luna e il sole per quelle notti e qui giorni impossibili. I primi sette anni della mia giovane vita furono i migliori e i più belli. Mamma possedeva ancora la terra della Minarda che riusciva ancora a nutrirci. Era il periodo nel quale non eravamo più nelle grotte della montagna di Ramacca, dove, a parte le bombe, non avevamo conosciuto ancora il significato della precarietà. Una volta finita la guerra e ritornati a Catania, bisognò affrontare una nuova fauna di mascalzoni, rotti a tutto, gente che avrebbe fatto la qualunque, pur di riuscire. Papà voleva restare onesto e fare come prima: servirsi del suo cuore come se quello fosse il solo mezzo per riuscire. E si guardò intorno, come fanno i sommergibilisti in mezzo al mare; tirò su il periscopio e cercò di capire. Quello che vide gli diede la pelle d'oca. Non si riconosceva in quella nuova specie umana, quella gente che prostituiva quel che restava della propria dignità, come se si trattasse di cosa da poco. La prima cosa che fece fu quella di cedere la terra di mamma a un fittavolo, che avrebbe potuto sfruttarla meglio di noi e poi avevamo bisogno di moneta fresca. La famiglia Sciarotta, pecorai e contadini, furono felici di prendere in affitto la collina di mia madre, in cambio di pochi soldi e qualche cosa da mangiare: un agnello a Pasqua, uno a Natale, mille chili di grano, del formaggio e tanta ricotta. L'arrivo del primo agnello fu un avvenimento straordinario. 10 giorni prima di Natale, un camion entrò nel cortile del n° 15 di via Teatro Massimo, dove dava la porta di servizio della nostra casa: i venti sacchi di grano furono portati su, nell’unica stanza dell'ammezzato, dove dormivamo noi. Le due prime ricotte, accompagnate da due forme di pecorino, che solo a vederle, ci diedero la voglia di banchettare subito. E l'agnello che era arrivato in anticipo? Mamma non fu per nulla felice perché arrivava in anticipo e in casa aveva già 10 galline, una cagna, una gatta e 5 figli:

Prese l'agnello, gli mise il collare del cane, il guinzaglio e guardandoci in faccia, sentenziò:

Natale non è domani, è fra dieci giorni; non possiamo ammazzarlo adesso, perché non abbiamo, né un frigorifero, né una ghiacciaia e poi, come cerco di farvi capire non è Natale! Statemi bene a sentire e non rispondetemi no mamma.

-Ogni mattina, prima di andare a scuola, Arturo e Rodolfo lo porteranno a pascolare al mare, pare che le alghe marine, abbiano il potere d'insaporire le carni!

Noi che non avevamo visto mai uccidere un agnello, all'idea di quel sacrificio a venire, tremammo di raccapriccio, temendo per la vita della povera bestiola che a noi c’era sembrata gentile e innocente. Il mattino dopo, i due più piccoli Cammarata, come dei soldati assegnati al futuro

condannato a morte, partirono per pascolare la bestiola che, ignorante della cosa, si era già affezionata a noi, o forse, in quanto che agnello sacrificale, capiva cosa l’aspettava, e per questo faceva le moine. Per la strada la gente ci guardava come se fossimo i figli del pecoraio e noi, dalla vergogna, rasentavamo i muri delle case e correvamo verso Piazza dei Martiri, solo rettangolo di terra del quartiere, dove cresceva ancora un po’ d'erba e qualche macchia di cicoria selvaggia. L'agnello di Dio che avrebbe dovuto servire a levare i peccati del mondo ci seguiva e dava fiducia a noi che sembravamo dei piccoli gitani accampati, qualche parte, verso la marina. Eravamo diventati compagni di merenda. L'agnello scodinzolava come lo faceva la nostra cagna Zaff. Tutte le mattine belava per uscire con noi, mentre il resto della giornata, restava attaccato nel cortile, dove i bambini del plesso gli davano pezzi di pane e carezze nel senso del pelo. Rodolfo ed io eravamo i suoi soli amici e la sera, quando lo riportavamo a casa, per paura che lo rubassero, lo sistemavamo insieme alle galline nella cucina, ma egli usciva e s’accucciava ai piedi di Rodolfo col quale, si era fuso d’affetto animale, anche perché il mio fratellino si lavava poco e l’agnello mai, così, frequentandosi, i loro odori s'amalgamarono talmente, da farli rassomigliare ai membri di una stessa famiglia di pecore. La sera, all'ora della cena, mentre noi mangiavamo e scherzavamo, gli animali della famiglia, la cagna e la gatta, cercavano catturare qualche topo impertinente, che aveva tanti motivi per renderci la vita impossibile: grano, galline, mangime e le molliche di pane, che durante il pranzo ci tiravamo addosso e restavano sul suolo come manna piovuta dalla tavola. Il mattino arrivava puntualmente e alle sette, tutte le bestie si sistemavano fuori, tranne i topi che si rintanavano nelle gallerie che, come esperti minatori, avevano scavato sotto il suolo della cucina che comunicava con la fogna che c'era nel cortile. Le galline avevano la “nassa”, (parco di strisce di legno), la cagna e la gatta, andavano a rovistare nelle latte della spazzatura dei vicini, nella speranza di variare i loro menù, Cristofaro andava a studiare presso un compagno, dove trovava un po’ di più tranquillità, ma soprattutto i libri che non possedeva, Ciccio, a malincuore, andava a scuola e, noi, i più piccoli, in attesa di entrare nelle nostre classi, con l'agnello al guinzaglio, partivamo per la solita pascolata del mattino. I giorni passavano e la voglia di dargli la libertà cresceva, ma sapevamo bene, che se l'avessimo lasciato scappare, appena girato l'angolo, cento mani l'avrebbero ghermito e mangiato vivo. E così, dopo ogni passeggiata mattutina, in lacrime, lo riportavamo a casa. Rassegnati, aspettavamo il giorno del grande sacrificio, sperando che Natale non arrivasse mai. Intanto il grano depositato nell’ammezzato era diventato il ricettacolo di tutti i roditori del sottosuolo cittadino i quali genitori non avevano saputo vagliare le conseguenze di quel deposito di cereali là, dove dormivamo noi cinque figli. Che grosso problema! Il tam tam incessante di tutti i roditori del sotto suolo cittadino si era messo in movimento, trasmettendo il messaggio:

- Udite, udite quello che succede nel quartiere: in via del teatro massimo n° 17, si è aperto uno spaccio di grano gratuito ma attenti alla gatta e alla cagna! Un mattino all'alba una topastra ritardataria e miope, dopo di aver morsicato la coscia della più bella delle galline di mamma, s'imbatté nei piedi di nostro padre, che alla vista di quella scena, non ci vide dagli occhi e con un calcio bene assestato, uccise la “Topa”. Poi, senza dire nulla a mamma, tirò il collo alla gallina morsicata, la spellò con l'acqua bollente, la preparò e la mise a cuocere. Quando mamma, alzandosi dal letto, entrò nella cucina, dove l’aveva attirata, l’odore del brodo, si girò verso papà e gli chiese:

-Vincenzino si può sapere dove hai trovato questo pollo, a quest'ora del giorno?

Papà non sapeva cosa dire, mentre mamma, sospettosa, contò le galline e capì. All'ora del pranzo, fu festa, perché nessuno seppe mai, che la gallina che stavamo mangiando era stata morsicata da un topo che era morto per una pedata di papà. E da quel giorno, nostro fratello Cristofaro non ebbe più il suo uovo mattutino. Quella gallina, tra dieci, era la sola a fare le uova, le altre avevano le ovaie arrabbiate! La famiglia del topo venne a reclamarci i danni di guerra. Avevano perduto una madre efficiente che tutte le notti veniva a saccheggiare il nostro grano per nutrire i suoi poveri orfanelli. L'orda di quegli zozzi infetti ci attaccò senza rispetto, invase l'ammezzato e ogni notte si sistemavano sui sacchi e davano inizio ai loro concerti di movimento di rock. E per una topa e una gallina, a partir da quella sera, le nostre furono notti d'inferno. Noi, per andare nella nostra camera, imparammo a fare i gradini a due per volta e visto che la scala era di legno, facevamo il massimo del rumore, ma i topi non erano imbecilli e mentre noi facevamo rumore, loro si nascondevano

dietro ai sacchi e poi, appena ci mettevamo al letto, il concerto iniziava, e noi? Ci rimboccavamo le coperte, spegnavamo la luce, ci coprivamo la testa quasi ad asfissiarci, preparandoci a fare sogni obbligati, di topi grandi come rinoceronti. Quelle bestiacce immonde, non ci temevano più e quando chiamavamo in aiuto la cagna e la gatta, loro si coalizzavano, partendo all'attacco, ma scappavano per la scala, dove tutti: topi, cagna e gatta si scapicollavano fino ai piedi della tavola da pranzo.

-Uno, cento, mille e tutti insieme, come in una pièce di teatro senza titolo, né autore! Ogni sera, quando arrivava l'ora della quiete per gli umani, la fogna del cortile si metteva in subbuglio. Gli indigeni avevano invitato, anche i parenti lontani, che venivano dai quattro canti dell'isola. Arrivarono tutte le specie di topi: quello di fogna e quello di riviera, che era parente del topo di campagna. C'era quello delle mansarde che non si mischiava con quello del sottosuolo, perché a suo dire, l’altro era sporco, volgare e locale, e lui, il mansardiere, era venuto dall'America col vapore. E poi cerano quelli che sapevano nuotare e venivano dalle isole vicine. Eravamo conosciuti e apprezzati, anche oltre frontiera. Se affermo questo è perché, fu nostro fratello Cristofaro che fece questa scoperta. Lui sapeva tutto, anche adesso che siamo vecchi e acidi, sa sempre tutto e spesso quando ci incontriamo sale in cattedra e ci spiega la vita e i suoi contorni. Statemi bene a sentire: Cristofaro aveva un compagno di banco che era sardo e spesso, quando i topi glielo permettevano, l'invitava a venire a casa nostra, per profittare dei libri di quel ragazzo che era ricco, mentre noi, non lo eravamo più. Durante una di quelle lezioni a due, una topina, che aveva una macchia bianca sul muso, intrigante e maliziosa e un topo grigio fumo di Caropepe, dall’aria di contadino dei Nebrodi, quasi innamorati stavano discutendo animosamente per i fatti loro, ed era solo per caso che si erano fermati a due passi da loro. Il compagno di mio fratello sgranò gli occhi e incuriosito disse a Cris:

-Sai da dove viene quella topina Là?

- Perché? Lo dovrei sapere? Non sono un esperto di topi, ma solo uno dei sette componenti di una famiglia che li subisce giorno e notte!

-Tu non sai che questa specie di topo vive in Sardegna. Guarda bene, senti e capirai.

Si schiarì la voce per non fare paura a quelle due creature di Dio e rivolgendosi alla topina:

-Esti sarda?

- Si! Rispose la topina!

- Col topo siciliano, arrivate a capirvi?

- Ma quanto sei stupido. La tua mamma non te l’ha detto che in amore parliamo tutti la stessa lingua!

Poi, incendiaria e provocatrice, fece una moina al suo corregionale, gli strizzò l'occhio e seguita dal topo grigio, montò, come da abitudine, al piano di sopra per fregarci il grano e fare all'amore. Eravamo in piena debacle, e quelle bestiacce, che l'avevano capito, andavano e venivano giorno e notte: mangiavano, cagavano, pisciavano sopra ai sacchi, facendovi i loro porci comodi. A volte, come nelle comiche dei cartoni animati, vedevi il topo sbandare e la cagna che, correndogli dietro, andava a sbattere sulla porta del cesso e poi, risentita, si pentiva di aver voluto imitare la gatta, che rideva di lei e gli diceva:

-Lascia correre! Non lo vedi che non fa per te?

Abbandoniamo queste pagine di cartoni animati e cerchiamo di scriverne una meno leggera, per raccontare il rito del pane o meglio ancora, il miracolo del pane e le fatiche di mamma, per realizzarlo. Chi sa se i miei fratelli e mia sorella ricordano ancora il rito del pane? Una volta il mese, armati di buona volontà e infarinati come pesci, noi quattro, i maschietti di mamma Tina, andavamo a portare il grano al mulino, che dopo essere stato trasformato in farina, riportavamo a casa. Ciccio era il più industrioso fra noi quattro. Con tavole, chiodi e tre cuscinetti a sfera, aveva realizzato un carrettino scorrevolissimo come un bob delle nevi o meglio, delle lave. Molti ragazzini possedevano carrettini come il nostro e allora servivano per tutti i tipi di trasporti e anche per caricarli di pietre per le nostre battaglie dei bottoni, che si combattevano sempre in terreno neutro, per paura dei nostri genitori. I nostri nemici di sempre erano quelli della Civitas, quartiere dei figli dei pescatori e quelli dei pargoletti delle prostitute di San Birillo, che si trovava tra la fiera del lunedì e la piazza del Teatro Massimo. Come dicevo prima, una volta ogni mese si accostava il

carrettino sotto casa per caricare il sacco e andare al mulino: Ciccio davanti che tirava, Rodolfo seduto sul sacco di grano, gridando ordini strampalati, Cris ed io dietro per spingere lungo la salita di via Vittorio Emanuele III, re d'Italia senza onore e con la macchia nera del fascismo. Per fortuna nostra, quel giorno non c'era più la monarchia, c'era la repubblica, ma c'era sempre la miseria e noi quattro sulla strada di “Girgenti....” per andare al mulino che si situava in piazza del Fortino, alla sinistra della porta Garibaldi che al tempo del Borbone si chiamava porta Ferdinandea e dove c’era un mugnaio furbo e un po’ ladro, ma Ciccio vegliava al grano e faceva attenzione al peso. Terminata l'operazione, salivamo tutti sul carrettino e imboccavamo la via Garibaldi, che era tutta in discesa fino a piazza del Duomo. Kamikaze scatenati, frenavamo con le suole delle scarpe di gomma, seminando lo scompiglio, tra carrozzelle e pedoni. Felici ed eccitati, passavamo per via Landolina, dove c'era l'ufficio di nostro padre, che rassicurato dal nostro arrivo, ci guardava passare. Una volta a casa, portavamo la farina nell'ammezzato e la mettevamo al sicuro, nella sua cassa. Mamma si rimboccava le maniche, piazzava la madia su due sedie, ci versava dentro la farina e il lievito, e a forza di manate, impastava, lavorava e affinava la pasta. Mamma faticava e sudava su quel pane che prendeva a pugni; una tovaglia pulita era sempre pronta, per ricevere le forme di pane, che avrebbero atteso con ansia ragionata. Lei, lasciava riposare il pane e poi, accendeva il mostruoso forno di mattoni rossi, che aveva fatto costruire nell'angolo a sinistra della nostra stanza. Sotto al forno, c’era un ripostiglio pieno di fascine di legna per accendere e surriscaldare il suolo e la volta del forno. Dirimpetto, nel lato destro della stanza c'era un pilozzo, dove lavava la biancheria e prendeva l'acqua per stemperare il forno e pulirlo. Nell'altra metà della camera c'era un muro, sul quale c'erano addossati i sacchi di grano. Una finestra guardava giù nella camera dei nostri genitori che era enorme e grande di volta. Prima dei sacchi venivano i nostri quattro letti, montati su trespoli di ferro, con tavole d’ulivo e materassi di crine, un solo comodino e due sedie che fungevano d'armadio. I topi? Salivano solo la sera quando eravamo nella strada a giocare al pallone. Il pane, steso sul letto, lievitava e aspettava per essere infornato e una volta dentro, anche noi attendavamo accanto alla mamma che il forno ci restituisse quei pani fragranti e appetitosi, il rito del pane si ripeteva ogni quattordici giorni e ogni volta i vicini dei piani superiori protestavano e minacciavano di chiamare i carabinieri perché vengano a multarvi. Quattordici giorni dopo, ricominciavamo e loro pure. Mezzora dopo, le forme di pane erano cotte e mamma le tirava fuori, scegliendo quella che aveva saputo profittare meglio della cottura. L'apriva in due, vi versava un filo d'olio puro e vergine come la sua Madonna, ci metteva dentro: scaglie di pecorino, olive nere snocciolate, sale e pepe. Inutile dire malgrado che mamma ne facesse sei parti uguali, riuscivamo a rubarcelo dalle mani come cuccioli affamati. Finita quella delizia d'un pane, ritornava il sereno e i piccoli di mamma Tina, leccandosi le dita, correvano fuori per giocare e battersi con gli altri ragazzini della strada. Quel pane, come altre povere cose della vita di ogni giorno avevano il gusto della terra appena smossa dalla pioggia di aprile, che portava con sé i ricordi che ci restano di una madre che ci amava e ci seguiva col cuore. Era come se ogni venerdì, fosse il primo venerdì del mondo e l'inizio dell'avventura della nostra vita. Qualcuno potrebbe dire:

- In fondo non era che un po’ di pane!

Ma che pane! C'era stata la guerra e c'era ancora la miseria che partoriva tante privazioni. 72 anni son passati ed io, non ho più fame. Peso 95 Kg, misuravo un metro e settanta, strada facendo ho perso tre centimetri e per paura, non mi misuro più, né mi peso più! Sono diventato un vecchio scarpone, che s'attarda davanti alla discarica delle scarpe rotte, alla ricerca delle perdute e belle calzature d'un tempo che non c’è più.

Scarpe rotte o no, bisogna andare avanti! Non sono stato mai bello, né un atleta, non ho mai vinto una corsa, non ho saputo cantare, né ballare e nelle serate tra amici, ramazzavo solo ragazze brutte come me. Sono anni che ingurgito tonnellate di medicinali, che non riescono a farmi meno brutto. Ho una malformazione alla colonna vertebrale; nella pancia, un rischio di sventramento, perché non ho avuto mai i muscoli addominali. La mia gamba sinistra è più corta dell'altra. Spesso sono costretto a mettere un corsetto elastico che mi fa apparire quasi normale. Ho subito 6 operazioni: 3 ernie, la colicistite, la prostata, alla quale hanno cambiato le guarnizioni, ma perde sempre. Un

chirurgo in gamba, ha ramazzato le mie emorroidi, mi ha ricucito per la sesta volta e mi ha detto vada e non faccia sforzi, prenda un lassativo ogni mattina, così non ritorneranno più! Nonostante la medicina moderna resto pur sempre un malato cronico, e non finisce qui. Intorno alla mia carcassa scombinata, volteggiano tre personaggi simpatici e utili: un medico generalista, un’esperta di dietetica e un massaggiatore. Il medico mi visita e mi rilascia ordinanze che fanno la fortuna del farmacista. La nutrizionista mi sorride e poi guarda lo sfracello del mio corpo e dice, con un tono che sembrerebbe un invito alla speranza:

-Si spogli, salga sulla bilancia, scenda, si lasci misurare, bene, noto con piacere che ha perso un centimetro al punto vita, in tre mesi! Continui così e vedrà che il suo corpo si arrangerà! Tre volte la settimana vado dal terapeutico.

- Va bene, signor Cammarata?

- Diciamo pure che può andare! Da lui mi spoglio, ma resto in mutande e monto sul suo letto di tortura per masochisti. E l'atleta che non sono stato mai, si lascia strapazzare, piegare e palpare i dolori artritici che l'accompagnano per gran parte della sua quotidianità. Cinque minuti, e dopo aver pagato, più scombinato di prima, mi ramazzo tutto e me ne ritorno a casa. I medicinali, i massaggi, le buone parole del medico e i sorrisi della bella nutrizionista, non riusciranno a fare paura ai miei dolori, che con loro o senza, continueranno a scavare all'interno del mio corpo che si svuota della volontà di battersi. A quelli della medicina che hanno cercato di aiutarmi, vorrei chiedere una sola cosa:

- Ridatemi i miei 20 anni!

Ma ritorniamo a quei lontani giorni della mia infanzia, quando c’erano tante privazioni, ma ero giovane e nutrivo tante illusioni.

Terza parte                                 [torna all'indice]

Certi giorni della mia attuale vita, rincorro il passato per ritrovare i colori e i sapori d’un tempo che non ritorna più. Ma ci penso sempre e la voglia di quei venerdì di pane, olio e pecorino, mi fa venire un groppo alla gola, mi fa piangere di gioia contenuta e rabbia ragionata. Mamma, papà e mio Figlio Davide primo non ci sono più. Quelli che restano sono relativamente cari. Tra noi, ci sono sempre stati lunghi silenzi e grandi distanze. Tra noi hanno primeggiato i monologhi narcisistici di ciascuno. I legami del sangue, spesso, non sono altro che indifferenza e superficialità. Il mio avrebbe potuto essere il tuo e il tuo? Non l'ho mai capito. I vostri amici non furono mai i miei, ma nonostante gli amari che mi avete offerto, non ho saputo fare a meno di voi. Papà, che non era certo uno stupido, me lo diceva sempre:

- Il sangue lo si può bere, ma masticarlo no!

Quel caro papà aveva ragione ed io ero troppo piccolo per capire. Un giorno, col tempo, il sole e la paglia l’avrei capito. Il tempo, quello che conta veramente, ha calmato i miei risentimenti e ora cerco di apparecchiare la tavola, come quando c'erano i nostri genitori, ma questo non sarà più possibile. Se potessi e lo volessi veramente, un giorno a tavola, ai miei fratelli e a mia sorella, chiederei:

- Vi ricordate del pane “cunzatu”? Sono certo che i miei fratelli riderebbero di me o forse mi prenderebbero per un nostalgico che non riesce a vivere col suo tempo. Immaginiamo che siamo tutti e cinque là, con noi le nostre mogli, che sanno poco o quasi niente del nostro passato. Rodolfo, nemico giurato di Berlusconi ma amico del Papa e della Chiesa cristiana, mi direbbe:

- Caro fratello, per carità divina, passami il prosciutto di Parma e il melone!

Ciccio, un po’ meno poetico degli altri:

- Mizzica! Vi fregasturu tuttu u vinu! Prima che non ne resti più, passami questo vino e tu, finiscila con queste tiritere, che rischiano di togliermi l'appetito.

Cristofaro, il professore colto e di buone maniere, con garbo, mi direbbe:

-Vuoi passarmi l'aragosta? I tuoi discorsi sono come il pane perduto. Fammi il piacere, cambia registro e pensiamo a goderci questa bella giornata!

Ed io, cosa farei io? Fermerei il becco e mi racconterei, dentro di me e per me solo, questa storia di pane condito con l'olio e pecorino e con tanto amore per lei, direi:

-ciao mamma!

Un ricordo del 1955;

Avevo 20 anni e non avevo ancora un lavoro sicuro e ben pagato ed era più d'un mese che non rientravo a casa. Mi trascinavo e con me, arrancava la mia vita in cerca d’un padrone onesto che non trovavo, perché volevo che mi versasse i contributi. Mia madre, come sempre, si preoccupava per me e pregava, senza requie, il suo Dio affinché mi riportasse da lei. E mentre lei pregava, io prendevo tutto il tempo possibile per ritardare il mio ritorno a casa. Tutte le sere, quando i giovani che volevano perdersi, andavano per le strade di San Birillo, a cercare l'erba maledetta, tra quella folla, c'ero anche io! Una sera, una donna non più giovane, venditrice d'amore a basso prezzo, mi fece entrare nel suo lupanare e mi propose d'essere il suo maschio. Mi nutriva, mi vestiva, mi metteva qualche soldo in tasca, ma nel buio di quelle notti di forti odori, mi fregava la gioventù, facendomi vergognare di quella scelta di vita. Il disgusto per un ruolo che non avrei saputo giocare e la paura d'essere accoltellato da qualche rivale in affari mi costrinse a scappare e ritornare da mia madre. Arrivai davanti alla porta di casa, mi piantai come un randagio, per vedere s'ero ancora presentabile. Salii i cinque gradini del n° 17 di via del Teatro Massimo e bussai. Mamma aprì. Il mio vestito era tutto stropicciato, come quello di chi dorme su se stesso, il collo della camicia sudicia, la barba lunga, il mio aspetto mi faceva accattone. La guardai, ma lei finse di non conoscermi, rimase a fissarmi e poi disse:

- Povero giovane! Come siete male in arnese! Cercate qualcuno? Volete un’informazione o avete solamente fame? Restate sulla porta, che ritorno subito. Accostò la vetrata e partì verso la cucina.

Ero pietrificato, sembrava come se mamma, volutamente, avesse voluto schiacciarmi le dita tra gli infissi della sua porta. Com'era possibile che non mi riconoscesse? Vuoi vedere che non sente l'odore del suo figliol prodigo! Passarono cinque buoni minuti e poi riapparve davanti alla porta, per darmi un panino e cento lire:

- Questo per magiare e queste cento lire per comprarvi un rasoio! Che Dio vi accompagni e continui a lasciarvi vivere! Poi prima di sbattermi la porta in faccia, con un filo di voce malaticcia e la disperazione in gola:

-Senti mascalzone e vagabondo, se per caso, durante il tuo mendicare, incontri mio figlio, digli che sua madre, per colpa sua, se ne muore!

Ero coscientemente colpevole e sapevo che con i miei tic e i miei toc avrei fatto morire quella santa donna. Ribussai a quella porta che si era rifiutata. La bontà e l'amore di mia madre la spalancarono ed io, mi gettai nelle sue braccia e piansi sul suo petto scarno e martoriato, mentre lei, senza requie e come in una delle sue litanie, mi diceva:

-Tu mi farai morire! Tu mi farai morire!

E mentre imploravo il suo perdòno, lei, la mamma di sempre, volle raccontarmi la storia di un bambino cattivo:

- Un giorno Dio, in tutta la sua misericordia, a una mamma che non poteva avere figli, diede un bimbo bello e dolce come un angelo, ma il destino crudele fece cambiare la vita di quel figlio, che crescendo, diventò un criminale e uccise tanta gente e finì in prigione, dove fu incatenato a pane e acqua ad aspettare la sua esecuzione. Soffriva e si tormentava, implorando perdòno. Dio non venne, ma il diavolo sì e gli fece una proposta che non poteva rifiutare:

- Se mi porti il cuore di tua madre, avrai la vita salva e potrai fare tutto quello che vorrai. Il potere del diavolo era grande quanto quello di Dio, perché così è scritto. Accettò e come per incanto, si ritrovò sulla strada, libero di eseguire l'ordine del diavolo. Aprì la porta di casa, uccise la madre, gli strappò il cuore che incartò e correndo, partì per portarlo al diavolo ma strada facendo, inciampò e il cuore della madre cadde a terra. Lo raccolse e mentre lo rimetteva nel sacchetto, il cuore gli chiese:

- Figlio mio, cadendo, ti sei fatto male? Dopo avere ascoltato m'inginocchiai davanti a mia madre e gli baciai i piedi. Ma come sempre, quella calma, tra me e mamma, durò lo spazio e il tempo di

prendere una doccia, mangiare un piatto di maccheroni alla norma e poi, cambiatomi d'abito, andai alla stazione centrale, per non perdere l'ultimo treno della notte, quello che si nutre dei cattivi pensieri del giorno che poi getta dai finestrini degli orrori. E salii su quel convoglio di solitudini notturne, scelsi uno scompartimento vuoto per parlare con me stesso del bene e del male, ai quali strappare le maschere e annientare i loro cromosomi. L'angoscia di quei momenti m'insegnava tante cose e mille ragioni per morire, ma non ce n'era alcuna che valesse la pena per privarmi della vita, perché, per fortuna mia, nascosta in qualche angolo del mio cervello, restava ancora una briciola di buon senso, che vigilava per me e m'impediva di fare troppe cretinate. La vita, spesso mi afferrava per i capelli e mi faceva rinunciare a certi sentimenti distruttivi, ma era sempre mare forza 10 e quando la calma mi si sedeva accanto, chiudevo gli occhi e aspettavo che qualcosa mi piovesse dal cielo.

Tutti quei treni non si curavano di me, ne aveva visti tanti, sbandati quanto me. Due ore dopo, quel treno che non era il mio, mi lasciò scendere in una stazione senza nome e senza storie. Fuori, come sempre ci trovai il deserto, la piazza era priva di vita e di cose, era come una fabbrica all’abbandono che mi accoglieva senza fronzoli, né musica, ed io, com'era il mio solito, mi cercai e mi vidi più solo che mai. Ogni volta che scendevo da un treno, da una corriera, da un camion o perfino da una carretta, riprendevo la strada che mi si parava innanzi, a piedi, dove con l'acqua o col vento, col gelo o col sole, speravo d’incontrare le strade degli altri.

E' da tre pagine che piove e tira vento e il mio personaggio si gela il basso ventre, maledicendo la stupidità di certe notti senza stelle, né cielo. Coriandoli di fame e tristezza, tra casolari abbandonati e campagne morte, cadevano e bagnavano il viso del mio personaggio e trasformavano il suo appartenere nel non appartenere. Era sempre così, che in notti come quella, io e il mio gemello immaginario, ci fermavamo come una sola persona, bestia ferita e senza cervello, per tentare di fare i conti al quadrato. Erano brevissime soste, ci sedavamo sul culo, sotto una tettoia sgangherata, a guardare e cercare la luna che solo io, di noi due, avrei voluto spegnere, perché mi si offriva in notti malate d'insonnia e di cattivi pensieri. Notti, nelle quali sfioravo le stelle per cercare un Dio che non avrei incontrato mai. Il panico mi assaliva e sigillava nel mio cuore angosce ataviche.

Quante volte cercai di rassomigliare agli altri, restando sempre quello di come e d’ancora. In quei momenti là, la voglia di morire mi faceva sentire come lo scemo del villaggio di mia madre. Un povero uomo senza testa che tutti chiamavano, ”u pazzu”, che se ne andava in giro per le strade del paese, stringendo al seno un ipotetico uccello del paradiso, che solo lui vedeva. Dietro a quel povero uomo, in piena anarchia, piccini e grandi, come orda selvaggia di cani randagi, l'inseguivamo per rubargli il bel pennuto. E pensare che le mie notti e i miei giorni avrebbero potuto essere meno folli di quelle dello scemo del villaggio di mia madre. Scrivo, mentre fuori da quella stazione immaginaria e senza nome piove ancora sul mio personaggio, al quale vorrei regalare qualche pagina di sole e far nascere un’alba che possa trasportarlo verso un giorno meno bagnato del solito. C’erano stati giorni, nella mia vita passata, nella quale, avrei voluto possedere due cervelli: uno da lasciar lavorare come fan tanti e l'altro, per seminarci dentro papaveri rossi, da far esplodere nei cuori della gente.

Quante volte mi sono scoperto a mentire, sperando di trasformare le menzogne in false verità. Il risultato? Un disastro che spesso si ritorceva contro di me e diventava bugia. Ero convinto che le menzogne bastassero per farmi vivere e restare in vita. Una cosa era certa, tutto quel mik, mak, serviva solo a non farmi crescere. Invece, quando accanto a me c'era mio padre, con lui era un’altra cosa, a condizione che n'avesse il tempo e fosse disponibile. Allora, potevi chiedergli la qualunque. E un giorno che rispose:

“ Presente!” Osai e gli chiesi:

-Parlami del paradiso e l'inferno! La risposta non si fece attendere e lui, l'ateo impertinente e bolscevico, contento e beato come una Pasqua, salì in cattedra e mi rispose:

- L'inferno? E' un luogo, dove un anonimo senza volto, ti mette in mano un cesto pieno di calzini

sparigliati e tu, che possiedi la morte e il suo tempo, devi, con pazienza e senza arrabbiarti, cercare di apparigliarli. Il paradiso è il suo contrario e allo stesso tempo, il suo omonimo. In paradiso entri in grazia di Dio, ma devi diffidare dei suoi inquilini, che non sempre sono meritevoli della condizione nella quale vivono. Nessuno ti darà un cesto di calzini da apparigliare, perché là, dentro sono tutti cacciatori di calzini e se vuoi sopravvivere devi fare attenzione e guardarti sempre i piedi. Cecchini di tutte le estrazioni sociali cercheranno di rubarti perfino i calzari che porti. E Papà girò la manetta del volume all’incontrario, e tra noi, si fece il silenzio e non sentii più la sua voce; Due pagine di sole malato s’imprimono sul mio tavolo da lavoro, è il 28 luglio e fuori fa freddo e stranamente il cielo è grigio. L'estate sembra rinunciare a me, luglio e agosto si sono suicidati, mentre i giorni se ne sono andati via con malinconia e non mi accorgo, che a forza di lasciare e prendere questa storia, sono arrivato al 4 settembre, giorno del mio compleanno, uno di quei giorni che per me, è diventato solo una data qualunque. Da tempo immemore non festeggio più questa ricorrenza che mi accorcia la vita. Da tre mesi non lavoro più e percepisco una misera pensione di 700 euro. Ma come è strano, non mi manca nulla, forse è perché il molto l'ho conosciuto e vissuto. Vivo come un pioccolo re, gusto la vita a spizzichi e bocconi, un giorno dopo l’altro. Mangio regolato e senza aver premura, senza abusare, per evitarmi un’indigestione. Insieme alla mia donna, guardiamo la vita dai quartieri alti della quasi felicità. In questo lembo di terra francese ho imparato a rispettare il mio prossimo; qui, tutto mi sembra bello e dimentico lo squallore della mia antica terra di Sicilia. I siciliani? Uno, nessuno, centomila! Qui, per fino uno sguardo è rispetto per te e la tua famiglia. Il cielo, le stelle, il sole, la luna e la natura, non sono maliziosi. Questi luoghi, hanno un solo difetto d’estate: c'è troppa gente che non conosco. Egoisticamente amo l'inverno, che mi lascia scrivere altre pagine di pioggia, che fa crescere l'erba del mio giardino e scaccia i turisti che mi rubano la quiete che mi serve per riempire di silenzi il mio prato. Ogni mattino, il regno dei sogni si spegne e il sole accende e scuote la vita che s'affaccia sul mare e nel sempre verde prato di casa mia. Poi, come per logica di vita, inseguo la natura di questi luoghi, che mi si sono infilati dentro al cuore, dove nascono nuove emozioni e accenti intonati. Il sole a ogni crepuscolo parla alla luna, per raccomandargli tutti gli esseri della terra, anche i figli della mala gente. Le notti vanno e vengono come i giorni, la natura non dorme e fa nascere i fiori anche dalle pietre, per far sapere ai ricchi, che dai diamanti non possono nascere buone passioni, grandi interessi si che non sono valori. I miei valori sono:

Amare la vita, i propri figli e quelli degli altri, non arrendersi mai, scoprire il senso della vita, fare il bene senza aver bisogno di riflettere, gettare uno sguardo oltre la siepe e andare di là delle proprie posizioni. Cercare di capire perché siamo come siamo, cercare e riuscire a essere l'angelo custode di qualcuno, non fumare, non drogarsi, bere un solo bicchiere di buon vino, rispettare e curare la propria persona, vivere giorni e notti di pace con se stesso e gli altri. Valori sono:

La gratitudine, il perdòno per tutti, saper chiedere scusa, riuscire a distruggere i ghetti, costruire case a misura d'uomo, non dover sempre fare la guerra, ma solo l'amore che crea la pace, realizzare miracoli laici per riempire i cuori degli uomini di certezze palpabili e smettere di prendere a calci in culo la vita che è un bene prezioso.

E quanti altri valori si possono elencare? Tanti da farne un romanzo!

Prima di andare in pensione, ero ristoratore e stavo quasi per morirci dentro a quel mestiere di forti teste. Il mio ristorante sembrava un taxi, che molti prendevano in corsa come le corriere d'un tempo, credendo che servisse solo per pisciarci dentro. Da me, arrivava di tutto: famiglie rumorose, politici impertinenti e corrotti, parolieri di canzoni che raccontavano storie che spesso, diventavano religioni e filosofie ambigue. Spesso parlavano di rifare il mondo, davanti ad un pessimo vino italiano, che li faceva delirare e dopo un po’, tutto diventava un discorso razzista o guerre stellari. Clienti che a seconda di come tirava il vento, diventavano nemici o amici di Dio e figli di quelli che l'avevano crocifisso. Adesso col vostro permesso, avrei voglia di fare una virata al largo, in acque alte, dove spesso, s'incontrano le storie degli uni e quelle degli altri. Questa storia l'ho presa in prestito da un ricordo di mio fratello Cristofaro che mi ha autorizzato a servirmene a mio piacimento. Per il momento, spero solo che non me ne vorrà se la trasformo a modo mio.

E’ la storia di due poveri cristi che non ebbero, né Dio, né Santi. Vissero tanto tempo fa, vite diverse

l'una dall'altro, ma terribili. I personaggi in questione, con la loro miseria, marcarono la nostra vita di giovani ragazzi di città, in maniera impressionante. Parlare di loro e non parlare di ingiustizie sociali, sarebbe come voler negare i delitti che si consumano quotidianamente nell'indifferenza verso i più defavoriti e fragili. L'olocausto di masse o di un solo individuo, non è una delle mie colpe, né lo saranno mai. Il mio ateismo mi ha insegnato a rispettare il mio prossimo e le sue credenze. La mia famiglia e prima di noi i nostri antenati, son stati della brava gente, poveri ma giusti. I morti di tutte quelle lotte religiose o politiche del passato, non volevano morire, eppure... La miseria nel mondo fu colpa della violenza che si faceva ghetto e generava l'universo dei poveri. Il caos genera il senso della vita e ci fa smarrire la porta degli egoismi e dei suoi equilibri, e trovare il sentiero diventa sempre più difficile. Nella mia lunga e breve esistenza ho scoperto che c'è molta gente che guarda la terra dall'alto senza sapere quale è il loro giusto posto, né cosa sia l'essenzialità d'ogni cosa. Senza alcun diritto, si credono i depositari delle verità assolute, ma non sanno che, spesso, è il suo contrario che conta. Dal mio angolo ho cercato ed ho sbagliato, ma alla fine qualcosa l’ho imparato: guardare davanti a me e proteggere le mie natiche e a vedere la faccia nascosta della luna. A volte i miei amici, diventavano i miei nemici e viceversa, e non sapevo mai a chi dare la mia fiducia e quando credevo di aver capito, mi accorgevo che anch'io, ero il nemico di qualcuno. Spesso mi scoprivo a parlare senza dir nulla; oggi, quando il mio sguardo incontra quello di mia moglie, i miei occhi s'illuminano, l'accarezzano con voluttà e lei s'irradia e m’accende d'immenso amore. A volte quando mento, è solo per fare il bene, per cercare di non far male alle persone a me care. Ci sono periodi della mia vita, nei quali parlo troppo e la gente me lo dice:

-” Tu dai fastidio!!!”

Ma la gente non conosce le ragioni che agitano i miei sentimenti che sono simili ai cattivi pensieri che sono dentro ogni uno di noi.

I miei silenzi? Sono lunghi e mi servono per raccogliermi e ricordare di non fare che tutto accada come lo voleva il destino d'un tempo, che voleva farmi perdere la faccia davanti ad un bicchiere di pessimo vino. Vecchio, consunto dal tempo e quasi impotente, lascio passare la carovana dei cretini e aspetto che venga la dolce follia di mister Alzheimer che a volte, come onde di vento, invadono e si frantumano sul muro della mitica casa della collina di mia madre come foglie di lava dell’Etna, per riempire i vuoti che ci sono dentro e fuori di me. Le avversità della vita le combatto incollandomi alla forza centrifuga della ragione ritrovata che, come sempre, mi sveglierà da un altro brutto sogno; all’alba, ieri non è più ieri, è un altro giorno e anche se ho riso o pianto, mi rendo conto che senza cercarlo, ho trasformato il mio presente in un futuro che diventa un sugo anemico, finestre chiuse a metà, strade e vicoli pieni di soli uomini in canottiera e coltelli a serramanico, in ombre femminili dietro alle tendine di un mondo fatto di bordelli non potabili.

13 settembre, ombre scure e minacciose scendono sul prato che circonda la mia dimora e sul mio capo, ed io non faccio nulla per evitarle. Le ultime mosche mi volano intorno! Santi che pagano il mio pranzo non ce ne sono e i resti delle cene l'han finito i miei due cani e la gatta del vicino. Cosa vuole dire? Non sarà che sto rincoglionendomi. Dio del caso, fai che i vermi non si accorgono di me! Il tempo mi ha fatto male, portandosi via gli anni che non ho saputo vivere. Che sia arrivata l'ora mia? Da ragazzo, non volli studiare, eppure, se l’avessi fatto! Leggevo disordinatamente, la mia vita la parcheggiavo a destra e manca, non mangiavo mai a sazietà, non avevo una sala da bagno, il cesso mi serviva poco, perché ero figlio di una famiglia di costipati cronici. Oggi, grazie al forlax, vado di corpo come una fabbrica di nastri. Nei corridoi non passeggiai mai, perché avevamo tre camere in fila indiana. Per fare girare la mia vita, mi avvitavo di giorno e mi svitavo la notte, come in un moto-perpetuo. Il mattino, quando mi radevo, anche se non ne sentivo il bisogno, guardandomi allo specchio, dicevo: buongiorno e piacere di conoscerla, per non confondere a minchia co bummulu ( l'anfora con il pisello), la sofferenza col tormento, la lirica con la musica popolare, i toni dimessi con i lamenti eterni, il ritmo con la cacofonia. Gridavo:

-Piacere di conoscerla a chi sapeva rovinare le rovine e ricreare realtà vere! E tra queste filastrocche, per non annoiarmi, ancora oggi, mi fingo scrittore per andare oltre e scarabocchiare, e rubare i pensieri degli altri.

Quarta parte         [torna all'indice]

Con questa mia fantasia malata, m’aggrappo ai bordi del precipizio degli avvoltoi e con la coda dell'occhio vedo rotolare ciottoli e uccellacci giù per il pendio che vorrebbe trascinarmi in basso. Immagino e vedo accanto a me Berlusconi vestito da funzionario di banca e assicuratore, ma la cosa non mi rassicura poi tanto, in mezzo ad un formicaio di combattenti della quotidianità, tra parole malate, schiavitù annunciate, ricchezze e povertà, torture e tanto denaro per sconfiggere le false passeggiate della vita. Meglio sarebbe di voltare pagina per andare oltre questi miei deliri. Perdonatemi queste divagazioni su temi insensati. Fuori è ritornato il sole, gli uccelli cantano melodie belle e incomprensibili alle quali vorrei dare parole per farne degli inni alla vita, che passa, scassa e lascia!

Fin dove potrebbero andare questi miei impossibili versi, e fin dove potrei andare io? Oggi, è con calma e pazienza che andrò verso un buon bicchiere di vino rosso, per lenire le mie pene. A volte la gioia è effimera, perché il tempo mi lascia dietro di se, perché non ho più lo stesso passo del mio tempo che non è come quello che conta, quando è solo e senza di me. Sono tre giorni, che un vecchio gatto randagio ha invaso il mio giardino cercando di farsi amico con tutta la famiglia, ( animali e umani), ora è sparito e con lui, se ne son andati la metà dei pesci del mio bacino. Ah! L'ingratitudine! Com'è strana la convivenza tra gatti e umani.

Da qualche giorno sento scricchiolare le tegole della mia casa, che sia la morte che roda, come quel gatto della malora? Intorno a me vedo e sento volti stanchi e strani, che danno l'impressione di una veglia funebre. Ieri è venuto il medico e visitandomi ha detto:

-Lei è triste e male in arnese, e questo non gli fa bene.

Le sue parole mi han fatto male e ora mi sento di troppo e vorrei andarmene come fanno gli elefanti che capiscono e non restano perché è arrivato il momento. Ma non posso, perché vorrei andare oltre il tempo dell'impossibile realtà, verso qualcosa che riesca a sovvertire la razionalità intercambiabile delle cose. E se mi fosse concesso? Perché non dovrei tentare? In fondo sono un uomo di questa terra che, a volte, si permette di fare miracoli. E in tanto, aspettando che qualcosa di buono accada, resto impalato davanti al prato del vicino che vedo sempre più verde e irraggiungibile. Nel mio giardino crescono rose che sanno di… e che non mangio, perché preferisco l'aglio, il basilico e il peperoncino che mi fanno star male ma mi eccitano, mentre le rose che son fiori e servono a molte cose, a volte, solo per pura fantasia, la gente le mangia. Le ho provate col radicchio, niente male, ma lascio stare, perché lo giudico un piatto da snob. Il gatto randagio non si è fatto più vivo, ma ha mandato un amico, uno strano personaggio, che si è posato sul ramo del mio fico. E' un merlo nero che porta le ali in tasca. ( alcuni passaggi di queste storie l'ho saccheggiate dagli scritti di Giancarlo Tramutoli). Ritorniamo al merlo che armeggia con maestria e cerca di fregarmi gli ultimi fichi che mi restano. Figlio di una troia con le ali, amico di quel gatto randagio, che fingeva d'essermi amico, vola via bestiaccia!

Oggi è domenica, ma per me non ha nessuna importanza, perché ho tanta voglia di scrivere e i deliri mi scappano dalla bocca e si mettono a correre come se fosse la festa del primo maggio. La tastiera del mio ordinatore rischia di fondere e mia moglie, passandomi accanto, mi chiede se voglio essere rimpiazzato.

- No cara! Se accettassi il tuo aiuto, sono certo che tu mischieresti le carte e poi, mi prenderesti tutto il corpo, e non potendo più scrivere, mi metterei sul letto, dove sono certo che mi faresti l'amore di giorno, mentre fuori, quel maledetto merlo, sta per rubarmi gli ultimi fichi. Stammi solo vicina, senza toccarmi e aspetta che sia l'ora del crepuscolo per darti a me. Per adesso ho solo voglia di scrivere, per non perdere il filo della mia storia. Tu sai che non ho una grande memoria, e che quello che dico e penso, spesso, se ne vola via, senza lasciare traccia alcuna. Se lo vuoi veramente, fermiamoci per cinque minuti appena, saliamo nella mansarda, apriamo la finestra sul mondo e guardiamo se la terra, oggi, s’è vestita a lutto, oppure no.

Detto e fatto. Siamo al piano di sopra, le prendo la mano, la bacio e dico:

-Eh proprio vero! La terra s’è vestita a lutto; vedi la gente cattiva che si trascina e occupa, a ragione o a torto, una terra che dovrebbe essere di tutti? Noi due lo sappiamo che la terra non basta e ce ne

vorrebbero altre due come questa. I potenti, per risolvere il problema della miseria nel mondo, hanno trovato una ricetta: prendono la metà dei poveri di un paese a rischio, li contono e se il caso li ricontono, li armano e li scherano gli uni contro gli altri. Senza nemmeno avere bisogno di sporcarsi le mani, hanno la soluzione ma attenzione all’aviaria, le loro scorie potrebbero contaminarli. Alla fine di ogni una di queste guerre tra straccioni, i morti faranno la differenza e creeranno ordine ed equilibrio. Circolate, non è successo nulla!

E la voglia di parlarvi della mia memoria e quella di tanti, mi prende e mi fa dire che la memoria è una montagna che nessuno può demolire e perfino le piramidi che non sono montagne, lo testimoniano. Oggi, forse è diverso, ma è pur sempre vero che la qualità della memoria, anche la più tenace, è sola retroattiva e a volte fa fatica a riaffiorare, ma bene o male, è là con me e voi. La magia e il tormento, ritornano e si fanno sequenze cinematografiche piene d'emozioni e fatti che ci appartengono per sempre e che spesso, con o senza ragione bussano alla porta. Sgomento e tristezza si fanno avanti ed entrano nell'anima e non vogliono andare più via. Sono i ricordi d’un passato, che per un certo momento della vita, mi fecero abbassare gli occhi davanti alla miseria di quei due personaggi che vissero nel villaggio di mia madre. Per pura umanità e non per altro, credo opportuno parlarvi di quei due poveri Cristi. E come sarei potuto mancare a questo triste appuntamento. Mio fratello Cristofaro, che scrive meglio di me e sa dire le frasi con maestria linguistica, mi ha fatto pervenire questo suo racconto che cerco di trasformare senza riuscirvi bene, ma cosa importa, tanto, se vuole può sconfessarmi!

-Vita l'orba e Luigino avevano riaperto una ferita che dormiva nel mio subconscio, e oggi, come due ologrammi pertinenti e palpabili vengono per scuotermi e farmi dire quello che sto per raccontarvi. In quanto a Vita l'orba, in paese, la conoscevano tutti, perché era sempre per le strade del villaggio in cerca d'un pezzo di pane, di un’arancia o qualsiasi altro gesto. Luigino, no! Nessuno di noi lo conosceva. Poi, un giorno alla Minarda, sulle terre della nostra famiglia, ci imbattemmo con il suo esile corpo. Egli era piccolo di statura e figlio di una specie senza speranza e senza storia. Non era e non fu un uomo importante, ma fu gentile e puro in amicizia, come nessuno al mondo. Aveva una madre tisica, otto fratellini e si accompagnava al ricordo d’un padre morto nelle miniere che c’erano nel territorio di Calvino. Un grisù l'aveva seppellito insieme ad altri 20 compagni di sventura. Dopo la sua morte, la madre si vestì degli abiti del marito, calzò i suoi scarponi chiodati, prese Luigino per la mano e si arrampicò sulla collina di mia madre dove era certa di trovare zio Turi che cercava un ragazzo per guardare le vacche. Il suo mandriano era morto di vecchiaia e gli avrebbe fatto comodo un nuovo garzone, ma non s'aspettava un omino così piccolo e malnutrito. Se li vidi arrivare davanti a se, come due schiavi negri e sporchi, come solo certe sottospecie umane, sanno essere.

-” Signurinu! pighiatavillu stu picciriddu miu! E' lu cchiu grandi di li me figghi! L'omu miu è mortu, era lu nostru sulu sustegnu! Luiginu avi nov'anni, ma è forti, sugnu sicura ca non mi farà fari mala figura! Vi l'affitto pi lla vita e pi lla morti!

Zio Turi non era un filantropo, sconcertato e senza sapere perché, chiese:

- Mangia truppu assai?

La madre non rispose e lasciando la mano del suo bimbo, passò quel testimone di miseria a don Turi, che lo prese con una certa pietà e con tanta diffidenza.

Per la mia famiglia, a quei tempi, non navigavano più nell'oro e non andavamo più al mare, né vestivamo alla marinara: Addio vettura e addio cabina privata sugli scogli del mare Ionio. Le nostre attese, non avevano più aspettative, né prospettive e bisognava contentarsi del villaggio di mamma e dei cugini di campagna, che non erano un gruppo musicale, per viverci delle vacanze ridimensionate. A Ramacca c'erano i Conti, i Nicolosi e i loro parenti. Le figlie dello sceriffo Salvatore Nicolosi erano belle da morire, ma molto più grandi di me, che disdetta! Il loro papà era un carabiniere diventato guardiano del piccolo carcere di Ramacca, ma che aveva la sua importanza, perché era mandamentale e spesso custodiva assassini e gran banditi. Quel luogo ci affascinava e allo stesso tempo ci faceva drizzare i capelli sulla testa. L'altro zio era Giovanni Nicolosi, ed era fratello dello sceriffo; era guardia del dazio e grazie al suo lavoro, non si faceva mancare nulla. Le spose dei due erano sorelle di mamma: Vincenza e Concetta che raccontavano che i loro fratelli non

erano stati corretti con le doti, e da anni, le due famiglie, litigavano. I Nicolosi odiavano i Nicolosi e insieme odiavano i Conti, ma noi i Cammarata, quando arrivavamo in paese venivamo trattati come dei principi. Nel carcere, spesso, assistevamo al pasto dei prigionieri e scambiavamo qualche parola con quei poveri cristi. I nostri cugini del carcere, piccoli e grandi, aiutavano i loro genitori in tutte le faccende. Il pomeriggio si combatteva, nel cortile, a guardie e ladri, e gli stronzi più grandi di noi, ci rinchiudevano nella nassa delle galline. Poi si correva nelle campagne, e sempre a noi, i più piccini, dicevano: si va a raccogliere frutta dallo zio Franco. Noi, che eravamo cittadini, non sapevamo che zio franco, stava per ( gratis). Fiduciosi e ingenui, seguivamo i cugini di campagna, che si prendevano gioco di noi. Il risultato era che quando il vero padrone del frutteto arrivava con fucile e cani Mario Nicolosi, figlio di Giovanni sbraitò:

Fuiti, arrivavu un patruni, si salvi chi può! Fu la prima e l'ultima volta e poi, scoperto l'inganno, noi, incoscienti quanto loro, ci facemmo il callo e ci accodammo per razziare come banditi di strada. Un giorno che eravamo in dieci, stanchi e annoiati, decidemmo di salire sulla collina della Minarda. Dimenticavo di dire che quelle ruberie nelle campagne che non erano le nostre, erano dovute al fatto che avevamo sempre fame e come diceva papà, eravamo carni che crescono. Da zia Vincenza, la sposa dello sceriffo, si mangiava così-così, ma anche se dallo zio Giovanni si mangiava meglio, da lui, si doveva stare in campana e due piedi in una scarpa. Le due famiglie Nicolosi avevano tanti figli, che erano famelici e più furbi di noi. E un certo pomeriggio, l’orda selvaggia, partì per la Minarda come cavallette decise a mangiare anche le radici dei piedi di fichi d'india. Prima d'imboccare il sentiero che ci avrebbe condotto ai piedi della collina, il cugino Mario, ci riunì per parlarci del pericolo che rappresentavano i cani dello zio Turi.:

-Non abbiate paura, riempitevi le tasche di pietre e quando saremo in prossimità dei cani, lanciate qualche pietra, tanto poi, interviene sempre il vaccaro, don Abbondio. I fratelli di mamma erano tre: zio Mario che viveva in America, a “Nueiorche”, come diceva mamma e ripeteva papà. Gli altri due erano gli zii Turi e Giuseppe, quello del vizietto. Con zio Mario mi sarei incontrato tanto tempo dopo, in America. Ricordo che era vecchio e paralitico, perché aveva consumato la sua vita intorno ad un ferro da ripassare, tra camice e pantaloni, in una grande lavanderia, per far vivere sua moglie, sua figlia e tutti quelli che, da Ramacca, gli chiedevano sempre aiuto. La sola che non chiese mai nulla, fu nostra madre e questo, lui, in quell’occasione me lo disse, stringendomi sul suo petto e piangendo di gioia.

Zio Turi era un uomo di carattere, quasi fascista, mentre zio Giuseppe, una vittima del suo male profondo, che a quei tempi era un difetto e molti; vedi Ciro Limone, che aveva rischiato perfino il lavoro, finendo in un manicomio criminale; ora, al contrario, pare che sia una qualità per riuscire nella vita. Ritorniamo sulla strada della Minarda, dove i cani di zio Turi, annoiati e famelici, ci aspettavano come cosce di prosciutto. Quel giorno, era uno di quelli che non c’era il vecchio vaccaro, perché era morto e questo, Mario non lo sapeva ancora e i cani vedendoci arrivare partirono all'attacco, senza pietà e con il solito appetito per gente come noi, che non sapevamo. Ancora Mario con i suoi gridi di ritirata:

- Fuiti picciotti, u picuraru non c'è chiù! Ora sunu cavoli vostri, si salvi chi può.

-Come, son cavoli nostri e intanto, fu:

-io fuggo, tu fuggi, tutti scappano e mi scapicollai come un capriolo in disgrazia. I talloni, a più riprese, mi sfiorarono il sedere e poi, vista una balla di fieno, mi ci tuffai dentro e pregai la Madonna del Carmine e il resto dei Santi del paradiso. In mezzo quel sbandare di corpi, un fischio risuonò nell'aria e i cani smisero di correrci dietro, e un omino piccino, con un visino un po’ martoriato e una coppola in testa, apparve da dietro le natiche delle vacche, dando calci nel didietro a uno o più cani e poi, afferrando per il collare il capo di quei figli di cani disse:

- Voscenze ponnu viniri, non c'è chiu piriculu! ( le vostre eccellenze possono venire, non abbiate paura). E restammo sul chi vive ma senza avanzare d'un passo, poi, rassicurati dalle sue parole, andammo verso lui per vedere bene chi fosse. Addosso aveva un forte odore di concime stallatico, come una mini fabbrica d’escrementi di vacca. Svuotammo le nostre tasche e al posto delle pietre ci ficcammo le mani per calmare il tremore e avvicinandoci a lui, che scusandosi ci diceva:

- Perdonatemi, ma non sapevo che dovevate arrivare, se qualcuno mi la vissi dittu, giuro ca non avissivu avutu stu spaventu! Vi baciu li mani a tutti e vi salutu cu rispettu! E ka lu Signuruzzu vi benidici!

Nessuno di noi disse grazie o altro, eravamo come paralizzati, mentre lui, dritto come una spiga di grano al vento, educatissimo e con la coppola in mano, aspettava ordini da quelli che riteneva fossero dei padroncini.

Ero il più piccolo, ma presi lo stesso il coraggio a due mani e avvicinandomi a lui, gli tesi la mano che prese, sfiorandola appena. Non ci dicemmo nulla, ma se avessi potuto, avrei detto:

-Parlami dei tuoi silenzi, ed io ti parlerò dei miei. Lasciati andare, non temere, siamo terrestri come te. Ma non ce ne fu bisogno, perché capi subito... E dopo aver esitato un po’, ci fece segno che potevamo andare, insieme a lui, verso le case. Rincuorati, tra vacche e cani che ci leccavano le cosce, andammo tutti verso i recinti delle bestie. Davanti alla stalla c'era lo zio Giuseppe che ci guardava con occhio torvo e incavolato. Totò, fratello di Mario, guardò Luigino e gli chiese:

- Chi ci fa stu santo cristiano a st'ura ca, quandu na stu momentu precisu avissi agghessiri a so casa, cu so muggheri e i so du figghi? Luigino non rispose, io non capii, ma i più grandi sì; erano le tenere carni di Luigino che l'attiravano là. Il motivo l'avrei scoperto in seguito, col tempo, quando ai miei 16 anni, nella scuderia, cercò di acchiapparmi il pisellino, senza alcun pudore, né alcun successo, supplicandomi di lasciarlo fare, ma per tutta risposta, si prese un calcio tra le cosce e da quel giorno, non mi ronzò più intorno, sparendo dalla mia vista. Questo era lo zio col vizietto, che poteva strisciarti accanto di notte e salutarti di giorno, abbassando lo sguardo colpevole. E ora, ritorniamo a quel crepuscolo di polvere di gioventù felice ma non dorata. Vedendoci e non sapendo come fare per costringerci a partire, finse buon viso e cattiva sorte, montò sulla sua mula, disse buona sera e se ne andò presso la sua donna che non gli avrebbe potuto far dimenticare il giovane corpo di Luigino che, quando poteva, accarezzava lascivamente, come se fosse un puledro selvaggio. Se lo dico, è perché, crescendo diventai amico di Luigino che volle mettermi a conoscenza di quel suo dramma, raccontandomi degli assalti e delle concessioni che era costretto a fare. In quanto a me, crescendo, avrei capito molte cose: amori proibiti e cosa determinava e scatenava l'incesto, chi fosse il personaggio da evitare, il sesso contro natura, con la capra, tra uomini e tra donne. A Catania, in piazza del teatro Massimo, ogni giorno, sotto ai nostri occhi di giovani scafati e vaccinati, passavano in corteo: prostitute, pederasti, magnacci di paccottiglia e tanta altra mala gente. Su tutti, brillarono e passavano davanti alla scalinata del palazzo delle finanze:

Madame Parkinton, Alida Valli, Mara la lunga, Calogero col suo parrucchino, tenuto da una molletta e il suo ventaglio spagnolo. Quanti pederasti a Catania, e come se non bastasse, venivano anche dalle altre province, segno che la città era una buona piazza. Per quanto possa interessare, per me c'è solo una maniera di fare l'amore, solo e sempre con le donne e come direbbe un collega di Domenico Tempio:

-Brutte o belle, me le farei tutte, fino a morir d'amore! Me le farei a mani basse, sia la magra che la grassa. Me le farei in allegria, o nel silenzio più religioso. Me le farei a quattro mani, come sanno fare gli animali e perché no, a fior di pelle. Me le farei muto o di santa ragione. Sia le mogli che le gigione. E per terminare, me le farei, fino alla fine della vita. Lo so, questo mio amore per le donne mi ha complicato l'essere sposo e padre e non imparo mai, e sono alla mia terza moglie. Viva l'amore tra i due sessi, uomini e donne, senza confini, né limiti d'età. Voilà, l'ho detto! Capitolo chiuso e passiamo ad altro. Mentre scrivo, a San Michel, da tre pagine, la nebbia s'è adagiata sul mio giardino, per confondermi i pensieri. Credo che sarebbe meglio se smettessi di scrivere e andassi a sgranchirmi le gambe sulla costa di Tharon- plage. Eccomi con i piedi nell'acqua, dove l'onda che va e viene, tormenta la riva con esasperata monotonia. Mi abbasso e raccolgo una grossa conchiglia che non si sarebbe dovuto arenare lì ma piuttosto, sull’isola di Pasqua e non a Tharon che è sempre e solo un cimitero di minutissime conchiglie consumate dalla risacca delle basse e alte maree. L'accosto all'orecchio e capto l'eco lontano di un mare che non è quello, nel quale sguazzano i miei piedi. Immagino e vedo una bionda sirena che corre al pronto soccorso, perché un marinaio

scandinavo gli ha spezzato il cuore. Indifferente a quel dramma della mia fantasia malata, resto immobile, ancora un poco, mentre l'onda continua a fare avanti e in dr... Il vento dell'atlantico mi schiaffeggia con tristezze a me conosciute, mentre l'onda, con sorda monotonia, va e riviene. Mi stacco da quella realtà piatta per ritornare a casa. Cammino in silenzio e intanto urlo come un sordo muto, chiedendo alla polvere che si incolla ai miei piedi umidi e salati, qualcosa che la fa rabbrividire e rispondere:

- Non rompere!

In cielo, le prime stelle di una notte precoce, ma senza luna, cercano di farsi largo tra nebbia e nuvole. Sono a metà strada del cammino delle volpi e non visto, tento un goffo volo di gabbiano affamato, vomitando sulla terra, la bile che non mi sopporta più. Rieccoci a casa, mi spoglio e mi getto sul letto, nella speranza di riuscire a far fondere il ghiaccio che resta chiuso nel frizzar del mio cuore che per troppo gelo, non vuole aprirsi alla vita. Ascolto musica triste e mentalmente, faccio le prove per un mio ipotetico funerale. Come epitaffio, scriverò:

-Qui riposa e continua la sua stanca vita da morto, per mancanza d'idee, un depresso!

Poi, com'è nelle mie abitudini, la mia immortale anemia mi risuscita e mi riporta sulla collina di mia madre, a Luigino e a noi, alle vacche e ai cani, alla merda delle stalle e a quella della vita e a tutti quanti. La grande paura di quel giorno era passata e dopo la tempesta, arrivano sempre la quiete e il sereno. E per sempre, finché restammo ragazzi Luigino fu il nostro miglior amico, il fratello maggiore, al quale potevo raccontare tutte le mie angosce e ascoltare le sue. C'insegnò a cavalcare la mula e le vacche, e a prendere a calci in culo i cani. La Minarda divenne una tappa obbligata. Luigino, senza di noi, quando di sera si ritrovava solo, vedeva trappole dappertutto: serpenti, volpi che venivano per devastare il pollaio, e lui, prima che si facesse buio, con la paura in gola e il bastone in mano, faceva il giro della proprietà, si assicurava che tutte le porte e i recinti fossero chiusi bene e andava a rintanarsi nella grande stanza senza luce, che divideva con i topi di campagna e con un rospo pauroso quanto lui. E poi c'erano quelle altre notti, nelle quali doveva difendersi dagli attacchi dello zio col vizietto. La sua non fu mai una vera infanzia. Tutti i pericoli della notte furono per lui, mentre il suo piccolo cuore, cercava di aiutarlo come poteva e sapeva. Ma restava pur sempre un ragazzino che stentava a crescere. L'esperienza che gli imponeva la vita, non la meritava. Il suo solo torto era quello d'esser nato dalla parte sbagliata e in totale miseria, sconfinata e deserta. La vera storia della Minarda faceva paura a tanti. Dietro le case c'era il monte della forca, ed era là, che al tempo che Berta filava, il padrone di Ramacca, faceva impiccare chi gli scassava, a torto o ragione, i cabasisi! Al tempo dell’era romana, la Minarda custodiva, in una delle sue grotte un tempietto dedicato alla dea Minerva, ed è da qui che nasce il nome Minarda e si parla pure di necropoli e di tanti cadaveri e maledizioni. Tutte le notti, per non sentire i lamenti dei morti ammazzati, Luigino, s'infilava dentro un gran sacco e ci si chiudeva dentro come Hudinì, con ansia e trepidazione, aspettando l'alba che sembrava non volesse sbocciare mai.

Poi, senza chiedergli il permesso Il mattino spuntava lo stesso e con lui apparivano gli uomini e le bestie, e la campagna si ripopolava e riviveva, in armonia, con la natura e le cose. Me li ricorderò sempre: gli aratri col chiodo di ghisa e con la lama, e con l'uomo di dietro e la bestia davanti, che andava una volta su e l'altra giù, sulle terre scoscese dei miei antenati. Gli uomini erano tanti, tanto costavano poco e contavano meno: c'era chi zappava e chi raccoglieva cotone o altro, e mentre Luigino pascolava le vacche, le schiene degli uomini si piegavano e con mani che sembravano pale di fichi d'india, sempre pronte, spietravano la collina che non voleva lasciarsi violare. I cacciatori e i bracconieri avevano quasi sterminato gli animali selvatici, ma restava pur sempre qualche specie, grazie alle quali, si sarebbe potuta riempire l'arca di Noè: galline faraone o di bassa corte, domestiche, stambecchi e capre, porci e cinghiali, vacche e conigli selvatici. Nel cielo volavano e presidiavano le aquile, e c'erano le gazze ladre che facevano un rumore dell'inferno. C'erano anche i colombacci e le quaglie, qualche riccio, due gatti selvatici e un giorno che uno di quei maledetti, azzannò e uccise una gallina, e per questo furono condannati a morte, tramite due fucilate di zio Turi.

Quinta parte                     [torna all'indice]

Vita l'orba, in maniera diversa da Luigino, anche lei marcò e devastò le mie notti di bimbo. Un misero saio copriva quel suo scheletro vivente. Un saio che nemmeno il più povero dei frati, avrebbe mai e poi mai, indossato! Quel saio possedeva il suo corpo e insieme, in armonia o no, vissero senza maltrattarsi. In fondo, era anche lei una creatura di Dio, che non aveva chiesto di venire in quel mondo che non aveva saputo accoglierla. Dio e i suoi genitori non né avevano tenuto conto e l’avevano catapultata in mezzo a quei cafoni d'altri tempi. Solo l'ignoranza della sua famiglia aveva suggerito di chiamarla Vita! Un nome augurale? No! Fu solo un nome breve, per non essere complicato o dimenticato; quattro lettere che per ironia, la sorte e la gente, le avevano affibbiato. Era sorda, cieca e muta. La gente, in quel paese di sopranomi, la chiamò Vita l'orba, ma che vita poteva avere quella Vita? Quella creatura e il suo saio, camminarono in miracoloso e precario equilibrio di vita e di cose, sostenendosi l'una all'altro, come se fossero state stimolate da un soffio provvidenziale e gentile o forse, attratte da una sensibilità nota solo a loro due. Non fu forse così che Cristo, camminò sul mare della tranquillità? Luigino e Vita l'orba, non vivono più, ma insistono e si sono materializzati nel mio mondo, che di tanto in tanto, si popola di cari fantasmi. Sono loro che mi hanno cercato, voluto e deciso per me e per voi, e ora non se ne vogliono andare, perché in qualche modo, gridano giustizia! Il ricordo delle loro storie mi tormenta, ed io non farò nulla per scacciarli dalla mia mente e poi, se posso, cercherò di trovare il perché di tutte le mie disgrazie e le loro. Nulla e niente si deve cancellare sia esso il male o il bene. Pasolini lo diceva a chiare lettere:

-Il male è stato sempre non fare il bene! Luigino e Vita l'orba, sono stati tutto il bene che non ho saputo fare. Oggi, il tormento dell'esistere non dovrebbe ripetersi più così come lo è stato per loro due. Storie come queste, non ce ne dovrebbero essere più in alcun continente o borgo che possa esistere ancora, qua o là. Non c'è bisogno che tanta gente abbia a scrivere di vittime come quelle due creature di Dio. Vita l'orba e Luigino, restano per sempre, parte della nostra vita. Purtroppo la storia si ripete e altri dimenticati dal Magnifico... continueranno a popolare questo universo, senza che nessuno muova un dito per tirarli fuori dalla merda. Tutto quello che penso e scrivo mi fan capire, quelli che tutti i giorni vengono sconfitti e rinviati in cielo e capisco chi credeva come Gesù, di dover essere preceduto da schiere di angeli, che ne annunciassero la sua venuta sulla terra, come se fosse vero che era lui il figlio di Dio, il solo, l'unico, spirito del suo spirito, Dio dell'universo, apostolo della non violenza, della tolleranza, e che da piccolo aveva sorpreso i sapienti e cacciato i mercanti dal tempio, Lui che aveva indicato la via e disegnato la vita e affermato la verità, che aveva vinto la morte e trasformato l'acqua in vino e moltiplicato i pesci e i pani. Eppure, anche quel Cristo è morto, soffrendo e morendo come un comune mortale, lasciandoci nel dubbio, mentre tutti i quaquaraqua del mondo che dicono di credere in Lui, continuano a prendersi per Dio, preferendogli il diavolo e gridando contro di Lui: “ Vai retro Satana!” Un giorno di tanto tempo fa, un vecchio filosofo ateo, definì come deperibilità della sacralità, il destino di tutte le divinità e disse: “dalle stelle alle stalle.” I templi che gli innalzano, l'uno accanto all'altro, sono solo cattedrali nel deserto. Che facevano dire a mio padre:

- Le religioni sono come le pomate per lucidare le scarpe e tutto ciò che fatto di cuoio; sulle scatole c'è una marca diversa dalle altre, ma all'interno, c'è la stessa crema. E mentre le creme lucidano il cuoio, le religioni, tutte confuse in una, lucidano le vostre anime e la coscienza del mondo. Luigino e Vita l'orba son morti e quindi, non possono volermene se divago ed estrapolo, e gonfio le vele di questa storia! Prometto che mi controllerò, per essere breve e conciso. Cercherò di scrivere in maniera che ne esca fuori un breve profilo, uno o più schizzi, come acquarelli d'appendere nella camera dei miei ricordi, sperando che da questa storia, ne venga fuori anche la mia. So bene che, spesso, perdo il filo e che questa mia complicata maniera di fare si trasforma quasi in un ritratto autobiografico. Cercherò di non farlo o piuttosto di raccontare una storia così cosà, a mezza strada tra, “cari fantasmi e gente comune.” Se partorirò un topolino, mea culpa, mea massima culpa! A Cesare quel che di Cesare e a me, una fatica enorme e, forse, impossibile e inutile. Cercherò di farne una storia dove tutti ci si possa riconoscere e confrontare e che, nei momenti di troppa gioia, possa stemperare il nostro egocentrismo. Uno spaccato di vita, che si possa leggere da qualsiasi pagina si

voglia. Le storie che ci ho messo dentro, sono tante che potrei chiamarle: a pignata“ il crogiolo”( la Pentola sotto il cammino). Sappiate che nessuno di questi personaggi è stato inventato e ognuno di questi, appare per proprio conto e non in funzione di una storia qualunque ma storie di vite vissute che potrebbero riuscire a toccare le corde della vostra sensibilità. Ora chiedo venia; accordatemi la vostra indulgenza, per queste pagine che mio fratello mi ha lasciato maltrattare e che io, con immensa paura, sto plagiando e continuerò ancora a fare. Le deformazioni, non sono state cercate, né create; vi prometto che non vi troverete falsità e nemmeno allusioni. Sbaglierò qualche posizione parentale, commistioni caratteriali e temporali che spero non danneggino il parallelismo di queste storie tali da farle sembrare inverosimili. Sappiate solamente, che furono vite mal vissute ma vissute. Nessuna sorte d'archeologia sarà dissotterrata per creare questi ricordi che sono proprietà di noi tutti. Alla fine di questo racconto, poserò una placca commemorativa nel mio giardino, sotto il quale, seppellirò questi fogli e tanti altri, con la scritta:” A futura memoria di tutti i miei!” Poi, anche se tutto potrebbe sembrarvi o sapere di: ( dèjà vu,) che importa! Viva la vita della memoria che non sempre è bella ma che in questo caso, alla maniera di chi ama queste storie, è bella lo stesso! Quante volte, se mi fosse stato possibile, avrei gridato sui tetti delle case di quelli, che fingono di non sapere:

- Quello che vi sto per raccontare, ve l’avevo detto, che accaduto tante altre volte, miei cari. La vita non è sempre una bella cosa. A volte dà tanto e altre non da nulla, ed io non capirò mai il perché, né il per come tutto ciò continua a riprodursi! E' grazie a mio fratello e alla sua profonda analisi, se ho potuto realizzare e cucire insieme queste storie che sanno e hanno il gusto del pane di una volta. Quanto mi dispiace che queste storie non impediranno alla terra di girare come le pare per 4 miliardi d'anni e mezzo ancora. Questa riflessione mi fa ricordare una storiella accaduta nel villaggio di mio padre che vale la pena di raccontarvi:

Accadde tanto tempo fa a Raddusa, era il 1925, il 5 settembre, ed era quasi mezzanotte. Papà stava rincasando, fuori faceva buio, ma quella sera il lampionaio non aveva acceso i pochi fanali a petrolio, che a stento, illuminavano la piazza principale del paese. Una sola luce brillava, ed era quella della bettola a vino di don Liborio, sul marciapiede, rischiarato da bagliori di una luce avvinazzata, sostava un compare di papà, che litigava con le sue gambe che non volevano riportarlo a casa. Si chiamava Carmelo e quella sera, per paura che sua moglie, vedendolo arrivare conciato a quel modo, gli rompesse le corna, aspettava che il vino lo lasciasse in pace e che la frescura di quella notte facesse volar via i fumi dell'alcol. Papà lo guardò e poi, sorridendo, gli disse:

- Carmelo, che ci fai a quest'ora fuori, perché non ti ritiri a casa?

Carmelo, col contegno traballante degli ubriachi, piuttosto che dargli una risposta, chiese a nostro padre:

- Chi stai raccuntannu? Qui i domandi i fazzu iu! E poi, dimmi na cosa, tu ca pari ca sai tuttu. Sta sira, a terra, chi fa, gira?

- Certu ca gira, se non girasse, cadremmo tutti nel vuoto!

-Allura si gira, prima o poi, a casa mi passa davanti o mi sbaggliu? Secunnu tia chi mi resta a fari? Appena si apprisenta davanti, iu fazzu un sauto e mi c'infilu dintra e senza ca me mugglieri pozza diri: Si imbriacu, unni si stato, disgrazziatu? Percciò, tu tinnaddunasti ca sugnu mbriacu, Ah! E vulissiti che mi ni issi a casa appedi, bravu, accussì mi rumpu li corna, veru? Aspetto ca lu tempu passa e a me casa puri, e tu Vicenzo Cammarata di stu cavulu cappucciu, vai a fari na du paisi, unni non ti ci batti u suli e bonanotti o sunaturi! Questo aneddoto, per dire, che in fondo non facciamo nulla per avvicinarci, gli uni agli altri e invece restiamo, come Carmelo che si ubriacava di vino, a guardare, mentre se volessimo veramente, potremo ubriacarci di vita e d'amore fraterno. In verità, qualche cosa la facciamo, continuiamo a sparare i fuochi con i piedi e da buoni figli di N.N, demoliamo la strada che potrebbe portarci su i sentieri che vanno verso le tavole dell'abbondanza, dove tutti, più o meno, arriviamo e devastiamo. Non so se mi sbaglio, ma ho l'impressione che quello che scrivo potrebbe rassomigliare a una protesta quasi predicatoria. Spesso, gli amici mi accusano di servirmi dei sentimenti, o peggio ancora, del sentimentalismo, come tema per una fuga in avanti e verso una falsa cultura per speculare e lucrare sul dolore degli altri. Se appaio così, è perché anch'io sono stato un figlio del dolore e della paura. Non mi sono mai sentito il migliore, né

migliore del più infelice figlio del dolore. Non mi sono mai impegnato a fondo nelle cose, questo lo so, ma non credo che i miei siano stati dei grandi delitti. Se volessi, potrei dire che, quel male non l'ho fatto io e se qualcuno è colpevole, quello non sono certo io, e poi, anche se volessi e potessi... L'immobilismo e la paura, mi farebbero dire:

- Andate in pace, non c'è stato nessun olocausto. Ma posso continuare a vivere e ad accantonare nella mia testa, tutti i crimini dell'umanità? Come potrei dimenticare gli scritti di Primo Levi, Imre, Kertez, Iean Amerj, e questi sono solo alcuni dei tanti scrittori, che furono testimoni di molti massacri. Tutto fu ed è ancora terribile e vero! Quelle atrocità furono certe, per questo io credo che anche l'olocausto di una sola persona sia un grave delitto. Io, ne ho visti consumare due: Vita l'orba e Luigino. Lo so! La mia maniera d'incasellare, aforismi o altro, non è delle migliori e non sono certo il più forte, e non sarò mai un arredatore di quadri letterari, ne saprò mai disporre, nella stanza dei miei sentimenti, elenchi di concerti da camera. Spesso e continuo, ho cercato di fare l'occhiolino a qualche editore parigino e anche a qualche professore di cattedra universitaria, ma tutti questi illustri personaggi mi hanno risposto picche! Cosa potrei fare d'altro? E poi, anche se sono nato sulla terra di: Pirandello, Verga, Capuana, Rapisarda, Consolo, Bonaviri, Landolfi, Sciascia e Camilleri, ma cosa vado cercando? Chi credo d’essere? So solo che non sono nessuno e se fossi qualcuno, molti di questi uomini illustri se sapessero di me, si rigirerebbero nelle loro tombe come trottole. E ora, lasciatemelo dire così come lo diceva papà:

-non fa niente e freghiamocene di quello che pensa la gente e continuiamo a scrivere senza pietà, né vergogna.

Certamente, in qualche parte del mondo, c'è qualcuno che scrive peggio di me.

La depressione                     [torna all'indice]

2 gennaio 2006; ecco che arriva! E’ la quinta notte di seguito che mi sveglia sempre alla stessa ora. Sono le tre del mattino, mi alzo e vado al tavolo da lavoro, l'ordinatore come il solito freme e poi, s'accende e illumina lo schermo, appaiono le ultime parole che ho scritto ieri notte. Il mio rumore e quello dell'ordinatore svegliano la mia donna, che subito dopo si riaddormenta e ritorna a russare come prima, più di prima... Eccomi là, davanti a quel mio aggeggio sofisticato e pieno di connessioni elettroniche, che mi sorride maliziosamente e mi dice:

-Vai! Un'altra notte in bianco, non diamogli retta, vai col tango!

Ricomincio a scrivere, impantanandomi tra biografie, giochi di parole e storie altrui. Questi momenti sono speciali, almeno così mi sembrano, ed io, nonostante tutto questo casino mi sento felice perché credo d'esser super produttivo e perché no, anche creativo e questo sentimento m'invade e non mi lascia misurare le derive che possono prendere le mie storie. Non so perché, ma sento che questa notte, la mia mente è più lucida del solito. Le mie insonnie, anche se non sono gratuite, mi hanno fatto zompare dal letto per obbligarmi a vivere qualche ora di più che rubo al mio sonno instabile. Quindi, volente o nolente, niente paura e avanti a tutta forza! Quando scrivo sulla mia famiglia, dedico una grande attenzione alle nostre origini e alle difficoltà che ho ad accettarle. Perché riflettendo su di esse mi accorgo che vi sono diverse incongruenze che non riesco a spiegarmi. Per esempio, perché mio padre tra tanti nomi mi ha chiamato Arturo? Perché Arturo, in una terra dove quasi tutti si prendevano gioco di me, ma lui, papà, sono certo che non aveva nessuna colpa; ero appena nato e col tempo e con la paglia, avrei saputo come si svolsero i fatti: era il 4 settembre del 1935, era l'undicesima ora di un anonimo lunedì di merda, era una nascita sotto il segno della vergine, altra parola che mi metteva in rogna, quando la gente, sapendolo, mi diceva:

-Ah! Allora lei è vergine? Non si direbbe!

Acturus, seconda stella importante, nell'emisfero nord. A memoria d'uomo, nessuno nella mia famiglia si era chiamato Arturo il vergine, e poi, i miei genitori non sapevano di quella stella, che come me, si chiamava Arturo e stava nell’Emisfero nord, sotto il segno della Vergine d’un cavolo! Mamma, che non lo sapeva, ogni giorno della sua vita, passata accanto a me, pregava il suo Dio, affinché cambiasse quella mia stella, che con me, non andava d'accordo. La mia stella consumava troppa luce, per un essere che come me, non trovava la giusta via. Credo che quel nome, l’avesse

trovato l'ufficiale dello stato civile, che essendo un appassionato d'astrologia e amico di mio padre, gli aveva raccomandato di tenerne conto:

- Vuole un consiglio? Glielo do a mille contro uno. Oggi è il 4 settembre e suo figlio è nato sotto il segno della vergine e sotto l'influenza della stella Arcturus, chissà che non sia una buona cosa, lo chiami Arturo e forse ne vedrà delle belle! E fu così, che con quel nome altisonante e luminoso, mi preparai a commettere guai e a mordere la vita, con voracità, dai due lati come uno sfilatino di pane. Potevo fare quello che volevo, ma dovevo essere attento a non farmi prendere nelle trappole, che il mio destino m’avrebbe preparato. Quando feci quella domanda, del perché di quel nome, nessuno seppe rispondermi e tanto meno mio padre, che faceva finta di non sapere, alzando le spalle. Non me la presi e andai per la mia strada, senza mai voltarmi indietro.

A forza di scrivere si sono fatte le dieci del mattino e Dominique mi chiama per prendere le mie pillole e fare la mia mesta colazione del mattino. E come è il mio solito, m’addormento sulla tazza del caffè, poi mi alzo e mi dico che sarebbe meglio se dormissi un po’.

I sogni delle mie brevi notti, si trasformano in giudizi universali che spezzano il sonno e mi riportano nel mondo reale. Questa notte ho scritto pochissimo, qualche pagina, che parla del dubbio della ragione. Cerco di dormire, ma il giorno illumina già la mia stanza, mentre la schiena mi fa male più del solito; due dafalgan ancora e poi, forse, mi sentirò meglio. Mille sono le ragioni per le quali io soffro e mi fa male il corpo e la mente. La dipendenza dai farmaci mi mangia il cervello che non mi aiuta a dominare la mia insicurezza. Nella mia testa abita l'insonnia e la smania di scrivere che si prendono la mano e insieme, scatenano un meccanismo che m'inibisce l'anima e crea il vuoto nel subconscio.

Sono 30 anni che nostro padre è morto, ma da vivo, non rinunciò mai a darmi consigli che non seppi decifrare e quando mi chiamava in aiuto, ero altrove con le mie piccole miserie. Aveva bisogno di me che l'avevo abbandonato a se stesso, mentre per lui, ero il suo migliore amico e questo lo sapevo, ma non facevo nulla per corrergli incontro. Dopo la sua morte e quella di mamma, mi sono messo a cercare, in mezzo alle macerie, tutto il bene e il male che mi aveva fatto. Ho raccolto tutti i suoi ricordi, che col tempo sono diventati i miei e che adesso porto stretti dentro il cuore, custodendoli gelosamente, perché certuni, quelli miei, sono sporchi e sanno di pena. I suoi, li ho nascosti nella mia testa e posso raccontarli senza pena, perché era un uomo splendido, un poeta della vita e del bene più per gli altri che per se stesso. Quando scrivo, e scrivo a spizzichi e molliche, è lui che mi sta accanto e guida la mia mano titubante. E mi lancio nei miei deliri, mentre il mio vecchio grammofono, fa girare un disco di Caruso, che il tempo ha consumato. La sua voce si lamenta e la musica copre la sua antica e non più possente parola: “ Munastere e Santa Chiara, tengo o core, scuro scuro..........”

E' in momenti come questi, che la follia bussa alla porta della mia quotidianità. Invade e stimola la mia voglia di scrivere. Follia che arriva decisa, calzando gli scarponi di mio padre, per darmi la prima nota della giornata. Cara e tenera follia, m’avevi lasciato o meglio ancora t’avevo scacciato come una pessima amante che non aveva saputo stimolare i miei desideri. Oggi, come un boomerang, mi ritorni indietro solo perché c'eravamo destinati e promessi. Eri tu, tu che mi spingevi a correre dietro ai ricordi di mio padre, che vorrei ritrovarmi accanto e poi, insieme, salire sulla collina di mia madre, là dove lei ci attende sempre. Ecco che mi riprende il delirio e mi metto a parlare con loro, come se mi fossero vicini e ancora in vita. Lo so che non ci sono più, ma è più forte di me, perché so dove abitano e come fare per andarli a trovare; sono dove, quasi tutti gli anni, vado per rifiorire la loro cappella di garofani rossi come la bandiera del partito comunista italiano. E' grazie a questo mio strampalato equilibrio mentale se posso andare e venire dal mondo dei morti e sentirmi più vicino a loro due e a mio figlio Davide. La morte non mi fa più paura, non la temo, so come trattarla, basta solo rispettarla, come se fosse vita. Addosso porto ancora l'odore che mamma mi spalmò sulla pelle, sento le sue dolci mani, quando mi accarezzavano e sento le forti braccia di mio padre, quando mi stringeva a lui, senza riuscire a non pensare a un giorno di tristezza, quando dissi a mio padre:

- Oggi mi sento infelice, aiutami! E lui che era un buon padre e spesso disponibile, solo se il suo

credo politico glielo permetteva, ti rispondeva così, come poteva e sapeva:

- Cosa ti succede?

Ed io raccontavo le mie paure, mentre lui sorrideva e diceva:

- Vorrei che ti rendessi conto che la vita è un bene prezioso e tu non hai il diritto di distruggerla così. Prima che tu nascessi, tua madre ed io, sapevamo che non saresti stata un'impresa facile, ma sei nato ed eccoti qui, parliamone se vuoi. Ti sei mai chiesto cosa comporta mettere una vita in marcia?

- No papà, ed è per questo che ti chiedo di spiegarmi, e poi, di dirmi se ne valesse la pena.

-Per metterti al mondo, io e tua madre, i miei genitori e i suoi, i miei nonni e i suoi e se vai indietro nel tempo, ti renderai conto di quanta gente hai scomodato per nascere. Oltre la metà dell'umanità, si è rimboccata le maniche, per permetterti di venire al mondo ed esistere. E tu ti senti inutile? Non dimenticare che tutti noi abbiamo puntato su di te. Non deluderci e porta avanti, con fierezza, lo stendardo della tua famiglia, che è quella dell’umanità intera!

Gli chiesi scusa e cercando di darmi un certo contegno, girai su me stesso e ritornai a zappare le mie giornate.

Scusatemi ancora se di tanto in tanto, parlo troppo della mia vita e trascuro i miei due personaggi che, siatene certi, non ho dimenticato. Vita l'orba era una donna senza età, sembrava che non invecchiasse mai, mentre Luigino cresceva, si faceva grande e forte e un giorno, senza più paura, prese a calci nel sedere l'uomo col vizietto, anche se questo era il fratello di mia madre. Povero ragazzo, divenuto uomo. Ne aveva apprese di cose!

Era astuto e ingegnoso, tutto quello che toccava si modellava e prendeva forme artistiche; col suo coltello, faceva di tutto e scolpiva rami d'olivo e ciliegio che diventavano capolavori. Tutti gli volevano bene e lo rispettavano, ma quel rispetto l'aveva pagato caro. Non aveva imparato a leggere e a scrivere, ma era intelligente di suo; non si arricchì, ma era autosufficiente e questo gli bastava. La sua anima cresceva grande come il suo corpo e nel suo cuore aveva trovato un posto per me e per i miei fratelli. Ci voleva un bene da morire. Era il nostro paladino e noi lo ripagavamo col nostro affetto. Poi crescemmo e diventammo tutti grandi e le vacanze a Ramacca finirono, perché c'era da battersi a Catania per riuscire a guadagnarsi un posto al sole. Raramente andavamo sulla collina che non ci apparteneva più. Gli zii morirono e i figli, che non amavano la terra, perché era una proprietà ingrata, vendettero la Minarda alla famiglia Sciarotta, quella alla quale avevamo venduto la nostra parte di terre. Cristofaro era diventato medico ginecologo, e due giorni la settimana andava a esercitare nell'ospedale di Ramacca, dove avrebbe saputo della triste fine dell'una e dell'altro. Un mese dopo, scrisse queste due bellissime e tristissime pagine delle quali mi sono appropriato per raccontarvi, a modo mio, questa triste istoria: Luigino non aveva mai toccato una donna, ma sapeva cosa fosse e perciò, solo per bisogno prese moglie. Non era bella, ma era una brava ragazza, la prese senza amore, tanto per sentirsi uomo, come fosse un suo diritto costituzionale. Ebbero tantissimi figli, non guadagnò abbastanza per assicurare una vita migliore, ma i suoi cuccioli e lui non si lagnarono e a modo loro furono felici. Quei figli erano i suoi sogni più belli e nei giorni di mercato o quando c'era la fiera del bestiame li portava, non per venderli, come aveva dovuto fare sua madre, ma per esibirli. Per quei bimbi si ammazzò di fatica e visse. Lavorava ancora per la nostra famiglia e a zio Turi gli s'intenerì il cuore e gli aumentò la paga. Luigino, a modo suo era felice della sua sorte. S'accontentava; il poco lo faceva bastare, il tanto non l'aveva mai posseduto e vissuto. La ricchezza non gli apparteneva e non sapeva che poteva esistere, visse in un'epoca dove le notizie le potevi trovare dal farmacista, il solo che comprava il giornale “la Sicilia” che arrivava da Catania con la corriera. La sua morte me la comunicò Cristofaro, con quella sua lettera che aveva fatto il giro delle nostre rispettive dimore. Ero in Francia, dove non pensavo più alla Minarda e nemmeno a Luigino o a Vita l'orba. La vita di ognuno di noi cinque, aveva preso strade diverse ed è per caso, se Ciccio, io e Rodolfo viviamo in Francia e di tanto in tanto ci frequentiamo come musulmani in terra Ebraica. Quindi lessi quella lettera che veniva e portava ricordi che credevo non mi appartenessero più. La memoria è un mostro senza discrezione, che quando vuol fare male, lo fa. Lessi quella lettera e poi, la conservai religiosamente, sicuro che un giorno o l’altro l'avrei tirata fuori e ne avrei fatto qualcosa. Era stato mio fratello Rodolfo che me l'aveva spedita. La morte di quei due esseri mise il disordine nell'armadio dei miei pensieri e tutto venne fuori come quando apri una scatola di

Pandora e le storie s'incrociano e si confondono: Papà, Mamma, gli zii, i cugini, Ramacca, Raddusa, i nostri, i loro e quelle di queste due care immagini. La morte di Luigino fu tragica e ingiusta; Un giorno, di ritorno dalla Minarda, costeggiando il fiume Gornalunga, vide nelle acque della riviera, un povero vecchio che stava per affogare e lui senza saper leggere, né scrivere, ma soprattutto, senza saper nuotare, si gettò in suo aiuto. Il vecchio si era gettato perché voleva morire, ma questo Luigino non lo sapeva. Il vecchio voleva morire per mille ragioni e andarsene all'altro mondo, perché la vita non gli aveva dato, né gioie, né piaceri. E il fiume che non aveva un'anima, li annegò tutti e due, trascinandoli fin sotto il ponte di Palagonia, dove, il giorno dopo, li trovarono morti, l'uno accanto all'altro. Al collo di Luigino che non voleva morire, a mò di cravatta, la giacca consunta del povero vecchio, che senza volerlo l'aveva strozzato. Se ne erano andati senza conoscersi e senza far rumore, contrariamente al papà di Luigino che era partito, facendo un gran botto. Partì senza poter salutare i suoi cari, senza benedizione, perché il prete diceva che s’era ammazzato per fare un dispetto a Dio! Se ne partì così, perché, a detta del prete, sua moglie non aveva nemmeno i soldi per la messa. Dal canto suo, Vita l'orba si prese tutto il suo tempo per morire e sopravvisse a Luigino, per molti anni ancora. Era una morta-vivente che faceva paura a tutti i bimbi del villaggio; tutti i giorni della sua miserabile esistenza usciva dalla sua tana per recitare la sua quotidiana via crucis: scalza e sul corpo quel saio che gli s'incollava addosso come se fosse una seconda pelle, i piedi callosi e sproporzionati, sembravano zoccoli d'asina e facevano pena a guardarli, il suo lungo o breve articolare sapeva di bestia ferita e derisa; i cafoni l'insultavano, mentre le mamme, al contrario di loro, gli davano un pezzo di pane o una manciata di grano che ammassava e vendeva al mugnaio schifato! Vita l'orba, appariva e scompariva come un fantasma, poi, un giorno, come un elefante nano, s’allontanò per andare a morire nel bosco, destinando la sua carcassa di pelle e ossa alla scienza dei cani randagi del contado che non apprezzarono. Nel paese, nessuno si preoccupò della sua sparizione, era come se non fosse mai esistita. E poi, un giorno l'accalappiacani, seguendo dei cuccioli abbandonati a se stessi, trovò quattro ossa e un lembo del saio di Vita l'orba, e come se si fosse trattato della vita d’un cane, senza nemmeno toccarli, con una pedata, li spinse nel burrone.

E' in momenti come questi che la paura della morte diventa dolore acuto, rimpianto, voglia di suicidio e appetiti di odio per chi resta immobile a guardare.

Sesta parte                        [torna all'indice]

Quando sto male, ripenso a un vecchio poeta, che incazzatissimo, quando gli giravano i ... diceva:

Se fossi foco, brucerei il mondo! Se fossi il vento, lo tempesterei! Se fossi mare, l'annegherei!

Ed io, se non avessi la mia parte di colpe, griderei e forse lo farei. Poi, soddisfatto mi stringerei nelle mie braccia, per dare sfogo ai miei silenzi, per offrire una briciola di dignità alla mia vita che s’è fatta vecchia e stanca e se ne va come tutte le cose terrene in fondo alla terra e non in cielo! Ecco che arriva, un'altra notte senza riuscire a chiudere occhio! Devo smettere di pensare e continuare a scrivere e s’è possibile, senza schizofrenie. Questa sera, guarderò il cielo, la dove so che troverò la stella Acturus. Solo con lei vado d'accordo, siamo due stelle in caduta libera di una stessa famiglia, che non s'incontreranno mai, ma si vedono e forse si rispettano. Spesso, la sua luce mi scavalca per illuminare qualcun altro, mi passa accanto, giusto per far brillare le mie mani che mi si offrono offese e poi, come se non bastasse, ci si mette pure il mio cuore che non smette d'ammassare orgoglio e pregiudizi che potrebbero trasformarsi in delitti e castighi, in voli senza ali, in poeti senza motivazioni. Quando a qualcuno, leggo le cose che scrivo, questi mi guardano appena e si domandano:

-Chi me lo fatto fare a rendergli visita? Poco dopo, ripartono sconvolti e confusi, credendo che mi sono bevuto il cervello o fumato il linoleum della cucina. E se avessero ragione loro? Ma allora? Perché questa mia smania di comunicare, in momenti come questi, nei quali non trovo il passepartout per dialogare con le mie vecchie cicatrici, che mi scansano. A volte cammino a piedi nudi nel limbo, dove so che sono parcheggiati, i miei cari: mio figlio, mia madre e mio padre, che forse mi aspettano, ma io che non ho voglia di morire, voglio vivere, non andrò e non accetto

nemmeno d'invecchiare, perché non ho ancora capito come si possa cercare la morte. Forse mi sono perso un tassello del mosaico che compone la mia vita passata che si confonde ancora col mio presente ma canta.” Voglio vivere così, col sole....”

La campana della chiesa di San Michel chef chef suona la quarta ora di un giorno che fa fatica a levarsi e non vuole accendere questo mattino sonnolento che invece, se potesse, mi darebbe in pasto alla solitudine e alla malinconia dell'essere solo con se stesso. Questa mia maniera di scrivere tragica-comica, in questi giorni che sanno di camomilla, è diventata una pratica quotidiana che, a volte, fa diventare il tempo dramma e tragedia e mi appioppa nuove problematiche per illudermi che presto mi aggiusterà la vita. Ricordo che avevo 46 anni, quando, alla roulette della vita, perdetti due ristoranti e un albergo nella foresta di Fontainebleau. Di quei disastri commerciali non mi restarono che poche cose, quasi nulla, nemmeno un franco bucato. Il fisco e i creditori mi avevano preso tutto e continuavano a darmi la caccia. Da alcuni mesi, la mia famiglia ed io, vivevamo con il poco che ero riuscito a mettere in un conto bloccato, per i miei figli. Uscivo da casa solo per fare gli acquisti di derrate alimentari. La vergogna mi faceva vivere come un recluso e passavo le giornate, tra i fornelli e la televisione. Tutta l'argenteria, l'oro e qualche mobile di valore, dormiva nel tetto morto del mio villino, dove c'era anche la saccoccia con le ultime trenta mila franchi che mi restavano e una Beretta calibro 21, ma un giorno, spesi gli ultimi soldi, sarei dovuto uscire allo scoperto e affrontare la vita. Prima o poi, i miei figli e la donna che mi viveva accanto, il pastore tedesco, trenta galline padovane e due galli, mi avrebbero detto:

-Lazzaro alzati e cammina, vai e cercati un lavoro, anche come lavapiatti, ma vai! Vivere rinchiuso o fare il morto non mi sarebbero serviti a gran cosa, e allora? Andai ramengo e feci il giro dei ristoranti per chiedere un qualsiasi lavoro, come se avessi ancora 20 anni. In realtà ne avevo 48 e la gente del circuito della ristorazione mi trovava vecchio per fare ancora il cameriere. Bussai a tutte le porte e alla fine, nel quartiere del Fouburg-Montmatre, all'angolo della via Bergers, una (gelateria, pizzeria, ristorante siciliano) mi fece l'occhiolino. Entrai sperando di trovare un paesano che potesse capire il mio dramma. Altro che paesano! Il proprietario era un omone grande e con un naso che sembrava un manico di pala, buono per infornare le pizze, si chiamava e continua a chiamarsi Yak Levy, cucina (giudeo – musulmana), con un pizzico di cristianità che per comodo, ancora oggi, non guasta. Guardandolo bene, mi ricordai che mio fratello Ciccio gli aveva rinnovato il locale, così quando feci il suo nome, il tizio in questione mi disse di sì, anche perché aveva capito quello che c'era scritto sul mio viso. Non mi chiese quanti anni avevo e da buon ebreo interessato e pratico, mi colse come un frutto maturo. Felice come una pasqua ebraica, ritornai a casa per annunciare la buona novella. In quel periodo della vita, abitavo un villino grande e con un bel giardino, nella periferia nord di Parigi. Alla donna che, spiritualmente non m’abitava più il cuore, con calma e dolcezza forzata, dissi:

- Non temere, da domani ritornerete a mangiar bene!

Non ne valeva la pena, ma lo dissi comunque e lei, finse d’essere felice e poi:

-Quanti soldi ti daranno al mese? Per lei, l'importante, non era partecipare, perché non era la figlia di De Coubertin, lei voleva vincere e continuare a farmi le tasche di notte e di giorno. Non a torto, l'avevo battezzata “ Teresa la ladra”. Finalmente, dopo due mesi d'immobilismo, avevo trovato lavoro per me, per gli umani e per le bestie. Presi per mano Davide e Fabio per scendere nel giardino e parlare alle bestie della famiglia; gli animali capirono che c’era qualcosa di nuovo e all'unisono, ci accerchiarono, e con loro, alla conversazione, volle partecipare anche il cane. Notarono che avevo le mani piene solo di promesse che non riempivano il gozzo e qualcuna di quelle sfrontatissime galline, osò protestare e starnazzò:

- sempre promesse e niente nella scodella e il cane assentì convinto che volevo tergiversare, mentendo. Bisognava rassicurarli e allora gli parlai di resti di paste e ritagli di pizza, mentre al cane solo, in un’orecchia, raccontai di cosce di pollo e ossa di maiale. Miracolo della comunicazione e della pubblicità, alcune galline, dalla gioia, starnazzarono e depositarono quattro uova ai piedi di Davide e Fabio, mentre il pastore tedesco m’abbaiò: O sole mio in perfetto dialetto napoletano e poi, tutti in coro:

-grazie padrone, allora è vero, ritornano i tempi d'oro.

-Il giorno dopo, puntuale come un orologio svizzero, feci il mio ingresso nel pseudo ristorante italiano, dove ad accogliermi, trovai due persone di una certa età; erano i genitori dell'unico e ultimo padrone della mia martoriata vita. Il padre, stessa stazza del figlio, stesso naso e come il figlio calzava scarpe taglia 48, la madre, 80 anni, veste a fiori coloratissimi e un trucco come quello della zia Mattia, dell'omonimo bordello, di via Maddem a Catania. A parte questa impressione negativa, era brava gente, gentile e quasi umani, perché mi accolsero con un sorriso. Fino a mezzo giorno, non si muovevano da dietro il bancone e mi comandavano come se fossi un arabo; facevano il bar, vendendo caffè, liquori, gelati e altro, mettendosi qualche franco nelle tasche, giusto per arrotondare le loro misere pensioni. A mezzo giorno in punto arrivava il figlio e loro rientravano a casa. A me, gli ebrei hanno portato sempre buona sorte e quell’esperienza non sarebbe stata da scartare, anzi... Con loro non bisognava parlare di Dio o Allah, in quel quartiere, le due comunità erano sempre in conflitto. Ed io, senza lasciarmi coinvolgere, m'imposi la politica qualunquista che era quella di farmi i c.... miei! Ogni mattina, tra Scialom e Sbalachir, mi riempii i polmoni degli odori dell'oriente e per conservare il mio posto di lavoro, imparai a fare lo struzzo e a tener duro, stringendo le natiche. Feci tutto il possibile per perdere le squame del vecchio padrone, se volevo sopravvivere dovevo abituarmi all'idea d'essere sempre stato uno schiavo, moderno ma schiavo. Il mio nuovo statuto, mi obbligava a stare al posto mio. Divenni amico del mio padrone e salii di grado, direttore di me stesso, e lui, che non aveva le p... mi gettò in pasto a quel suo personale di merda, contro il quale, mi battei per lui e per una ristorazione all’italiana. Lavoravo duro e riuscivo a farmi tanti bei soldini, perché ero pagato a percentuale, e alla fine del mese, portavo a casa una bella busta, ma tutto ciò non bastava a soddisfare la mia smania di protagonismo e anche s’avevo qualche soldo, continuavo a sognare e a sperare di rimontare la china. Nel cervello, mi sguazzava un grosso crik di camion che mi creava depressione e ansia, che di lì a qualche giorno avrebbero fatto saltare i fusibili del cervello e dell'anima mia. Cercai di dominarmi e fingere tranquillità; nessuno doveva accorgersi del mio male profondo, ma la depressione mi ghermì lo stesso e mi fece suo, cercando di sputtanarmi. Arrotolai il mio corpo come se non fosse il mio e cercai di mostrare sul volto segni esteriori di pace e serenità. Non potevo perdere quel lavoro che era la mia ultima spiaggia. Bisognava confondere le carte alla mala sorte e in qualche modo ci riuscii. Il giorno lavoravo e la notte, come se fosse un bambino ammalato, vegliavo la mia depressione, che di lì a poco, poteva morirmi tra le braccia. La madre dei miei figli, non se ne dava pena, perché per lei, la mia malattia era pura pazzia, era la solita follia dolce da classificare come un capriccio d'agosto, o meglio ancora come un caso di psicosi e non come una nevrosi. La mia depressione, disturbava appena e quelli che mi stavano accanto, non se ne rendevano conto, ma dovevo fare attenzione, perché quel male era strano, una sensazione che mi faceva perdere l’interesse per tutto ciò ciò che mi circondava e da quel giorno, tutti i profumi della vita non ebbero più odori e le pietanze dell'amore divennero insipide e i sensi mi si misero in tilt. Il desiderio del “ dolce far niente” cercò di ghermirmi, per spingermi al Karakiri, cosa che non potevo permettermi. Senza rendermene conto, gli altri desideri fecero la valigia e quello sessuale si allontanò del tutto e la mia donna, ancora una volta, gridò:

-Hai un’amante! Vigliacco, come se non bastassero le nostre disgrazie ma non temere, Dio te la farà pagare!

In mezzo a quel marasma non si accorgeva che l’unica meretrice era solo la mia disperazione che sconvolgeva tutto il mio essere. Se fosse stato possibile, avrei voluto fare una cosa: non alzarmi più, restare a letto anche se ero certo che non avrei dormito. Rimanere sotto le coperte per non affrontare le mie colpe. Isolarmi, non vedere più nessuno per non sentire le chiacchiere della gente. L’essere divenne un non essere, la vita pantomima, il vuoto, a modo suo, riempì il pieno che non riconosceva più. L'avvenire divenne nero e poi sparì, perché non aveva più avvenire, ed io decisi di tenermi in piedi come se avessi avuto quattro zampe e non fossi più un umano, ma un Minotauro, quello della mitologia greca, che un giorno della sua leggenda, avrebbe trovato la morte, lungo il percorso del suo stesso labirinto, battendomi per uscire. Per fortuna, sapevo che non avrei avuto la stessa sorte del Minotauro e nel buio di quei giorni, tastoni, avrei camminato e annusato il percorso che mi avrebbe portato verso la luce che va, quasi sempre, all'ultima stazione di non importa quale percosso. E mi misi a curare quella strana malattia, che m'era sembrata una volgare ulcera che non

mi dava respiro e ogni notte, quando s’agitava, mi scuoteva e mi costringeva a levarmi dal letto. Come un paziente sottomesso mi alzavo, prendevo il mio corpo e andavo nel salone, accendevo la televisione, appoggiavo la schiena sul canapè e aspettavo l'alba. Il mattino, con la depressione che seminavo lungo il percorso per andare al lavoro, mi trascinavo senza sapere come avrei fatto per affrontare un altro giorno ancora! All'una di ogni notte, rientravo come ero partito, con la metropolitana e tra le gambe, la mia coda e un secchio di resti per le mie bestie, che i clochard del sottosuolo parigino, se avessero saputo, m'avrebbero rubato per banchettare come fossero principi, ma non li avrei ceduti perché l'avevo promesso alle galline e al cane che tutte le mattine mi accompagnavano al cancello e mi facevano promettere di non smettere. Tutte le notti, verso le due, quando la corriera che aspettava l'ultimo metrò, mi riportava a casa, loro, le bestie, si facevano trovare davanti al cancello, starnazzando e abbaiando di gioia davanti a quel bene di Dio che gli portavo; contavano le ore, i minuti e perfino i secondi supplementari che, a volte, il mio padrone m'imponeva in quei frangenti della vita nella quale non ero sempre vincitore, ma questo le galline non lo sapevano e non volevano sentir ragioni e quando mi vedevano arrivare, era un concerto-sconcerto, anche se non ce n’era una che starnazzava a tempo, e poi c'era lui, il pastore tedesco, rauco e geloso del cane del vicino che, tutte le notti, si avvicinava al limite delle due ville, nella speranza di farsi amico e poi, partecipare alla cena delle bestie. E tutto quel bordello? Per una secchiata di pessima cucina fatta con i piedi da poveri arabi mal pagati. E fin dal primo secchio, il mio cane, senza che me ne rendesse conto, si mise a odiare il cane del vicino, al quale, a più riprese, fece capire che se non avesse smesso di rompergli le ... un giorno o l'altro, quando non sarei stato la per proteggerlo, gli avrebbe somministrato una santa correzione che se la sarebbe ricordata per tutta la sua vita di cane. E intanto quel mio male oscuro perdurò per due lunghissimi e impossibili anni. Maledetta depressione, che insisteva e martoriava il morale, facendomi sempre male, mentre io, continuavo a far credere che stavo in buona salute e che tutto andava a gonfie vele.

La mia ex diceva a tutti:

- E' pazzu, fuite, fuite gente!

Ma io non ne tenevo conto perché i giudizi non mi toccavano e non l'amavo più, non m'ispirava nessuna pietà; era solo e sempre Teresa la ladra, la gatta sul tetto che non scottava più, il male che dovevo evitare! Non voleva e non sapeva sostenermi, non capiva e poi, come avrebbe potuto concepire e accettare di vivere con un pazzo? Mi ci sarebbe voluto qualcuna diversa da lei, ma era tardi e la mia dignità mi vietava di lasciarla e c'erano i figli che non avrebbero capito, dandomi torto. Non presi nessuna decisione, non mi restava che buttarmi a capofitto nel lavoro, restare calmi e lucidi. La depressione ed io, eravamo diventati una sola persona, una coppia, marito e moglie, solo lei mi amava, impegnandomi la mente, per farmi dimenticare il resto delle cose. C'era poco da sfottere e in più, era di sabato e la mia ex non aveva fatto gli gnocchi e nemmeno il ragù. E pensai che tutto quello che m’accadeva era la conseguenza dei malintesi che nutrivano e logoravano la mia vita coniugale. La rottura si disegnava e creava il baratro sotto ai nostri piedi. La degradazione dei rapporti, era e non era il riflesso dell'usura certa di una coppia che non aveva più nulla da dirsi: E poi, come potevo dimenticare la sua aggressività verbale, che schifava perfino i palati più rozzi, e pensare che ero stato il suo Dio e il suo eroe! La festa era finita e la messa pure e lei, continuava a gabbare l'uomo usato e rigirato come un calzino che era diventato la bestia nera, che le rovinava la vita.

ettima parte                    [torna all'indice]

E ora, quel Re d’un tempo, si mostrava in tutta la sua misera nudità. La luce si era spenta e per lei, non restava altro che l'uomo e che uomo... e spesso me lo faceva notare anche la gente che diceva:

-L'uomo senza apparenze, non è nessuno e questo giudizio, spesso, ce lo sbattiamo in faccia senza ritegno, senza riflettere ed io, da quel giorno, imparai a guardare la gente e le loro sofferenze, attraverso le apparenze morali e sociali. Poi, non so come fu, cercai di ricucire quella storia che avrebbe potuto riprendere i colori della bestia, ma solo per amore dei miei figli, ripresi per

fabbricare la pace e la comprensione, ma il male era stato fatto. La sua immagine, nel mio cuore, si sfuocò e diventò color seppia, perdendo le sfumature della vita. Diventò tutto equivoco e lei, incosciente, mi disse che tutto quello che facevo le dava fastidio e nausea. Il minimo incidente, divenne un pretesto per litigare e trasformarci in una coppia acida, che si condannava a vivere insieme per non fare male ai propri figli. Restavo per onorare il mio ruolo di padre.

8 gennaio 2008: smetto di scrivere per prendermi una breve pausa. Uno sguardo nel giardino per vedere se gli uccelli hanno da mangiare, le coppelle sono vuote e manca l'acqua, li riempio. I miei sono senza titoli, né padroni nobili e hanno capito che qui, abita un vecchio sentimentale che lascia mangiare a ufo e loro, che non sono stupidi, si sono passati la parola e vengono e cantano. Domani gli comprerò on po’ di strutto che costa molto meno del burro. Un rumore come di caduta di massi, mi giunse dalle scale che salgono e scendono, dalla mia mansarda, là, dove tengo tutte le mie cianfrusaglie, come quelle che tutti accumuliamo senza ragione, perché crediamo che la vita e le cose non si esauriscano mai e alla nostra morte, se lo volessimo, potremmo portare dietro. Ecco che la cassapanca dei miei ricordi si mette a scricchiolare, si apre e una parte del suo contenuto precipita e poi si sparge davanti al mio tavolo da lavoro, come a volermi dire:

-Ti sei dimenticato? Avevi promesso di parlar di noi! Sono tutti i ricordi della mia famiglia che dormivano saggiamente lì, le une attaccate alle altre; le mie storie e quelle di mio padre, il suo e il mio passato, con papà sempre vigile per rimproverarmi certe imperfezioni. E allora? Cosa posso fare? Credo che vi darò ancora qualche pagina, con dentro questi altri ricordi, quelli di mio padre,

ricordo quel giorno, quando papà ci raccontò di aver visto piangere suo padre, che credendosi solo nel suo granaio, davanti all'ultimo sacco di frumento, si diede a parlare col grano, come a un umano, ma lasciamo che sia papà a raccontare:

-L'avevo visto salire furtivamente, ed io, incuriosito, una volta che entrò e chiuse a chiave, mi misi a piedi nudi e salii come un gatto, mi sistemai dietro la porta e guardai dal buco della serratura e vidi: Una sedia e lui, con la schiena rivolta verso la porta, in faccia al sacco di grano, cavalcioni e la testa tra le mani. Nella stanza c’erano tante povere cose: qualche paniere di sorbi, qua e là, una ventina di melograni, un sacco di mandorle, due sacchi di sementi e una decina di topolini che se ne fregavano della presenza del nonno e continuavano a bucare i sacchi. Spalle alla porta e palla al centro, in un incontro con se stesso. Un vecchio uomo, appena 50 anni, piangeva senza ritegno, per la sorte della sua famiglia. Sapeva d'essere prossimo alla morte, ma questo noi, i suoi figli, non lo sospettavamo. In quel granaio, col silenzio e la delicatezza dei topolini, si mise a parlare al sacco e alla sua modesta anima, nella speranza che Dio gli si manifestasse e ascoltasse i suoi lamenti e il suo testamento spirituale che non poteva scriverci, perché sapeva fare solo la sua firma e nient’altro. E lui, che aveva sentito la mia presenza dietro alla porta, alzò il tiro e il tono della voce e declamò:

-Quando sarò morto, avrò la forza di sorridere alla vita che sta per abbandonarmi?

-Avrò il coraggio di guardare, con distacco, i mali del mondo?

-Saprò accettare con rassegnazione la mia fine?

-Il dubbio riuscirà a seppellire le mie certezze?

-Questa fottuta morte cancellerà tutti i miei mille e un perché?

Questo lo diceva suo padre che sapeva che la sua corsa era al termine. Io il nonno l'avrei incontrato in quel mio pazzo sogno onirico. Nonno non ebbe una vita lunga e bella, ma solo corta e senza nerbo, breve e martoriata! Non ebbe titoli, né blasoni, né fortune, ma 11 figli e figlie, l'undicesimo non lo conobbe, perché la morte lo ghermì prima che il piccolo nascesse. Ai funerali di nonno ci fu poca gente, ma abbastanza per piangerlo e ricordarlo. Non fu un uomo importante, perché la sua cultura e la brevità della sua vita non gliene diedero il tempo, e poi, non era un saggio. Le avversità della vita l'avevano fatto diventare cane senza collare, inimicandosi i potenti che non gli facevano paura. Colto non fu, ma stupido nemmeno. Povero e analfabeta, si! Quelli come lui, furono poveri e assoggettati alla miseria atavica dei loro antenati, che avevano fatto la fortuna dei ricchi, che si tramandavano le belle cose, come facevano i poveri con la miseria e l'ignoranza. Nonno non fu un uomo con storie da tramandare ai posteri e per questo morì miseramente e fu seppellito in una fossa comune. Non ebbe nessuna affinità con i nobili del circolo in questione, che poi, se vogliamo, non erano nemmeno nobili, ma solo figli di certe donne. Morendo, la sola cosa buona che gli riuscì, fu di

fregare il sole, che da quel giorno, non gli avrebbe più bruciato il corpo in mezzo ai campi di grano di Raddusa. Sole che non l'avrebbe accompagnato, perché quell’astro non amava la morte. Nonno lasciò dietro di se una vita magra e scarna, pochi rimpianti, tante inutili preghiere ai piedi della Madonna del navigatore, che era stata sorda alle sue suppliche e ai suoi bisogni. Le notti che vennero dopo, chiuso nel buio della sua morte, furono notti, nelle quali, la terra dov’era stato seppellito, si mise a tremare, perché il suo spirito cercò di venirne fuori, lasciando scappare i fuochi fatui del fosforo delle sue ossa, che fecero paura agli incauti passanti delle notti raddusane. Nella sua tomba ci stava scomodo, di giorno e di notte, si rigirava come una frittata impazzita. All'ora del vespro, tutti i giorni, arrivava nonna che nonostante il male che gli aveva fatto, gli voleva sempre bene e onorava la sua morte, così come aveva onorato la sua breve vita. Arrivava col suo grande paracqua che gli serviva anche da parasole, puliva il grande masso che se ne stava lì, a mò di sedia, ai piedi della tomba, stendeva il suo grande fazzoletto per la testa, si sedeva e apriva il suo enorme ombrello e cominciava a dialogare col suo uomo. Gli raccontava tutti i fatti e i misfatti dei suoi ragazzi e lui, a ogni parola di Carmela, si moriva sempre di più. Gli parlava pure del suo ultimo figlio, che in sua memoria aveva chiamato Cristofaro e lui, di questo, non era felice, perché quel suo figlio avrebbe avuto un triste destino. Nonna s'era imposta due ore al giorno con lui e per lui solo. Puliva tutto intorno, fioriva la tomba e annaffiava l'oleandro. Andava e veniva per un lungo discorso tra sordi. Quella pietra era l'ultimo indirizzo di un uomo che aveva dato alla vita tutto quello che aveva saputo dare. Per tanti anni, quel luogo, fu l'arena dei loro incontri scontri. Bisognava vedere con quale forza litigava, lei che non aveva più paura di lui, gli teneva testa. Grazie a quella condizione di morte, poteva parlargli come meglio credeva. L'ora di cantargliele tutte era arrivata e lei non aveva più bisogno di mandargliele a dire. Nonno non era stato facile a gestire; testardo come la mula che aveva lavorato per lui, portava ancora rancore, era stato geloso ma, a modo suo, innamorato della sua donna. Da morto era peggiorato e faceva la trottola dentro la fossa e nell'anima della nonna, come un morto tradito. Il suo carattere impossibile e i suoi dubbi avevano costretto la famiglia a ritornare in Sicilia. Era stato per colpa sua se i figli avevano dato quei risultati e nonna, proprio questo non glielo perdonava. Da vivo non si era fatto amare, immaginiamo da morto. Quei loro incontri erano diventati pretesti per delle grosse torte in faccia. E ogni pomeriggio, nonna Carmela, andava a trovarlo per piangere di rabbia, per tutto il male che, con la sua stupidità, aveva arrecato alla sua famiglia. Nonna, per tutta la durata della sua vita non si privò di gridare il suo odio per quella terra senza anima; rimpiangeva il Brasile e il benessere d’allora e in quel cimitero, vi restava seduta, per ore, a rimuginare accanto a un uomo che anche da morto, cercava d'imporre la sua volontà che non contava più nulla. Era distrutta dalla bile che non la lasciava respirare e in quei momenti di sconforto, se la prendeva perfino con la leggenda di Colapesce che aveva salvato la Sicilia, impedendo che sprofondasse e non esistesse più. Povera nonna e povero Colapesce, che sicuramente non era esistito.

Quelle sue due ore accanto a nonno, le passava accovacciata su quella pietra, come una civetta che aspetta la notte per vivere i silenzi della natura che a volte portano un po’ di pace e a volte, nemmeno quella. Poi, alla fine di quegli estenuanti monologhi, si alzava, gettava un ultimo sguardo verso il suo uomo e rassegnata, puntava i suoi occhi, quasi spenti, giù per la valle del Garritano e annusando l'aria intorno, come a cercare l'odore della vita; si preparava, prendendo un tempo massimo per andare verso casa. Quel giorno, una fine pioggerella maliziosa stava stendendosi e la terra emanava i primi odori che sapevano di zagara, profumavano l'aria afosa che si stendeva sulle case dell'antico feudo d'un tempo. Nonna guardava e continuava ad annusare intorno e s'interrogava sulla sua sorte, su quella dei suoi figli e su un destino che non voleva accettare, così com'era. E si disse che lassù, qualcuno non l'amava e calpestava la sua dignità di madre e di donna. Poi, afflitta, puntò l'indice verso il cielo, come se sapesse dove abitava Dio e in un monologo stretto, stretto col suo cuore, disse:

- Padre mio che sei in cielo, in terra e in ogni luogo, trasforma questa maledetta terra di mafia in un bastimento, mettigli le vele, gonfiale di vento e rimandaci in Brasile!

Ma Dio non aveva tempo e nonna non era una cliente privilegiata e la sua famiglia era da evitare. Doveva portare pazienza e aspettare giustizia e manna da un altro Dio... E in tanto? Che si facesse la

sua volontà! Una cosa era certa: Dio l'aveva condannata a vivere inchiodata a quella sua terra, come se fosse la sua croce e lei, l'incarnazione di una povera Madonna! E Raddusa non era Taormina e quello, nonna lo capiva, ma fece lo stesso un braccio d'onore verso ignoti. Col passar del tempo, anche lei, come tante madri, si sarebbe rassegnata e lasciata sodomizzare l'anima dal destino. Ogni sera, al momento di rientrare, al crepuscolo dei poveri e non certo degli Dei, inciampava nel suono delle campane dell’Ave Maria; stanca per tutte le bestemmie degli uomini guardava la valle e oltre, dove c'è la piana di Catania che costringe i cafoni a piegare la schiena, Poi, senza rabbia, indirizzò il suo guardo verso la cima dell'Etna per lasciarsi sedurre dal pennacchio di fumo parlante della montagna di fuoco con quelle ultime chiazze di neve che annunciavano l'inizio della primavera. La rada neve, tra rocce e ginestra selvaggia, sembrava batuffoli di cotone, rassomigliando a mucchi di zucchero filato in un giorno di festa davanti alla chiesa madre della piazza dell'elefante a Catania. Nonna restava come incantata, davanti a quelle visioni, ma in cuor suo non si sentiva per niente fiera, e prima di riprendere il suo cammino abituale, pensò alla sua precarietà e disse pur non conoscendo Cambronne:

-Merda e poi, ancora merda! Ero stato io a insegnargli quel moccolo, in quel pazzo sogno brasiliano, quando insieme cercammo di salvare mio padre dal tifo.

I suoi ricordi erano fatti di privazioni e dolori, erano macigni che gli impedivano di rigirarsi e vedere le soluzioni possibili. Papà e lo zio Peppino erano latitanti e il resto dei suoi figli non avevano le p...., Michelangelo, reduce da quella storia sul ponte, era diventato intrattabile, ma grazie a Dio.... c'era la zia Bianca che si batteva e metteva ordine nella famiglia. E nonna gettò un ultimo sguardo dalla collina del cimitero di Raddusa per immaginare e materializzare quel mare di grano, che di lì a qualche mese, si sarebbe disegnato sulle terre del villaggio. Si bloccò, sorrise e disse:

-Tra qualche mese ritornerà l'estate e i miei figli, andranno a mietere il grano e avremo il pane per l'inverno. Poi andando via disse buonanotte a nonno e agli altri inquilini e da quella posizione strategica, aammirò il tramontare del sole e l’apparire della luna che aveva tanta voglia di deporre il sole e brillare d’argento, in una notte che abbassava e apriva il sipario su quella miseria umana.

Quando penso a tutta la fatica che ho fatto per reperire i documenti e rielaborare questa storia, solo fra me e me dico:

- Ma ne valeva la pena? Non lo so, ma sento che almeno io, n’avevo bisogno. Ogni anno, ad agosto, vado in Sicilia e nella cappella di Bianca Cammarata, parlo a mia madre e a mio padre e guardo la foto di nonna che forse dal buio della sua nicchia mi vede e mi protegge. E' poca cosa? No(?!) Io so che non è poca cosa! Il villaggio e la casa, in viale Regina Margherita, s’é svuotata dei passi dei Cammarata e pochi sono quelli che si ricordano di loro che erano tanti, ma che, come nonno, non marcarono la storia, anzi qualcuno di loro fece ridere il popolino. Mi ricordo del tempo, quando vivevano ancora Bianca, Clelia, Salvatore, al quale non gliene volevo per le parole cattive che un giorno mi aveva detto, e c'erano anche zio Angelo e zia Genoveffa, la più dolce, quella che quando ti baciava e ribaciava, si puliva la bocca come se ti volesse mangiare di baci e poi, dopo d'averti baciato, si puliva la bocca con la manica del suo vestito a lutto. I loro ricordi e il diario di zia Giuseppina mi sono stati di grande aiuto. Ma se volevo sapere qualcosa di più, dovevo attraversare l'oceano e andare a Porto Alegre, dove i miei avevano vissuto dieci anni della loro vita e dove vivevano ancora i nipoti dei fratelli di nonno. Il sogno che avevo fatto su di loro, con quel viaggio onirico, non mi bastava più, se volevo vederci chiaro, dovevo trasformarlo in visioni concrete. Telefonai e mi rispose un lontano cugino che non si chiama Cammarata ma Fernando Palacino Baptista de Oliveira, amico internazionale di Raddusa e pro-cugino dei Cammarata, perché suo nonno Liborio si sarebbe sposato nel 1905 con una catanese e sua sorella Maria col fratello di nonno che era Michele Cammarata. Oggi tutti i discendenti dei Palacino, che sono una ventina e i Cammarata che sono oltre 200 per merito dei dodici maschi di Michele e Filippo, si considerano tutti figli di Raddusa. Un anno dopo, insieme alla mia sposa decidemmo di attraversare il mare, per vedere e ascoltare, cent'anni dopo, le loro storie che, sicuramente, non furono come le nostre. Per andare sarebbe stata una grossa spesa, ci volevano tanti bei soldini e noi, solo per apparire, grattammo i fondi dei cassetti, raccogliemmo l'olio sulle fave, rompemmo i salvadanai e partimmo, come due archeologi, alla ricerca dell'Arca perduta. E quel giorno, cent'anni dopo, avrei toccato col

cuore e con gli occhi, quella che era stata la loro breve e lunga permanenza in Brasile. Pare che vi fossero arrivati poveri, per ripartire, certamente meno poveri, ma non ricchi. I nostri cugini, grazie ai loro nonni, che avevano saputo tener duro e fatta fortuna, stavano bene ed erano notai, avvocati, commercianti, mercanti di beni e tutti con belle case, in città e al mare. Noi, i Cammarata di nonno, a parte mio fratello il medico e qualche insegnante, ci siamo dovuti contentare di quel che siamo diventati e a non essere gelosi, perché non siamo poveri come lo furono i nostri nonni. Prima di partire, dovevo inventarmi una carta d'identità con molte credenziali e lo feci, e dissi che possedevo una catena di ristoranti e che, a tempo perso ero scrittore. Rinnovai il mio guardaroba e comprai due valigie di cuoio. Sull’aereo, come al solito, ebbi paura e mi dissi: speriamo che non cada e che i pesci restino a digiuno. In meno che non si dica, quando l'aereo si stabilizzò, mi addormentai saporitamente come un viaggiatore interspaziale, veterano di mille e più battaglie stellari. E mi misi a sognare; Morfeo, di lì a poco, ci avrebbe servito il più bello dei sogni. La scena s'incorniciò di cieli azzurri sopra a un mare incantato, uccelli del paradiso fischiavano sambe e madrigali d’amore, senza smettere mai, mentre l'aereo si trasformava, come per incanto, nella più bella delle navi spaziali che, dolcemente, scendeva per planare su d'un lago fatato, enorme e pieno d’uccelli variopinti. Una lussureggiante foresta tropicale cinturava il sito. Dalle rive partivano piroghe infiorettate e cariche di belle ragazze dalla pelle color dell'ebano. Il volo durò 10 ore, e mentre l'aereo volava ancora, la voce del secondo di bordo ci svegliò, spezzando il sogno e riportandomi alla realtà:

-Signore e signori, tra pochi minuti ci poseremo sull'aeroporto di Porto Alegre, la temperatura a terra è di 40 gradi all'ombra, siate felici e allegri, a Parigi, avete lasciato la neve e il freddo. L'ufficiale di bordo, a modo suo, voleva essere spiritoso e continuava col dire:

La compagnia T.A.M vi ringrazia per averla preferita alle altre e spera di riavervi a bordo per il vostro volo di ritorno. E la pista d'atterraggio, sconnessa, fece il resto. L'aereo si comportò come un canguro e si mise a saltare e a scuoterci come sacchi e, a ogni buca che prendeva, un bagaglio a mano, centrava la testa d’un passeggero. Mi svegliai e guardando dall'oblò cercai di vedere la laguna e le piroghe, ma c'erano solo squallore e una grande macchia di bitume nero, piena di buche e molliccio, a causa del calore che faceva fondere il suolo. Al posto degli uccelli variopinti, corvi neri e minacciosi picchiavano, con aria affamata, sui vetri degli oblò. Volete vedere che qualcuno, a mia insaputa, aveva cambiato canale? Fuori l'asfalto non smetteva di fondere, ed io, non sarei voluto scendere, ma l'aereo era atterrato e ci vomitava fuori come pacchi, e allora? Pensai ai sobborghi di Napoli e mi dissi: tutto il mondo è paese! Arrivammo alla dogana, cercando di denunciare il meno possibile, che fastidio! Anche lì era vietato trasportare bombe, ma non n'esplose nessuna e ci lasciarono passare. Erano tutti là, ammassati dietro alla transenna: tre Palacino e venti Cammarata, che non si chiamavano più così, perché quelli dello stato civile di quella terra di samba e cha-cha, avevano deformato il loro cognome, e ora si chiamano Camaratta. Sventolavano cartelloni con sopra scritto:

- Siamo i Cammarata del Brasile! Li raggiungemmo e fu subito un'ammucchiata di affettuosità e abbracci, era come se ci conoscessimo da una vita.

Fuori, nello spiazzo dove c'erano le vetture, la sindrome dell'indifferenza mi strizzò l'occhio e mi mandò a fare a quel paese. I virus del bene e del male, abitavano anche là e mi aspettavano come sempre, senza aspettarmi ma solo perché ero: uno, cento, mille e nessuno! Mentre cercavamo di raggiungere le vetture, carretti come quelli che c'erano stati in Sicilia tanto tempo fa, tirati da cavalli che sembravano asinelli sardi, ci sfrecciarono davanti e di dietro, come dannati personaggi di un'opera buffa e allo stesso tempo tragica. Chiesi che tipo di locomozione fosse, e pensai a Catania, prima e subito dopo l'ultima guerra. I cugini brasiliani mi dissero che quei carretti erano autorizzati a fare la raccolta del cartone, delle lattine di alluminio e altro. Erano i municipi che autorizzavano quei poveracci, che per ottenere quel diritto, dovevano pagare una tassa, applicare una targa dietro alla carretta, e solo dopo aver fatto tutto ciò, potevano raccogliere e portare alla discarica comunale tutto quel materiale. Nelle discariche, i caporali della municipalità, pesavano i sacchi e pagavano: l'alluminio, i cartoni e gli stracci. Non si trattava di uno o due carrettini, no! Tutte le mattine, dalla bidonville e dai quartieri poveri, ancora oggi, centinaia di quelle famiglie partono lungo le strade

dei quartieri nobili e ricchi, per setacciare i marciapiedi come certe donne di malaffare; litigando tra di loro, per una lattina, una vecchia giacca o qualche cartone. Pensai a Catania e alla nostra infanzia quando nella nostra città i trasporti si facevano con le bestie che sporcavano le strade con le loro cagate. Da noi, le famiglie dei poveri, mettevano i bidoni della spazzatura, fuori della porta e nei cortili, per depositarvi i resti dei loro miseri pasti e altro e con quelli, contribuivano a far vivere quegli spazzini improvvisati. Ogni mattina, nella mia strada, passava u munnizzzaru, (lo spazzino) l'abusivo, l'escluso, che a rischio di farsi appioppare una contravvenzione, raccoglieva le merde delle bestie, svuotava le casse della spazzatura della povera gente, che era contenta di non dover pagare per quel servizio. I carrettieri-spazzini, simili ai ladri, andavano a vendere quei carichi d'immondizia, negli orti di San Giuseppe La Rena. Questo accadeva 60 anni fa, mentre lì, a Porto Allegre, c'era ancora quell’abitudine e per di più, per gentile concessione dei signori sindaci. Il capo famiglia, a volte era un uomo, ma spesso erano donne abbandonate da mariti ubriaconi e dissoluti, donne vaste e devastate dall'alcool e dal tabacco. I cavalli erano come i cani da tartufo, fiutavano e vedevano gli oggetti prima ancora che gli umani e per meritarsi la biada, si arrestavano senza che la donna e i suoi 5 o più marmocchi glielo chiedessero. Tutti a terra, chi a squartare i cartoni e chi a schiacciare le lattine e chi a riempire i sacchi di stracci e altro, e poi, quando erano certi che gli oggetti raccolti bastassero, correvano al deposito per incassare e comprare un gran pane, un pezzo di porchetta e tanta tekila, che gli consumava il fisico ma gli infondeva il coraggio della rassegnazione. E fu così che i cugini brasiliani mi spiegarono quel fenomeno sociale, raccontandolo senza vergognarsene. Tanto le classi sociali, anche se non si conquistavano a quel modo, erano conquiste sociali che bisognava meritarsi, e per i cugini brasiliani, era normale che la vita, sulla loro terra, si svolgesse a quel modo, e mizzica e poi, ancora mizzica! Non confondiamo i fazzoletti di seta con gli strofinacci e gli stracci. Dimenticavo di farvi sapere che, la gente che svolge quel tipo di lavoro, li chiamano quelli del liscio, come se si trattasse di un ballo, ed io, per stemperare, dissi: Vai col tango!

E poi, mi ricordai della Florida dove mio fratello il medico si era comprato una villa e mi diceva che in quelle città non c'era miseria, ed io, un giorno, col mio fiuto, la trovai e la fotografai, e così, fu pure, quel giorno, a Porto Alegre, dove chiusi gli occhi e metaforicamente, spensi perfino la luce delle terribili realtà che da quel momento in poi avrei visto. L'America del nord e quella del sud, sono sorellastre e anche se hanno problematiche diverse, spesso per quartieri interposti, hanno la stessa maniera d'interpretare la miseria, che quasi sempre è universale e sempre con la stessa morale di comodo. Come dimenticare l'America di Kafka e i sogni di milioni di emigranti che pagarono, con la loro vita, il grande sogno americano? Riflessioni a parte, ritorniamo fuori dall’aeroporto per salire sulla vettura del cugino Fernando che ci teneva ad accompagnarci all'hotel. Le strade erano sotto tiro del sole che cuoceva gente e cose, ed io, per vedere meglio, abbassai il vetro del finestrino per buttare uno sguardo sui marciapiedi di quella città carioca mentre il cugino, rimontò i vetri e bloccò le portiere. Non dissi nulla e capii che Porto Alegre era come Catania, Calcutta e Napoli. Giovani meticci ci camminavano accanto per vedere se ci fosse la possibilità di rubare qualcosa. Pare che gli scippi, erano e sono all'ordine del giorno e gli atti criminosi, normale amministrazione, tanto per campare! Quei miei cugini, quasi tutti di bell'aspetto, vestono bene, mangiano ancora meglio, ma loro, di quello che accade nelle loro città, non ne hanno nessuna colpa, perché pare che tutto quello che posseggono, non l'hanno rubato a nessuno, ed io ci credo. Vollero che visitassimo la città. Ed io chiesi di portarci in piazza Alfandega. Mentre la vettura correva, guardai i muri delle case che grazie a quel mio sogno di qualche tempo prima, mi sembrarono familiari e vidi sfrecciare la carretta di nonno ed ebbi un tonfo al cuore, ma non era che un carrettino del liscio che mi aveva fatto sbandare. Seduto accanto a Fernando, ascoltai le sue spiegazioni senza obiettare, perché stavo pensando a mio padre che in quel momento avrei voluto accanto a me per dirgli:

-Caro papà, di questa terra non ti sei perso nulla e anche se non ci sei potuto ritornare e se sei morto con quel tuo desiderio seppellito nel cuore, credimi, se la vedessi, come la sto vedendo io, posso assicurati che questa terra non è più quella di una volta. Quel tuo paradiso non esiste più. Se potessi cancellarlo dalla tua memoria e portarti la pace fin dentro alla tomba! Sarebbe certamente una buona cosa. Sappi che qui i prepotenti hanno rimpiazzato i pionieri di una volta e annaffiano queste

terre col sangue della povera gente. I guasti del post-modernismo hanno cambiato il volto di un continente che avrebbe potuto avere un altro destino. La vettura di Fernando, incolpevole e indifferente ai miei sentimenti di rancore, continuava a divorare le immagini che si trascinavano sui marciapiedi di un mondo fatto di tutto e di niente. Fernando capì il mio imbarazzo, ed io il suo. Stavo zitto e allo stesso tempo avrei voluto sapere degli anni che mio padre aveva vissuto in quella città. Il cugino si girò verso di me, per cercare di tirarmi fuori da quel mio silenzio imbarazzante e sorridendomi riuscì il miracolo e una corrente di simpatia passò tra noi. Decisi di non parlare troppo e di non dare molti giudizi, che avrebbero potuto essere mali interpretati. Nel cruscotto, c’era una bottiglia d'acqua che afferrai per bere e schiarire la mia voce che non voleva mostrarsi e impediva i giusti accordi. Pensai al mio pizzaiolo portoghese che mi aveva insegnato qualche parola di quella loro lingua che rassomiglia stranamente o forse con ragione, al dialetto genovese e mi buttai a parlare con Fernando che conosceva qualche frase in dialetto siciliano e con gesti e parole mozze, facendo fatica e confondendoci i pennelli ( espressione tipicamente francese), parlando confusamente arrivammo in piazza Alfandega.

La corte dei miracoli non era cambiata, era come l'avevo vista in sogno, ma non c'erano più i miei scugnizzi, né gli zii né tanto meno mio padre, ma c’era una nuova fauna multicolore che, con la bava alla bocca, si trascinava per s'inventare possibili quotidianità. Nonno, in Brasile, aveva posseduto una mula che era una pellaccia di bestia, che non voleva rispettare i suoi ordini, perché quel padrone era un emigrante siciliano, che già allora, anche nell'altro continente, valeva meno d’un piemontese e d’un meticcio. L'animale era un'indigena che ragliava, correttamente, il dialetto Carioca e si vergognava di avere un padrone che ordinava in una lingua che non capiva. Lui gli dava dei pugni sul naso e dei calci nel deretano e lei, che mirava male, perché era strabica, cercava di servirgli qualche zoccolata, senza riuscirvi. La bestia e il nonno, per sbarcare il lunario, furono costretti a vivere insieme, sopportandosi appena. Vissero infelici e scontenti, senza capirsi mai. Il giorno che nonno partì per la sua terra e la mula si liberò di lui, fu un giorno di festa, ma solo per la bestia, che non aspettava altro. Dalla contentezza, insultò nonno in dialetto gaucho e a passo di samba. Si separò come da un nemico, finalmente libera e divorziata da un padrone meno importante di lei, per recuperare i colori della bestia. In piazza Alfandega, vidi bimbi belli e di tutti i colori, figli della disperazione e dell'amore tra poveri, angeli imbroglioni come lo era stato lo zio Peppino, ma non vidi le regole di una volta. C'era solo una fauna di piccoli nani che pur di sopravvivere, avrebbero regalato l'anima al diavolo. Li guardai e una grande voglia di piangere mi annodò le corde vocali e dissi:

-Pietà Dio!

Con noi, quel giorno, in quella piazza c'era anche il cugino Milthon Cammarata o Caramatta, che non provava le mie stesse emozioni, perché era vaccinato e forse viveva sulla pelle di gente come quei poveri disgraziati. L'indifferenza era il suo piatto forte e in un impeto di disgusto, mi disse:

-Qui, la miseria non esiste e questi non sono bambini brasiliani, sono figli di zingari apolidi che ci vengono dalla frontiera Paraguaiana.

Ma non dissi nulla e restai a guardare quei bimbi ai piedi della fontana, dove sicuramente si sedette mio padre e i suoi fratelli e ora c'erano solo un gruppetto di ragazzini non più grandi di 14-15 anni e una femminuccia della loro stessa età, incinta e con un pancione enorme che se ne stava appoggiata in una posa lasciva; intorno a lei, il resto di quei maschietti che la trattavano come un'ape regina, colmandola di attenzioni e regali. Loro domandavano l'elemosina per nutrirla, e lei li ripagava col suo fragile e tenero corpo. Erano una cooperativa dell'amore precoce. Appena messo piede a terra, me li trovai, tutti e sei, intorno a me, pronti a fare le scimmie perché ridessi e sborsassi qualche cruzeros, e a quello che mi sembrò essere il capo banda, ne diedi 10, che accettò e consegnò all'ape regina. Lei, piccola Messalina, mi gettò uno sguardo voluttuoso e da mini-criminale incallita. Anche tutto questo, era il Brasile, ma non potevo dire nulla, perché avevo promesso a mia moglie che non avrei fatto commenti sconvenienti. Promesse di marinaio, invece sbottai e dissi:

-Perché non fate nulla per questi bimbi?

-Ti sbagli! Non è come tu credi, noi facciamo tanto, ma loro fabbricano figli come i conigli. Sono clandestini; ci vengono da fuori, qui, noi brasiliani viviamo bene e tu puoi vederlo, guardaci bene,

secondo te, ci rassomigliano?

Caro cugino siculo Italo Francese, qui non siamo in Europa, quella che vedi è gentaglia, pendagli da forca, e ho l'impressione che tu, devi essere un bolscevico romantico dell'ultima ora!

2 a 0 e palla al centro, e pensare che mia moglie, m’aveva raccomandato di tacere, dicendomi:

-Tieni la bocca chiusa!

Il cugino che aveva parlato, sempre il solito, con calma calcolata, mi guardò con commiserazione. Mi ero imbattuto in un pezzo da 90, dottore commercialista, presidente di una fantomatica multinazionale, direttore di un consorzio per lo sviluppo di non so cosa, e poi, per finire, mi tappò la bocca, dicendomi:

-Muoiono di fame, perché non hanno voglia di lavorare! Guardami bene negli occhi! Siamo noi la tua famiglia e qui, sei solo un ospite, non guastarci il piacere di averti invitato. Sappi che quando Fernando ci ha detto che tu e la tua signora, venivate in Brasile, la mia gioia e quella di noi tutti, è stata immensa. Non rovinarci il piacere e sappi che il denaro che guadagniamo, lo meritiamo, perché siamo i migliori. E ora, lascia stare e pensa a passare una bella vacanza.

Ma mi scappò e lo dissi:

-Il denaro non dà sempre la felicità!

-La miseria nemmeno!

A tre metri da noi, senza volerlo fare apposta, un vecchio lustrascarpe, che come me amava Claudio Villa, Totò e l'Italia e non sapeva tenere la lingua a posto, senza che nessuno l'avesse invitato nella conversazione, si introdusse e disse:

-Sono brasiliano, ma figlio di calabresi e qui vivo peggio di come avrei potuto vivere in Calabria, dove non ci sono più lustrascarpe e dove forse non ce ne sono stati mai e dove i facchini delle stazioni non si chiamano più così, ma fattorini.

Quell'uomo era figlio di una dinastia di schiavi e non era Paraguaiano. Si drizzò, abbandonando il piede e la scarpa di un ricco commerciante della piazza e venne verso noi e rivolgendosi a me:

-Paisanu non datici ascutu, Cca, i poviri sunu ogni giornu chiù numirusi e fanno paura a tutti, anchi o stissi puvireddi e qui, essere poveri non è una scelta di comodo, è una conseguenza dell'essere. Le menzogne di questi suoi amici sono calunnie gratuite, fiori delle loro ataviche paure, male profondo e sono parole d’odio. Finita la sua oratoria, se ne ritornò verso quel piede e verso quella scarpa, che incerottò e si mise a spazzolare senza alcun entusiasmo. Ascoltando quel vecchio, come potevo non pensare a zio Peppino e alla sua cassetta di lustra-scarpe, che forse, partendo, aveva lasciato come testimone, a quel povero vecchio e dove li mettiamo i fasci di giornali del corriere del popolo e i biglietti della lotteria di San Paolo! Quel lustrascarpe mi aveva scompigliato i birilli, ed io non sapevo come fare per arrestare quell'emorragia di verità. Non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi che, il vecchio rivenne alla carica come se quel giorno, fosse una sua personale missione:

-Vuole un consiglio? Si tolga questa gente d'intorno, loro si credono migliori di lei, solo perché non vogliono accettare che i tempi sono cambiati. Questa gente offende la vita. In quanto a lei, continui a vestirsi di modestia e amore. Non sente come l'aria è viziata? Annusi bene il sedere di questa vita brasiliana e si lasci violare l'anima da questi ragazzini e metta qualche soldino nelle loro luride mani: un dollaro e un poco d'amore, il buon Dio glieli renderà. Si avvicini tranquillamente a loro, non mordono, sfiori le loro carni deformate dalle notti d'inverno passate all'acqua e al vento! Poi, come se le sue pile si fossero scaricate, partì verso il piede e la scarpa che incominciava a impazientirsi. Aveva ragione e anche se non ero stato mai in Brasile, sapevo e vedevo i servizi televisivi, dove gli squadroni della morte, di notte e solo la notte mietevano, con l'aiuto della luna, decine di quei bimbi a problema. Un militare brasiliano prende 800 cruzeros il mese, per cui se vuole arrotondare lo stipendio, deve uccidere i bambini che danno fastidio, come fanno i vigili di Catania con le multe che gli fanno a rotondare lo stipendio. Quelli come i miei cugini brasiliani, ogni sera, con la coscienza in pace, rientrano nelle loro case, sprangano le porte con rabbia ragionata, per proteggersi dalla gente della bidonville. E così, giorno e notte, le città dei ricchi e dei poveri, si lasciano sequestrare dal terrore che si accampa davanti ai semafori, per amministrare l'orrore, in notti senza regole. In Brasile, quelli che comandano come a Napoli, Bombj, Palermo,

Mosca, senza alcun diritto, usano la cosa pubblica per decidere del destino di milioni di persone. E’ così, tutto diventa Babilonia! Alla luce di quel che vedevo e sapevo, non avrei mai e poi mai, condiviso i propositi di Milthon e &. Il vecchio calabrese ed io, l'avevamo fatta grossa, ma avevamo ragione. In silenzio non religioso, andammo all'hotel Everest, che si trovava accanto al Palazzo Reale, sulla strada dove c'era ancora l'ospedale dove era nata la zia Giuseppina. Ai bordi della strada, lungo i marciapiedi, sguardi di ragazzi consumati dalle privazioni, mi si mostrarono come formiche cariche di 7 volte il loro peso. Quei bimbi, davano l'impressione di chiedere l'elemosina, quando invece, cercavano solo di vendersi come merce da sballo. Bancarelle piene di riproduzioni di cose senza importanza o inutili mi fecero ripensare al mercato delle pulci di Catania e Parigi. Era proprio vero, la miseria non aveva nazionalità, era universale e mercatini a poco prezzo, pure. Fernando notò la smorfia che mi si era impressa sulla bocca e mi ridisse:

- Credimi! Questi non sono brasiliani, sono solo paraguaiani!

E così, tra una menzogna e un dubbio, arrivammo all'hotel con l'amaro in bocca e l'imbarazzo nell’anima. Ci salutammo abbassando gli occhi perché sapevo di averla fatta grossa e mentre aspettavo le formalità e la chiave della camera, una voce risuonò nella hall dell'albergo:

-Questa sera tutti a casa di Fernando, ed io mi rasserenai e dissi a me stesso: E' andata!

Prendemmo l'ascensore, certi che non sarebbe stato il tipo di hotel che avremmo desiderato. La camera non era terribile e per il prezzo che pagammo mi ritenni truffato. Un condizionatore d'aria che faceva un rumore da matti, ci fece sentire come dentro alla cabina d'un camion. Ci affacciammo al balcone e guardammo verso il Rio Grande Do Sol, là dove forse sfociava la famosa cloaca, presso la quale Papà, un giorno, piccolo come un soldo di cacio, su di uno scoglio riportato e improvvisato, s'era messo a pescare il pesce. E mentre pensavo e guardavo le acque morte di quell'enorme fiume, riconobbi il molo dove, in sogno e in compagnia dei miei antenati, ero sbarcato. E rivissi quell'episodio e la quarantena, e tutti quanti. Era tutto come me l'aspettavo, e la pazienza che fino a quel momento m’era mancata, si trasformò in tolleranza e accettazione. Una cosa era certa; dovevo smettere di guardare tra le pieghe di una società fatta di rinunce e piuttosto, cercare di dare un senso a quella realtà che un senso non aveva. E me ne andai col pensiero, indietro nel tempo, per ritrovare l'infanzia di mio padre e dei suoi. Ero venuto con una sola idea, quella di scavare tra le macerie, che forse non avrei trovato. Cercai di calcare le impronte che non avevano lasciato, di toccare i rami che, forse, avevano spezzato. Non c'era più nessuna traccia dei miei, e i cugini non si ricordavano di mio nonno Cristofaro.

I loro nonni forse non amarono il mio. Come sarebbe stato lungo quel Natale brasiliano, dove il sole e il caldo ti facevano credere che quella stagione non poteva essere quella della nascita del Cristo. C'era una latitudine di sta coppula du ziu Vicenzu!, Latitudine che mi faceva sudare come un porco al tropico del capricorno. E intanto eravamo solamente alla vigilia di Santo-Stefano! Le ore si accompagnavano a quell'assurdo Natale brasiliano, che infracidiva quei miei ricordi indecifrabili. Ai cugini, mostrai le foto della mia gente e loro mi mostrarono le loro, e solo per caso, trovammo una foto di Michelangelo, zio di Milthon e cugino di mio padre. E mi ricordai che quando eravamo bimbi e papà ancora in vita, quel Michelangelo venne in Sicilia con la sua terza moglie. Abitavamo ancora in via del Teatro Massimo ed eravamo già poveri e sognavamo anche noi il Brasile. E quell'antenato del cugino Milthon era venuto in Sicilia per conoscere la terra dei suoi avi e ritrovare papà, per rivivere le loro infanzie; si misero a parlare in brasiliano e poi, Michelangelo se ne ritornò a Porto Alegre, ma nessuno di loro si ricordava di quell'episodio, perché quelli dell'età di mio padre, non avevano ritenuto opportuno di farglielo sapere. Loro e noi, non avevamo nessun ricordo in comune e più chiedevo e meno scoprivo e capivo, e il mio entusiasmo si spegneva e si accendeva a intermittenza, rendendomi triste.

Ero l'ambasciatore di un paese che conoscevano solo in parte o attraverso qualche canzone che il caro Fernando suonò e cantò su due piedi e che io, accompagnai al suono del mio scacciapensieri. Eppure, i loro nonni e il mio papà, da bimbi, avevano vissuto insieme, erano stati cugini e avevano affrontato le stesse difficoltà, Cristofaro, Michele e Filippo, insieme, avevano fatto il viaggio per venire in quella terra e per dieci anni interi avevano vissuto a contatto di gomito! Dio com'era duro, dover accettare quella mancanza di ricordi ancestrali. Non ricordavano, non riconoscevano o non

volevano sapere nulla? Le mie incessanti domande, non trovavano risposte e quello che c'era da sapere, non lo si poteva sapere, e come se non bastasse, non capivano il mio accanimento. Sicuramente era a causa dei nostri passati, se le nostre vite, non si erano potute incontrare con le loro. Mentre sto scrivendo, una cantante brasiliana d'origine napoletana, “canta Vurria, vurria turnà do te, Napule mia”... Tra una canzone e un'altra, cercai di comunicargli le mie emozioni, ma non ci riuscii. Raccontai del mio sogno e del viaggio nello spazio tempo su quell'ammasso di ferraglia, che in quel pazzo sogno, m'aveva fatto viaggiare con i loro nonni: Michele e Filippo, ma loro, per tutta risposta risero di me e pensarono che mi mancasse qualche venerdì. Il viaggio dei nostri avi non era stato come il mio, ed era durato oltre un mese su di una nave che traballava e imbarcava l'acqua del mare e che dopo quel viaggio, quella carretta, sarebbe andata allo sfascio. Più parlavo e più incasinavo il nostro dialogo che stava diventando un monologo privo di senso. Nonno mio e i suoi figli, ebbero vite che nemmeno il più filantropico degli assicuratori avrebbe concesso una polizza. Ebbero una brutta realtà, i loro pasti furono solo di verdure selvatiche e fichi d'india! Le terre che avevano lasciato in Sicilia e quelle che trovarono in Brasile, non furono generose con loro, e per nonno mio fu peggiori che per altri; a lui toccò di zappare quelle d’altri padroni e come se non bastasse, non amava la terra e non sapeva, non più, cosa avrebbe voluto fare. Ritorniamo e restiamo con i piedi ben fermi sul balcone della mia camera di hotel, e tralasciamo le ragioni per le quali andarono e poi tornarono in Sicilia. Continuai a guardare le acque torbide di quel fiume, che un giorno o l'altro, per colpa degli uomini, avrebbe potuto anche sparire. Giù, nella strada, odori di feci di bimbi tisici e quasi morenti, c'impedivano di camminare, così come fanno i cani a Parigi, ma in Francia, per troppa opulenza. Il Brasile, chissà com'era ai tempi di mio padre? Dov'era situata la loro casa e quella bottega di frutta e verdura? Cercai nel sogno di quella volta e soprattutto, nella realtà dei ricordi delle figlie di zia Giuseppina, che essendo state a Porto Alegre, prima di me, avevano fatto una piantina della probabile collocazione della loro tana, ma ci trovai un immobile recente e moderno. Cercai di rivivere quello che avevo vissuto nel mio delirante viaggio nel tempo, ma niente mi venne in aiuto. Lo stato civile, gli eredi del fotografo signor Calligaris e la stampa del tempo e del giorno della famosa mostra d’animali del 1901 che visionai, nella sede del corriere del popolo, non menzionava per nulla la storia delle tre grandi foto dei personaggi di quella famosa fiera del bestiame e cioè: il ritratto del presidente, quello del sindaco della città e Jose Cammarata, nel suo tipico costume di scugnizzo. Niente e nulla venne in mio soccorso e per non rischiare il ridicolo, smisi di cercare e decisi di comportarmi come un turista pieno di soldi. Quella terra che sfioravo col cuore in mano non aveva saputo diventare una nazione. Era tutta variegata e mischiata: i biondi non amavano i bruni e questi, odiavano i meticci, che a loro volta non amavano i negri che erano stati l'inizio della vita degli umani sulla terra, e in quel mondo non c'era giustizia sociale ma solo autolesionismo mentale che confondeva l'anima. Su quelle terre, l'amore e l'odio si davano la mano, baciandosi come dei pervertiti. Addio sogni di gloria di ogni nuova terra scoperta, addio buoni propositi! E ora? Cerchiamo di sfogliare qualche pagina di storia di questa terra che fece paura a mio nonno, come se fosse stato a passeggio alla Vucciaria di Palermo. Cinquecento anni d'esistenza: I più fortunati vanno a scuola, studiano, conseguono lauree in scienze confuse e imparano metodi comportamentali, senza rendersi conto che tutto ciò servirà a ben poca cosa. Spesso, l'analfabetismo vince sulla vera cultura e fa credere all'uomo che solo la sua è la vera cultura e invece non sa che la sua è uno dei tanti modelli per sbarcare il lunario. La vita, qui come altrove, si lascia deviare e l'ingiustizia s'installa. E pensare che a Porto Alegre è nato e vissuto un uomo speciale, ( Castro Alves), un poeta che cercò d'insegnare alla sua gente come amare la vita e come parlare alla schiuma del mare e alla schiuma flottante degli schiavi, ai quali raccontava l'importanza della cultura dell'anima. In quanto a me, nel silenzio della mia oasi, a San Michel, muto come un pesce, spesso grido:

Viva la vita che dovrebbe essere uguale per tutti, ma il tempo non permette di manomettere il meccanismo del suo tempo che purtroppo, anche quando scrivo, corre veloce come certi venti del nord.

Insisto e resisto, anche se non sento più le mie dita, e mentre tormento la tastiera dell'ordinatore, mi ricordo che Fernando è venuto a prenderci all'hotel e ci troviamo nella sua vettura. Stiamo

percorrendo una grande strada alberata che ci porterà nella sua casa; più avanziamo e più cambiano le persone che occupano i marciapiedi. Sembra un altro mondo, in una strada con palazzi che fanno il broncio, perché su i suoi marciapiedi sostano e poi si agitano giovani, che ci stuzzicano, bussano ai vetri delle vetture, sperando che ti fermi e gli compri qualcosa; nelle mani hanno grappoli d'uva appena matura, panieri e cassette piene di frutti acerbi e rubati nelle campagne di altra gente disperata come loro. Fanno segni e ti si mettono quasi sotto alle ruote per costringerti a fermarti e a barattare, e là, prima che Fernando dica qualcosa, mi giro e gli servo una frase, una delle loro:

-Lo so, non sono brasiliani, sono gente che vi arriva da un altro pianeta! La loro miseria non è colpa vostra, voi la subite e basta!

Non replicò, mentre quei figli di nessuno, fregandosene, ci spuntavano da tutte le parti, come gli indiani, quando attaccavano le diligenze dei falsi valori. A un semaforo, mentre aspettavamo che il verde ci liberasse da quella pressione, un bimbo di appena dieci anni, sorrise dalla mia parte, ed io gli aprii, e gli comprai una cassetta di pesche che sembravano di legno. Li presi e all'altro semaforo, l'offrii a una vecchia mamma incinta, che non aveva nulla da vendere, o forse sì, la sua creatura a venire. Un mese dopo, ce ne ritornammo da dov'eravamo venuti e tutti i cugini brasiliani, ci accompagnarono all'aeroporto, felici di vederci imbarcare e forse mai più ritornare.

A Parigi, avevo ancora il ristorante del viale Augusto Bianchi, ma ero solo il direttore e abitavamo in un appartamento vicino a Versailles. Felici e contenti, ritrovai la mia terra d'adozione che m'era più congeniale e non mi dava scossoni e mi faceva vivere in maniera quasi perfetta. Il mestiere di tessere le diverse tele della vita degli altri, mi rende nostalgico d’amori passati e presenti, oggi le mie nostalgie si chiamano: Matteo e Sergio, i miei due primi nipotini, per i quali, nutro un sentimento di atavica gelosia tranquilla che mi rende nemico triste e rassegnato dei loro giovani genitori, che sono mio figlio Davide e la sua compagna Natalie. Io, patetico e vecchio rottame umano, lentamente, un giorno sì e l’altro pure, inseguo quei bimbi e cerco d'imprimere nei loro teneri cuori, la mia immagine che a poco a poco, se ne va via. Mi resta poco da vivere e ora che abito a 500 Km da loro, giuro che se potessi, li ruberei e me li porterei via con me, in questo angolo di paradiso: loro, la mia donna ed io. Purtroppo non è possibile, sono piccoli e hanno bisogno della loro mamma. Amo il più piccolo dei due, più che l'altro, perché il Dio dei cristiani gli ha fatto un brutto regalo, lo stesso male di quel Davide che ho perduto in Germania e che se fosse sopravvissuto, come è stato per lui, oggi avrebbe uno zio vivo che si sarebbe chiamato Davide e un padre che forse si sarebbe chiamato Fabio o Vincenzo come il padre di suo nonno, che poi sarei io. Siamo sicuri che avete capito. Se è così, continuiamo a parlare di questi miei primi nipotini. Matteo è il più grande dei due, è un rubacuori e s'è gemellato con la mia donna che amorevolmente, prende in prestito e la fa sua, come un'amica del cuore. Se vi va di vederli, venite in campagna da noi, dove Matteo, prende la mia donna per la mano e insieme, corrono sull'erba dell'anima mia, felici di appartenermi, là! Io, marionetta duttile e docile, m'invento bambino e grido: uno, due, tre, soleie... come nel gioco delle belle statuine, per sorprendere i loro sorrisi sinceri. Sergio, tra un malore e l'altro, quando può, salta sulle mie cosce anchilosate dall'usura del tempo e guardandomi intrigato, mi tira la barba per vedere se il nonno ci s'è nascosto sotto e anche per vedere il mio vero volto. Dopo un po’, convinto che sono veramente io, scende e afferrandomi per mano mi costringe a seguirlo nel giardino dei suoi desideri, dove si strofina contro di me come un gatto quando fa le fusa e poi, guardandomi con la sua anima pura, mi porta ai confini della mia stanca vita, sorridendomi con gioia. Questi bimbi mi rendono pazzo di piacere, perché sono la mia vita che continua in loro e con loro. Sono anni che cerco di rapirli come in un sequestro anomalo, nel quale nessuno chiede riscatti. Rapirli per tenermeli qui, a San Michel, tra mare e terra, lontani dalla periferia di Parigi che non è più quella di una volta. L'impresa mi tenta e non è detto, che un giorno o l'altro, non lo faccia per essere il solo maestro di vita. Il loro solo e unico amico. Vorrei essere: carezze e mani tese da imprimere nei loro cuori come ricordi di soli e lune concrete, con tanta pace e tanto amore intorno. Quelle poche volte che il vecchio e i due bimbi s'incontrano, è l'apoteosi ed io, li lascio fare, ispezionare la barba, per mettere a nudo il mio volto screpolato che stancamente l’accompagnerà, per poco tempo ancora. Un volto deformato dalla tristezza per tutte le volte che non li vedo. Ora vengono tutti gli anni e stanno con noi tre settimane e tutto diventa rimpatrio e vacanze del cuore e

poi, quando ripartono, me ne ritorno davanti al mio ordinatore, con un occhio alla tastiera e l'altro a scrutare se le rondini partono o restano ancora nel mio giardino. I miei polpastrelli smaniano irrequieti sulle lettere della mia tastiera, segno che vogliono continuare a scrivere di altri ricordi. E mentre la vita mi si scrolla di dosso, fuori suona l'ora del crepuscolo, quando il sole abbandona la terra che si adombra e fa fresca la mia casa, e là, m'interrogo:

-Chissà se il mio cuore ha imparato?

-Chissà se la mia vita ha capito e s'è quietata? Una cosa è certa. Se, oggi, rivedessi la mia infanzia, cosi come la vidi quando ero bimbo, cadere nel pozzo senza fondo di quel lontano esistere, sono certo che non farei nulla per salvarla. Non muoverei nemmeno un dito, ma allora lo feci, perché inconsciamente, volevo continuare a sperare ed esistere. Ricordo che in quel periodo, mi accendevo e mi spegnevo come un interruttore impazzito, che non sa quel che vuole. Il cielo, senza il mio permesso, si colorava di rosso e accendeva i colori dell'arcobaleno, che sarebbe potuto scoppiarmi dentro al cuore come lo champagne dei poveri. Ed io? Se pur giovane, mi strattonai per dire a me stesso:

-basta, non restare immobile a guardare i fuochi fatui e inventati qualcosa di più e di meglio per trovare la fonte dell'energia della vita e mettiti al servizio della tua famiglia! Ma non accadde nulla di buono, perché spesso, mi ritrovavo solo, come una statua di sale che grondava lacrime e non mi facevano capire cosa accadeva.

Cercai d’evitare i grandi gesti di generosità pacchiani e maldestri;

Cercai d'impormi discipline e regole, ma mi scapparono dal cuore e dall'anima, perché nella mia testa non c'era ancora l'aria condizionata. Da giovane, vissi quasi sempre lontano da mio padre che era la sorgente e la fabbrica dei buoni sentimenti. Fra tutti i suoi figli, ero stato l'alunno meno attento nel cogliere i suoi insegnamenti. Papà nella vita di tutti i giorni faceva sbocciare i fiori della ragione intorno alla nostra miseria e con i suoi racconti, c'insegnava a scavalcare la siepe delle nostre angosce. Ci faceva sognare! Quanta magia e quante dolci bugie! La morta se l'è portato via e con lui s'è presa la sua magia, che mi manca da morire! Non mi resta altro che la nostalgia per un padre che sapeva di poesia. Piazza del duomo, papà aveva 57 anni ed io ne avevo sedici. Quel giorno, appoggiandosi sulla mia spalla, come se fossi il bastone della sua vita, mi obbligò a fare un alt, dicendomi:

-Guardando questa piazza e la via Etnea, cosa vedi?

-Vedo tante case, che sicuramente nascondono storie terribili che non ho conosciuto e che tu, ti farai il piacere di raccontarmi.

-Capisco che non sai nulla dei fantasmi che abitano e popolano i piani di questi immobili e non conosci le terribili tragedie che vi si consumarono!

-No papà! A quei tempi ero un bimbo acerbo e poi, non so nemmeno s'ero nato.

Eri nato! Eri piccolissimo e figlio della “Lupa”, e ora ti racconterò, andando a spasso per via Etnea e dintorni.

Questa piazza, nel tempo antico, fu l’Agorà e il centro dove tutti i mali della società d'allora, si trattarono. Certi giorni, in occasioni speciali, che vi si sparse il sangue di colpevoli e innocenti. Al tempo del Borbone, centinaia di giovani siciliani, uomini e donne, furono trucidati, per aver osato chiedere: pane e libertà!

L'elefante di pietra lavica c'era già e vedi caso, la chiesa anche, ed è là da sempre, ed è sempre al servizio del potere temporale e quel giorno, così come l'elefante, rimase indifferente, davanti a quella plebaglia che aveva osato tener testa ai padroni. Lo stato che non era al servizio del popolo regolò i conti ai miserabili di quel tempo. E prima che potesse dire qualcosa, gli toccai il braccio e chiesi venia ma lui, non mi lasciò parlare.

Eravamo in via Etna, davanti al numero civico 28 e ancora un altro alt, papà mi fece fermare e alzare gli occhi in direzione del terzo piano:

-Vedi lassù? Durante gli anni infami del fascismo, la moglie di un nostro compagno, ucciso dal regime, stringendosi al petto le sue due creature, si lasciò cadere, sfracellandosi su questo stesso marciapiede, dove se gratti, puoi trovarci ancora il sangue di quella famiglia di martiri.

Riprendemmo a camminare con la certezza che quella via crucis era appena cominciata. Sapevo già come si sarebbe terminata quella nostra macabra passeggiata.

-Guarda quell'appartamento del secondo piano al n° 30, da lì, un giovane padre disoccupato per non avere accettato d'iscriversi al partito fascista, si sparò un colpo di pistola alla tempia!

Là, al n° 32, una coppia di sfrattati che non avevano più soldi, né santi in seno a quel maledetto partito, si barricarono e si tolsero la vita con la stricnina, perché, ironia della sorte, gli avevano sospes a l'erogazione del gas.

-Papà ti prego, smettila! Le vite delle quali stai parlando son fatte di attimi passati che non esistono più, non ridono più, non piangono più, non vivono più. Sono storie arrugginite che nessuno leggerà mai. Non lo vuoi capire che non potrò essere mai come te che, nel tuo cuore e nella tua mente, hai tante camere d'ospite, dove c'infili dentro, quelli che ti chiedono aiuto, non dimenticando nessuno fuori da questo tuo mondo. Glielo dissi con le lacrime agli occhi, perché mi faceva star tanto male e non si rendeva conto che mi straziava il cuore. Non ero ancora la spugna che era diventato lui, che succhiava e assorbiva tutti i dolori e le delusioni degli altri.

-Caro papà, eri il nostro cantore preferito ma quel giorno, mi facesti il morale a pezzi, rovinandomi il piacere di quella passeggiata, dandomi la voglia di scappare ancora e ancora più lontano da te, verso il nulla che mi apparteneva, anche se non lo sapevo. Credimi, anch'io come te, se avessi potuto spostare le lancette all'ora del cambiamento e riuscire a trasformare i sorrisi sdentati della nostra povera gente di Sicilia in larghe e sane oasi di speranze, avrei agito come te. Ma non posso o non so come fare, perché la mia vita, è come la loro e tu come al solito non ti accorgi dei miei problemi. E lasciai la sua mano e non fui più il bastone della sua vita. L'ora di un nuovo esodo s'annunciava e le strade, stracolme di disoccupati come me, si preparavano a partire e papà non mi disse più; “Resta!”

Eravamo: venditori di sogni impossibili, mezze cazzuole, contadini senza terra, né salute, tanti manovali e qualche fannullone, e con noi, c’erano quelli che non potevano partire perché erano chiusi in carcere, con le teste rasate e il vestito a strisce, lontani dalle loro donne e dalle loro mamme. Giovani che non sapevano scrivere, né leggere e nemmeno piangere perché presto sarebbero diventati picciotti d'onore. Tutti i giorni che si consumavano, le passavamo a fare la fila in via dei Crociferi, negli uffici del lavoro, compiendo 18 anni, e aspettando che un bando apparisse nella bacheca e ci portasse l'America e la mecca del cinema, per rimpiazzare il mito di Rodolfo Valentino. In quanto a me, mi sarei contentato per fino della Tunisia e quando la Francia fu costretta a far rientrare tutta la sua gente d'oltre-mare e il presidente francese chiese ai paesi vicini di mandare gente per costruire le case, come al solito, dichiarammo d'essere tutti specialisti e tutti: muratori, carpentieri, stuccatori e piastrellisti. La disperazione era più grande della modestia che non trovava posto nelle nostre pance. Partirono perfino i venditori di palloncini e noccioline ed io, che non ero quello o quell’altro, non so perché, dissi: sono carpentiere, perché un giorno avevo preso un martello in mano. In Francia, faceva freddo e ti si gelavano i congliomberi, ed io, che non sopportavo quella temperatura, mi rovinai la salute, e una volta ottenuti i documenti di soggiorno e la cassa malattia che, in Sicilia, non avevo avuto mai, mi curai e visto che venivo dal mondo della ristorazione, non mi fu difficile trovare un posto da lavapiatti in un ristorante francese che mi avrebbe tenuto caldo e nutrito meglio. Imparai la cucina e la lingua. La sera, a delle ore impossibili, prendevo l'ultimo metrò e rientravo in una cameretta che prima di me, aveva visto passare diecine di poveri, che senza volerlo, avevano marcato le mura e il suolo, con graffiti e frasi, all'odore delle loro miserie.

“Veni, vidi, vici”

Venni dal caldo, Vidi e non ci capii nulla, e non vinsi perché non ero ancora maturo per dialogare con la realtà francese, e tre mesi dopo ritornai a Catania e al tram-tram di sempre. E ora smettiamo di scrivere e andiamo a letto. Un disco di Pavarotti mi ha accompagnato per oltre tre ore, rendendomi il lavoro meno penoso. Sono certo che se avessi voluto scrivere in un'altra maniera, avrei potuto dire che mio padre era stato un magnate del petrolio e che mio nonno era stato barone e che noi eravamo dei ragazzi senza problemi e che la vita ci aveva sorriso a piene mani. Il destino dei Cammarata o i limiti di alcuni di loro, l'hanno impedito. Quella notte dormii male, ma non so come,

fui svegliato dal rumore della televisione che credevo di aver spento. Aprii il cassetto del mio comodino e impugnai la mia pistola, misi un proiettile in canna e imitando il mio gatto, con passo felpato, entrai nel salone, dove constatai che la televisione e la luce erano accese. Le code del cane e della gatta, ai due lati della poltrona, scodinzolavano, mentre la voce di un nano grassottello e senza età cercava di zittire le mie bestie che non smettevano di ridere davanti alle scene di quei cartoni animati. Vuoi vedere che le mie bestie, la notte, con uno o più ospiti, se la scialacquano e organizzano orge televisive? Non li guardai nemmeno, raggiunsi il televisore e lo spensi. Apriti cielo!

-Riaccendi il televisore e se hai sonno, ritorna a dormire e non rompere!

Li guardai meravigliato e se non mi fossi realmente incazzato, son sicuro che mi sarei fatto una grassa risata, ma c'era poco da ridere e quel piccolo mostro non era certo un peluche e aveva una testa pensante e una lingua tagliente. Come aveva fatto a entrare e da dove arrivava? Una spiegazione s'imponeva, ma il bimbo non mi diede il tempo nemmeno di aprire la bocca e guardandomi fisso negli occhi, mi disse:

-Stupido! Abbassa quell'arma, potresti spararti un colpo nel piede, non credo che tu sappia adoperarla. Dovevo rispondere e parare quell'attacco verbale e cattivo? O dovevo, prima di tutto, capire per quale ragione il mio cane l'aveva lasciato entrare, e pensare che a volte abbaiava anche quando non ce n’era bisogno. E fu a lui, che mi rivolsi, in malo modo:

-Figlio di una cagna di strada e sempre in calore, bastardo di razza indefinibile, arrivato a casa mia per caso e per pietà umana. Non solo non hai abbaiato e per di più, con questo mostriciattolo, ci vai a nozze e gli lecchi il volto, come se fosse un membro della famiglia. Lo sai o no, cosa ci hai fatto rischiare? Ammettiamo che invece d'essere un nanetto come questo, fosse stato un grosso e alto criminale, come l'ha mettevamo? Noi saremmo morti e tu non avresti più una cuccia e una ciotola di zuppa; non rispondi? Ti sei persa la lingua? E non dimentichiamoci le coccole e il parrucchiere una volta il mese. Mangia pane a sbafo e a tradimento, cane ingrato, cane da televisione e amico dell'intruso. Meriteresti un calcio in culo! Posso capire il gatto, ma tu! Fino ad oggi sei stato un cane, quasi per bene, abbaiando anche quando non ce n'era bisogno. Sei un figlio di nessuno!

Il cane restò di marmo guardandomi stoicamente e lasciandomi parlare senza interrompermi, poi chiese la parola e mi abbaiò qualcosa di terribile:

-Prima di parlare alla luna in questo modo, rifletti bene e ascoltami: sappi che questo ragazzino sei tu a dieci anni e dice che l'hai abbandonato, buttandolo in un cassonetto dei ritagli di carta della stamperia dei fratelli Costantino, là in fondo al cortile del n° 15 della via Teatro Massimo. Cosa mi stava succedendo. Sognavo o ero desto?

-S'è vero, come ha fatto ad arrivare fin qui?

-E lo chiedi a me? Sei grande e vaccinato, non abbaiare più forte di me e chiedi spiegazioni a lui, tanto, pare che siete la stessa persona e queste storie, francamente mi spiazzano. Se hai il coraggio necessario, fammi vedere come te la cavi!

-Lupo! Non abbaiare sciocchezze! Non crederai a quello che ti ha raccontato? Ti sembra possibile che un ateo come me, possa accettare discorsi come questo, che sanno di truffa maldestra e organizzata per spillarmi qualche soldo e qualche lacrimuccia? Sicuramente, come mi accade spesso, sto sognando di te che sei un cane che parla con me e che mi rompe le scatole come fai spesso, quando abbai alle stelle!

Sentimi bene e credimi, anche se tutto ciò potrebbe accadere solo in qualche manicomio del mondo, per me, questo mostriciattolo è un impostore! E tu, sei il suo complice, anche se non capisco che cosa ci guadagni e come fai per parlare come un umano!

Lupo, cane bastardo, ma non cretino, volle ritornare sull'argomento, che spesso mi aveva sentito fare sull'essere, e non essere la stessa cosa e grugnì, dicendomi pressappoco così:

-Parlare con te è come dare un savoiardo a un asino! E mentre lui abbaiava, io guardavo il gatto che faceva le fuse a un bimbo, che incominciava a ricordarmi un triste periodo della mia infanzia. Mi schiarii la gola, per darmi un tono burbero e parlare a quel personaggio fuori d'ogni realtà possibile:

Chi sei, da dove vieni e chi ti manda?

-Calma monsieur Cammarata! Cittadino del mondo e scrittore della domenica! Sei sicuro di non

conoscermi? No? Non ti ricordo nessuno?

Non temere, non son un bastardo dimenticato nel letto di una delle tue tante donne, sedotte con l'inganno e le promesse di non so cosa. Intanto sono qui e tu non puoi far nulla per rispedirmi al mittente. Sembravamo nella sceneggiata dello zappatore, mancava solo Mario Merola: “Addinocchiati e vasami sti Mmani!” Ma mi disse:

-Potrei dirti che mi manda Rai 3, ma tu non sei un cretino e sai bene che sono te, che ti piaccia o no! Te che eri l'incarnazione di Peter Pan che non aveva saputo tagliare il cordone ombelicale dalla sua infanzia. Ti piacerebbe sapere come ho fatto per ritrovarti? Non mi è stato impossibile, anche se mi ci sono voluti tanti anni. Tu sei stato sempre maldestro e hai lasciato troppi cadaveri sul tuo cammino e chissà che non l'hai fatto di proposito, perché a un certo momento della tua vita hai desiderato fare l'analisi del nostro parallelismo e scoprire se era vero, che t'eri perso per strada.

Non è un caso, né per caso, se mi trovo qui in questa casa, che non è la tua e che appartiene all'ultima delle tue vittime eccellenti. 64 anni sono passati da quel giorno che sei scappato al mio assiduo controllo. Ti sapevo fragile e perciò, non ti mollavo d'un passo, perché sapevo che alla prima occasione saresti scappato via dalla nostra realtà comune. Avevamo 15 anni appena, ma io, a 10 anni, per colpa tua, avevo smesso di crescere; perché mi vergognavo di te e delle tue malefatte. E tu, in un momento di distrazione, mi lasciasti su i gradini della casa di via del Teatro Massimo senza un addio, senza un perché. Da quel giorno sono passati 60 anni. Echi lontani mi giungevano un po’ dappertutto, chi diceva che eri in Toscana e chi invece diceva che eri in Francia e poi in America, in Belgio e un giorno, con i tuoi due bambini, ti vidi arrivare e fermarti al n° 17 della nostra via. Eri tu, non potevo sbagliarmi, perché eri me! T’immaginai felice e ti lasciai andare per la tua strada. Poi, ti vidi parlare a quell'artigiano che in quei giorni abitava la nostra vecchia tana dove avevamo vissuto e sofferto, con fasi alterne, le nostre giovani vite. Visitasti quel luogo e poi te ne ritornasti a Parigi per continuare a far sbandare la tua vita, come d'abitudine.”

-Eri tu quel ragazzino (?!) Avrei dovuto capire!

Mi ricordo di quel giorno in via del teatro massimo, quando entrai nella nostra vecchia casa e sentii come se qualcuno stesse per prendermi la mano e accompagnandosi a me mi s'appoggiava sul cuore, quasi a soffocarmi.

- Si! Ero io e tu mi scostasti da te e dopo la visita, volasti via! Ora sono qui, a casa tua... a San Michel, per chiederti spiegazioni, che sicuramente non saprai trovare perché come al solito mentirai e inventerai scuse campate in aria. Non ci speravo più e mi ero messo il cuore in pace e ora, visto che, bene o male, siamo qui dove vegeti e trascini quel che resta di una vita insensata, perché non cerchiamo di parlare e capire le ragioni di quegli errori: perché scappavi da casa? Quel giorno era il 4 settembre del 1950, avevi 15 anni, ma io da 5 avevo smesso di crescere, perché era come se tu avessi gettato, dietro alle tue spalle la parte più saggia di noi due. Senza di me, saresti diventato più instabile e insicuro. Ti vidi alzare il culo e nient’altro. Immaginai che volessi andare sul lungo mare di Catania e ti lasciai fare, ma ti seguii lo stesso, mentre ti sedevi su quei banchi di pietra lavica di una passeggiata a mare che non era il tuo pane quotidiano. Ti vidi piangere, ma non dissi nulla. Avrei dovuto? Se l'avessi fatto, sono certo che non mi avresti dato ascolto. Da 5 anni, mi avevi scartato come una mela marcia, ed io, per colpa tua, avevo deciso di non intervenire più. Io, il tuo grillo parlante d'un tempo, ti guardai in silenzio e ti lasciai prendere, ancora un altro treno. Quella volta, non so come avevi fatto, né per quale magia, avevi le tasche piene di soldi e forse era per questo che piangevi e scappavi. Eri convinto d’averla fatta franca, ma non fu così e qualche mese dopo, incurante delle conseguenze, ritornasti e nostro padre ti perdonò e rimborsò quella somma della quale ti eri appropriato. Avrei tante cose da rimproverarti, ma è meglio che smetto di rinfacciarti questo e tanti altri episodi della tua vita che, forse, non vorresti rivivere. Oggi, se sono qui non è per gettarti la croce addosso, ma per sapere di quel viaggio, raccontami!

-Era la prima volta della mia giovane vita, che possedevo una tale somma e potevo pagarmi un biglietto fino a Torino senza che un controllore mi dicesse:( scendi e ritorna da dove sei venuto!) Alla stazione di Porta Nuova scesi e la prima cosa che feci fu quella di comprarmi un giaccone

imbottito e trovare una modesta pensione, in via Andrea Doria, chiesi una camera e dopo qualche giorno passato a bighellonare, cercai un lavoro, senza tanta convinzione, perché credevo che quel denaro sarebbe durato un'eternità. Tutti i denari del mondo, anche la più grossa somma ha una durata e così, un giorno mi ritrovai senza il becco di un quattrino. Decisi allora di attraversare il confine e andare in Francia. Partii senza aver l’eta né il passaporto; a 5 km dalla frontiera, all'ora del crepuscolo, scesi e affrontai la montagna del salto di tenda, incamminandomi verso quello che credevo essere il valico, la siepe delle mie angosce, il salto da una vita buia, alla strada per conquistare il paese dei diritti dell'uomo. Camminai speranzoso e certo che, passo dopo passo, affondando le mie scarpe della domenica in mezzo alla neve, avrei sentito parlare in francese, ma più camminavo e più mi perdevo, e intanto incominciava a fare notte e la nebbia copriva ogni cosa, perfino gli alberi che mi prendevo in faccia come tronchi di Natale, mi facevano sentire perso. Camminavo come un cieco, mentre la luna non riusciva a farmi scansare i pericoli che mi si paravano davanti; la nebbia, inesorabilmente, m’avvolgeva e scombinava i passi. I muggiti di più vacche e l'odore di una stalla, mi attirarono e mi fecero sbattere il muso sulla porta, che non era chiusa a chiave. Entrai, certo di prendermi qualche zoccolo sulle natiche, cosa che non accadde perché, a volte, le bestie sono più umane degli umani e poi, quelle erano torinese e non maliziose e scafate come le siciliane. Tastando, trovai due belle mammelle di vacca e mi ci buttai dentro e desinai. Come un vitello impaurito mi lasciai scaldare e aspettai che spuntasse l'alba. E venne il mattino e la porta si spalancò, e un vecchio piemontese mi scosse paternamente, chiedendomi:

-Che razza di vitello sei? A giorni questa mucca dovrebbe partorire, ma non un ragazzo, e cavolo, che scherzi sono questi!

Capii che ero ancora in Italia e che non avevo superato la linea di demarcazione. L'uomo era accompagnato dalla figlia e da un bambino; mi fecero entrare nella loro casa, dove l'odore del formaggio, impestava l'aria e t'invitava a dire: ho fame! Loro capirono che il mio era stato un tentativo per attraversare la frontiera; fecero asciugare i miei indumenti davanti al caminetto, mi rimpinzarono di pane, formaggio e latte, e poi, mi spiegarono come fare per ritornare a Torino. Poi sai tutto, perché due mesi dopo feci ritorno a Catania, promettendomi che avrei smesso di commettere altri guai.

-E in Toscana?

-1965-1975: quella sarebbe potuta essere la più bella pagina della mia vita, ma come al solito, l'immaturità e l'arroganza mi fecero fare e dire cose che mi impedirono di realizzare tutti quei progetti che avevo in mente. La Toscana mi prese gli anni più virili e belli, e 10 anni dopo ritornai a Catania per consumare nella noia, tre anni senza glorie, né gioie. Guerriero stanco, ebbi un sussulto d'orgoglio e me ne andai in Germania, con la madre dei miei futuri figli, per cercare di dare a loro, tutto quello che mio padre non aveva potuto, o forse, saputo dare. Sicuramente, tu grillo parlante, tu piccolo Arturo, tu che questa notte stai davanti a me e chiedi spiegazioni, tu che sai che ho pagato un prezzo salato per i miei peccati e spesso, anche per quelli degli altri, cerca di capire. T'interessa sapere, quando e come è cambiata la mia vita?

-Certo che m'interessa, ma sbrigati a raccontare, perché vorrei ritornarmene in Sicilia, dove mi accomodo meglio e di più!

-Era il mese di gennaio del 1978 la mia vita sembrava conclusa, perché venivo di seppellire il mio piccolo Davide, nel cimitero di Amburgo. Il cielo mi era caduto sulla testa e tutti i miei buoni propositi e il rispetto per gli altri, erano andati a farsi fottere. Una corazza di refrattarietà incominciò a coprire la mia anima che non era più come prima. Nell'agosto del 1978, arrivai a Parigi come un uomo qualunque, alla ricerca dell'araba Fenice e là, la fortuna o il caso, mi fece prendere possesso di un ristorante che avrei chiamato ( Sole d'Italia). Nacque un altro angelo, un altro Davide che non seppellii come il primo e mi crebbe bello e gentile, e fece cambiare la mia vita. Gli affari mi andavano bene e anche se non amavo più la madre del mio bimbo, gli restavo accanto per vedere se fosse possibile ricucire le nostre vite. 24 marzo 1980 nasce Fabio, 2 a 0 contro la morte e palla al centro. Genio, sregolatezza, incoerenze e fatalità cercate o no, mi fecero camminare di lato come i granchi ma stranamente, vinsi quasi tutte le mie battaglie.

Alla nascita del mio primo figlio, morì mio padre e il mio bimbo; alla nascita del terzo, morì mia

madre. Stati d'animo pieni di gioie e di grandi dolori devastarono e fiorirono la mia eterna solitudine. Tutto il male e il bene di questo mondo m'insegnarono che ogni giorno che arriva, può essere quello buono, ed essere anche una fetta di vita in mezzo a tanto pane bianco, quasi tra sogno e realtà, da impiegare con la volontà dell’anima, per non fare il barbone, per assaporare e poi, attraversare il tunnel, che prima o poi, ti lascia conquistare il sole e poi la luna e ancora il sole.

Non avrei accettato più altre realtà e la mia caparbietà mi avrebbe aiutato a superare gli ostacoli che si soprapponevano tra me e una possibile vita. Gli uomini indecisi sono come mattini che non riescono ad alzarsi, che non fanno mai giorno e non lasciano sbocciare i fiori delle buone occasioni. Per fortuna la vita ci dà i poeti che servono per tutti i giorni, per stemperare lo spirito umano che calca le scene del mondo, dove si svolgono opere d'idee belle e brutte, che scatenano nei cuori sensibili, lampi di vita in pace o in tempesta. Pochi sono quelli che sanno imitare gli uccelli, cantare fin dal mattino, perdonare e curare la natura che è un libro aperto, dove ciascuno di noi può trovare la sua pagina e scrivere frasi sublimali. E oggi, il mio giardino n'è un esempio vivente e costante. Vecchi sono coloro che non sperano più nella vita, ed io, a tal proposito, per essere libero e meno acido, ho amato perfino i miei nemici. Spesso mi sono chiesto se esistono nazioni che non hanno generato mostri! Molti son quelli che vi diranno:

“Noi no!” E lo diranno con fine ipocrisia:

-Noi? Generiamo solo generosità, calore umano e valori! Mentono, perché fa comodo a tanti.

Da una cocente sconfitta, può nascere una vittoria?

Il buon uso del denaro può dare la felicità? Certo che sì!

Solo i messaggi dei vecchi saggi possono cambiare la trivialità degli umani.

La natura?

Un teatro di legumi, dove ognuno di noi, bene o male, improvvisa i mille volti della generosità del cuore, che spesso è taccagna e mediocre. Lo spirito di osservazione sterile è come una pozza di fango stagnante.

La vita?

Una pagina bene o male, riempita di assenze non giustificate, una pagina da girare, che a volte vorremmo dimenticare.

E ora, lasciatemi fare una premessa: Alcune di queste pagine vengono e se ne vanno, dalla lettura dei tanti testi, che da mani a sera divoro e faccio miei; decorticandoli e limandoli, e voi, per pietà, non chiamatemi scopiazzatore. Alla fine di quell'ultimo confronto, il piccolo Arturo, smise di giudicarmi e d'incrociare la sua dialettica con la mia. C'eravamo detto tutto quello che c'era da dire, senza remore, né stati d'animo. Gli chiesi scusa e lui capì che ero cambiato. Poi, contento e beato, se ne andò dalla mia vita e dalla sua, per lasciarmi in pace come a volte, fanno i miei rimorsi!

Ora mi resta solo il tempo d'invecchiare e di lasciar passare le ombre che fanno invecchiare anche il tempo delle passioni assopite, che vorrebbero tornare a dischiudersi a ogni primavera, come s'avessero eternamente 20 anni. Quante speranze vane e quante illusioni al cuor? Dolce età che non sa, cosa vuol dalla vita!

Brindo ai miei e ai vostri 20 anni, sperando che, per vostra fortuna, non siano stati come quelli miei.

Sono arrivato alla fine: io, io, io e gli altri, tutti quei personaggi che mi sono tirato dietro, arrancando sulla strada di Girgentu o di Damasco? Ho mischiato le carte; ho interrogato il mio passato con ferocia e a volte, anche con amore e ora cosa mi resta? Una manciata di lacrime salatissime, rubate al mar mediterraneo. Una grappa e mezzo sigaro toscano, i primi gelsi che sono riuscito a far crescere nel mio giardino e via col tango verso un sentiero irreale che, solo nella morte e con la morte potrebbero riportarmi sulla collina di mia madre che, sempre m'aspetta, per stringermi sul suo cuore di mamma. Mezzo singulto silenzioso e timido, per dirvi che ho amato, odiato e perdonato tanta gente. Quante foto nei miei album? Tante! Quanti i morti? Tanti! Vorrei allungare il tempo dell'invecchiare, per posdatare certi appuntamenti nella terra fredda, con i vermi che non hanno un'anima, né un cuore e nemmeno sentimenti intelligenti. Viva la vita, che mi ha dato tanto e abbasso la morte che cerca e insiste per presentarmi il conto. Oggi è il 12 luglio del

2009, è domenica e non taglierò, la testa a Minica, perché Minica non c'è, e perché non ho più 10 anni come il piccolo Arturo, che mi ha perdonato, e ora perdonatemi anche voi e buonanotte ai suonatori.

Quale maniera migliore di finire se non con un canto siciliano:

“ Vitti n'a crozza supra a nu cantuni,” e cu sta crozza mi misi a parrari. Idda m'arrispunniu cu n'gran duluri: “moriri senza n'toccu di campani.” Trallalalleru, trallalala.... Si ni eru, si ni eru li me annni.. Si ni eru, si ni eru non sacciu unni? Ora ca sugnu arrivato a uttant'anni, chiamo la crozza e nuddu m'arrispunni................ Cunsatimi ccu ciuri lu me letto, pirchì a la fini gia sugnu arridduttu! Vinni lu iornu di lu me rizzettu.. lassu stu beddu munno( mondo) e lassu tutto. ......

La spuma della risacca                                        [torna all'indice]

ca

Desideravo dar corpo di libro a questa « risacca » che mi sommergeva…dandomi anche alla testa con la sua”spuma”.

Esitavo, non avendo mai dato alle stampe né i miei ricordi e nemmeno i miei pensieri.

La mia Dominique, amandomi, mi esortava.

L’intellettuale mio fratello grande, non stimandomi…”profeta”, mi scoraggiava.

Uno scrittore- da me interpellato, liberamente indifferente, leggendomi per caso, mi ha incoraggiato:

Una, cento, mille voci di bimbi

Un bimbo viene al mondo, portando con se un messaggio di paura ancestrale, tra gli ghiri - ghiri e i sorrisi, capta la nostra voce che non è sempre un messaggio d’amore. Risponde come può ai nostri grugniti, col più puro dei suoi sorrisi. Cresce e i suoni si fanno sempre più comprensibili e belli. La sua voce, giorno dopo giorno, si organizza e sono le sue prime parole: Mamma, papà, ed è l’inizio del primo romanzo d’amore di un dialogo che non dovrebbe mai cessare, mentre cerchi di scoprire a cosa e a chi rassomiglia. Ti sforzi di dare un senso alla sua vita che non sarà mai la tua e non ti accorgi che gliela complichi. Arriva il giorno che la sua voce cambia, è diventato grande, la voce è quella di uno straniero, il tempo ti ha fatto vecchio, stanco e tu, non hai saputo tenere il passo di tuo figlio. E’ diventato un uomo e spesso, a torto, crede di poter fare a meno dei tuoi consigli. La rabbia ti assale, perché ti senti inutile; il suo primo vagito è dimenticato, l’eco di quel bisbigliare di bimbo è lontano, è in fondo alla sua anima e tu non puoi sentirlo più. Ti senti piccolo. Ti interroghi, cerchi nel profondo della tua memoria, di ricordarti come era la tua infanzia, per confrontarla alla sua. Parole, parole… Nient’altro che parole, mentre sperduto tra le transumanze umane, cerchi il silenzio che non trovi più. E poi, a cosa ci servirebbe un mondo senza rumori? Oggi che sono vecchio e lui un uomo, penso a una canzone che ho scritto tanto tempo fa, per loro, la mia famiglia, quella generata da me e dalla mia donna d’un tempo; com’era bella quella canzone, era un inno alla vita e all’amore familiare. Ricordo che, accanto ai miei figli, diventavo bambino anch’io, e insieme, nella mia Mercedes blu, la cantavamo sulle strade di Francia e di Navarra, come Renato Carosone e la sua banda. Le loro vocine si accompagnavano all’unisono, con la mia. Quell’inno non esiste più, è morto e loro non lo cantano, né al mio fianco, né da soli e nemmeno ai loro figli. Cantano rap di periferia. Il film “la vita è bella” di Benigni è solo un racconto per altri. Nella vita di ognuno di noi, ogni cosa dovrebbe avere una ragione, una stagione e invece, le stagioni degli uomini, non hanno più le buone ragioni, è Babilonia, è un mondo di contraddizioni. Lungo il cammino della mia vita, ho criptato e nascosto le mie passioni passate e future, che ho sempre nel cuore e nella mente e che potrei raccontare, solamente se falsassi le verità, come fan certi scrittori, quando fingono di scrivere le storie degli altri. Tutti o quasi corriamo dietro alla luce della vita, tendiamo le mani verso il cielo, dove ci han fatto credere che abita Dio, che forse non esiste. Conosco solo miracoli laici che sperimento tutte le notti, sdraiato sul letto, la mia pelle addossata a quella della mia compagna; credo in lei sola e son contento, felice di quello che la mia vita atea mi accorda. I fedeli di tutte le divinità di questo mondo, aspettano un segno dal cielo, mentre sui campi di battaglia muoiono i nostri giovani figli e madri, e spose piangono con rabbia i loro uomini. Gli uomini, con Dio o senza, se sopravvivono alle guerre, si perdono nell’illegalità. Ho un ricordo di quando, bimbo, ero alto come un soldo di cacio e non avevo l’età, né il tempo per occuparmi della morte, sulla strada per la scuola, mi fermavo davanti al negozio dell’animaleria, appoggiavo il naso sulla vetrina per godere del canto degli uccelli e la visione di un grande acquario di pesci del Giappone. Guardavo, sognavo e volavo con la fantasia di un bambino: mi trasformavo nel personaggio di Colapesce, per scendere nelle profondità degli oceani e là, giocare a fare il delfino gentile e poi, uscire dall’acqua e cavalcare quel mondo mostruoso nel quale, Dio o il caso, mi avevano messo. Ora, a conti fatti, devo dire che il mio destino non è stato dei migliori, ma nemmeno il peggiore, ma sono qui, su questa terra che mi dà quel che può e continuo, nonostante gli anni, a fabbricare sogni come se fossi sempre il bimbo di allora. In definitiva, la vita m’è entrata dentro come alla roulette Russa, un colpo e via…

La siepe

La Sicilia si svuota della sua gioventù! Solo i vecchi troppo vecchi e i pazzi troppo pazzi, ci credono ancora. Terra strana e complessa dove l’egoismo deforma le bocche degli uomini. Giovanissimo, spesso l’abbandonavo, ma vi ritornavo sempre. E' stata ed è una terra che mi ha fatto soffrire tanto, comportandosi come la peggiore amante della mia vita. Avevo quattordici anni quando gli gridai a brutto muso: -Addio, è l’ora, il tempo è arrivato, lasciamoci così, non abbiamo più nulla da dirci. Addio terra ingrata, dove son nato, figlio d’una famiglia che si scuciva, nutrendomi d’indifferenza e facendomi sentire bastardo e vittima predestinata d’una storia insensata. Orfano senza volerlo, di un nucleo che m’amava a modo suo d’un amore triste. Spesso, l’eco di una memoria ancestrale ritornava per accompagnare i miei mille gridi di paura. Ed io scappavo, perché non conoscevo altri modi per attivare la vita che stentava in me. Senza riflettere, privo di buon senso, prendevo la strada del caos, colpevole di non aver saputo fare e dire. Scappavo perché speravo di capire le mie paure. Spesso, saltavo la siepe delle mie angosce e ogni volta, quelle fughe mi rimpicciolivano. E quando ritornavo, dicevo che era stato per cercare un’identità e riuscire a separare l’aria in due parti ben distinte: la buona dalla cattiva. Poi, come se nulla fosse accaduto, mi sistemavo in un angolo, in seno alla famiglia, senza sapere se facessi bene. Ero com'ero, un ragazzino troppo inesperto, che perdeva le briciole della sua anima lungo i binari della sua giovane e inesperta esistenza. Qualche mese di calma apparente, che poteva rassomigliare al riposo d’un piccolo guerriero, ed ecco che le mie paure, bussavano di nuovo alla porta. Cavia duttile e sottomessa, scavalcavo la siepe, sempre allo stesso posto, dove il mio passaggio precedente aveva spezzato qualche ramo d'incerta follia. Riprendevo il mio sconnesso cammino, per incontrare storie d’uomini e donne che come me, si perdevano, prigionieri dei loro cattivi pensieri che avrebbero voluto gettare alle ortiche. Alla veglia d’ogni fuga, il terrore m’assaliva. Scariche elettriche percorrevano il mio corpo, parole prive di senso mi facevano delirare e l’indomani, nonostante una notte insonne, andavo sempre più lontano, verso l’ignoto. Ditemi s'ero pazzo, a cercare di dare un senso d’umanità alla mia giovane persona. Nessuno in seno alla mia famiglia capiva le ragioni che mi spingevano ad abbandonarli. Per loro non ero altro che l’anatroccolo zoppo che, come il figlio virtuale del postino, va e viene, portando con sé il corriere di non so chi!

“Tra la mia casa e il mare: ”

Dalla mia casa al mare ci sono 500 passi d'un metro ciascuno, che consumo andando e venendo da quella vastità d'acqua salata che bagna le coste dell'atlantico. Lo scirocco africano non ha mai abitato qui dove respiro meglio che sull'isola della mia infanzia. Nella Sicilia d'oggi c'è l'abbandono triste di sempre e non c'è più la speranza dei miei padri.

In compenso resta ancora qualche pastore che, per fame, diventa bandito e poi mafioso. Sulla mia antica terra di Sicilia vivono i sequestrati della quotidiana ignoranza, che nonostante la globalizzazione, restano immobili e distanti. In Sicilia, ci sono ancora i mercati d'un tempo, con le bancarelle e con tutti intorno, uomini e donne che vanno e vengono come formiche che cercano molliche di pane. A Catania, ci sono sempre la discesa della marina e il parco dei (varaghi=sbadigli), i pensionati ci passano le loro giornate a sfogliare i loro pensieri e i loro ricordi, e le loro storie le raccontano grosse e grasse. Quando percorro i miei 500 passi francesi, non posso fare a meno di pensare a come sono diversi tra di loro questi due percorsi: quello francese e quello siciliano. Alla fine dei 500 passi francesi c'è il mare calmo e pulito dell'oceano atlantico. Alla fine dei 500 passi siciliani c'è il mare delle tensioni, c'è la spiaggia libera, sporca e aperta a tutti gli imprevisti. La logica dei senza Dio come me, mi spinge, mentalmente, a misurare le passioni, la morte e la vita che mi resta da vivere: corta e incazzata. I villaggi dell'entro-terra hanno case che chiudono le persiane all'occhio attento dei visitatori. I cattivi pensieri d'un tempo che furono non vivono più nella mia testa, che s'è fatta improvvisamente vecchia, improvvisamente stanca e che pensa sempre a chi non è scappato in tempo, come ho fatto io. I più ribelli siamo stati noi: quelli che levammo il sedere dall'immobilismo per rifarci una nuova vita. A Catania, ho lasciato il mio cuore, i miei cadaveri eccellenti che sono stati: mia madre e mio padre, mentre mio figlio, fattosi cenere, l'ho lasciato ad Amburgo; in Toscana, ho lasciato gli anni più belli e possibili; in America le mie illusioni e tutto il mio disappunto; in Francia non ci ho lasciato nulla, perché qui ho trovato il benessere e tutto quello che non ebbi mai. E' qui che continuo a vivere in pace con la mia anima ribelle. In Sicilia non c’è verità che tenga, solo sussurri di dubbi e disagi. E quando penso a te Sicilia, stringo gli occhi come facevano le persiane delle tue case chiuse, per te che sei una terra immobile e prostituta assisa, piango di rabbia. Non sei stata mai una terra facile. Non mi raccontasti mai le ansie e le violenze del tuo passato, ma me li facesti vivere terribilmente. Nelle tue strade, di giorno e di notte, la vita e la morte s'inseguono ancora e si danno il tu.

L'aldilà e l'aldiquà.

Questa storia dovrebbe ricordare a tanti, certe sedute nelle quali, insieme, parlammo con gli spiriti.

Orbetello: millenovecentosettantacinque, avevo 40 anni ed ero proprietario del bar (Carlos-Primero), situato al centro del villaggio. Orbetello e i suoi abitanti non erano la stessa cosa e non credo che oggi, la situazione sia cambiata. La storia del paese la si deve al popolo etrusco; gli abitanti, quelli che conobbi io, erano un’altra cosa: arroganti e indolenti come certa gente della mia antica terra di Sicilia, insieme, noi e loro avevamo subìto la dominazione spagnola. Siamo stati figli di quella dannata genia che fu il nostro comune padrone; ci avevano insegnato le peggiori cose e soprattutto il gusto per ogni forma di gioco d’azzardo. Le carte da scopa e da briscola, sui tavoli della mia sala giochi scorrevano e scatenavano tenzoni ed emozioni senza limiti. Col tempo scoprirono il poker e le sue conseguenze. La popolazione, si componeva, in gran parte, di pescatori rozzi e ignoranti, che invadevano il locale ma non riempivano il mio cassetto; tutti i giorni, dalle dieci del mattino a mezzanotte, quella strana fauna umana di ippopotami svogliati, come se mi fosse stata imposta dal destino, riempiva di noia le mie sedie e per un non niente, scatenavano baruffe furibonde, e per non pagare gli avversari, inventavano mille scuse e poi, dicevano, segnami questo caffè domani lo pago e intanto sparivano per una settimana, questa era certa gente di Maremma che non aveva nulla a che vedere col pastore maremmano che è una bestia magnifica, fedele e riconoscente. Con questo non voglio dire che non avevo amici. Tre, buoni e adorabili, erano: i Presenti, i Cerulli e un tappezziere palermitano che, stranamente, non era un mafioso, ma un gran lavoratore e un onesto padre di famiglia. Quell’anno, il piccolo villaggio di pescatori fu scosso da un grande avvenimento; da due settimane, sullo schermo dell'unico cinema del paese si proiettava il film “l’esorcista”; in giro non si parlava d’altro. Una sera, alcuni giovani ne discutevano davanti a un buon caffè, appoggiati al bancone del mio bar. Volli mischiarmi alla conversazione e ridendo dissi:

il diavolo? Non esiste!

Il più giovane di loro mi rispose:

- Se lei sapesse la paura che ci siamo presi! Perché non va a vederlo? Mi creda, durante la proiezione ho avuto l’impressione che il diavolo mi stava seduto accanto e m’afferrava la mano. Continui pure a ridere. Vada a vederlo e poi mi dirà cosa ne pensa e s’è ancora ateo!

L’indomani sera, eccitato, accettai la sfida che quel moccioso m'aveva lanciato e andai a vedere l’esorcista, ma non fu il diavolo che mi turbò, ma piuttosto, certe scene che il regista aveva saputo dosare e portare sullo schermo. Uscii confuso e con la paura in gola, ritornai dietro al mio bancone, certo d’essermi fatto intrappolare. Mi ci sarebbe voluto un tonico e al mio banconista comandai:

-Raffaele, un doppio caffè e un triplo cognac!

I clienti presenti, quelli che sapevano della scommessa e aspettavano il mio ritorno, tutti in coro:

-Allora! Signor Mauro - Arturo, ce la siamo fatta o no nei pantaloni? Cercai di controllare la situazione, ma senza riuscirci, perché mi sentivo uno strano odore di zolfo, davanti al naso. Il giovane mi lanciò uno sguardo di compassione e disse:

- Non dica no! Abbiamo capitolato? Ed io insistetti sull’abilità del regista e sull'improbabilità dell’esistenza di Dio e del diavolo! A quel punto là, il giovane Roberto, piantato davanti al mio bancone, ancora una volta, mi sfidò:

-Mi stia bene a sentire: questa sera, col suo permesso, sapremo se ha i coglioni al posto giusto. Alla ventiquattresima ora, noi e quelli che lo vorranno, sempre che lei, sia d'accordo, ci sediamo al centro della sala, intorno alla tavola rotonda, spegniamo tutte le luci, lasciamo accesa solo quella del bar, fermiamo tutte le porte e le finestre, perché nessuno deve entrare o uscire, e a quel momento preciso: accenderemo una candela che poseremo al centro della tavola, un grande foglio di carta bianca e liscia per scriverci sopra le lettere dell’alfabeto e poi ci metteremo in contatto con l’aldilà! Dovevo pensarci bene, non volevo che quella serata si trasformasse in una farsa o che qualcuno si prendesse gioco di me, ma dissi sì lo stesso e ci trasferimmo nella sala di dietro, lontani da occhi e

orecchie indiscrete. A mezzanotte in punto, la campana del municipio suonò i fatidici ventiquattro colpi; sette di noi si sedettero intorno al tavolo, il resto, rimase in piedi, dietro alle nostre sedie. Il piccolo uomo prese un’aria solenne, quasi tragica, posò l’indice sul bordo d’un bicchiere e ci chiese di fare la stessa cosa. Nel silenzio di un antico palazzo che sapeva di casa degli spettri, con voce bianca come il suo viso, invocò:

- Spirito di Gianluca, se ci sei, materializzati, batti due colpi e dacci un segno della tua presenza, vienimi in aiuto!

Un quarto d’ora senza l’anima di Gianluca, senza che lo spirito si manifestasse; la gente al tavolo e dietro di noi ondeggiava. Qualcuno incominciò a ridere e ancora una volta, non so perché, dissi:

- Spirito, o alcol da bruciare? Risero tutti, perché quella notte eravamo euforici e avevamo bevuto. Ma il bicchiere, no! Come una freccia puntò verso di me.

- Stronzi, smettetela, non spingete il bicchiere contro di me, non fate i cretini, tanto non ci casco, non sono un pollo!

Il bicchiere, incurante dei nostri discorsi si mise a correre sulle lettere, e il mio vicino di cordata, a scrivere e poi, un fremito, e la mia mano si lasciò andare e a seguire quell'indiavolato missile:

- Mi chiamo Maria Abate, vienimi a trovare, nessuno porta un fiore alla mia tomba, non scordarti che i miei figli furono amici tuoi! Cercai di oppormi alla corsa del bicchiere e in tanto non ridevo più. Nessuno dei presenti conosceva quella famiglia, né la loro storia, che era una tragedia siciliana, nessuno di loro poteva sapere. Cosa mi stava accadendo. Mi pizzicai un braccio per cercare di tirarmi fuori da quel sogno a cielo aperto e mentre tremavo, il bicchiere imperturbabile continuò a scrivere:

- Vienimi in aiuto, sono nel cimitero di Catania, non puoi sbagliarti, sono vicino al deposito delle ossa. A malapena, riuscii a replicare:

-Eri la madre di Biagio e Antonio, morti di tubercolosi nel millenovecentoquarantaquattro? Perché ti rivolgi a me? Io vi conoscevo appena, ero troppo piccolo, i compagni dei tuoi figli furono i miei fratelli, Cristofaro e Francesco. Ma il bicchiere continuava e la defunta mi dettava il numero della tomba. Poi, come un colpo di cannone, un gran grido, anzi un urlo di bestia ferita gelò la sala, la tavola si capovolse, tutti scapparono verso il bar, la candela si spense, rovinò sulla mia camicia e m'impasticciò tutto. Al diavolo la cravatta! Ebbi paura e mi scusai con Lucifero, per averlo chiamato in causa; come potete immaginare non avevo perduto il mio spirito di patata, anzi riuscivo bene a sdrammatizzare, in mezzo a quell’imbarazzante situazione e poi, sempre col culo per terra e immerso nelle tenebre di una strana nottata, cercai di trovare la forza d’alzarmi e accendere la luce. Misi le mani avanti, per non rompermi l’osso del collo e riuscire a raggiungere l'interruttore. Nel buio, una mano afferrò la mia, il padrone di quella mano, tremando e piangendo, gridò:

- Non ho nessuna colpa, pietà, non lo faremo mai più, lo prometto!

Liberai la mia dalla sua mano e accendendo la luce vidi che era lui, il ragazzo che mi aveva lanciato la sfida! Tremava come una foglia al vento.

- Figlio d’una buona donna! Levati dalle palle, altro che non è colpa tua, piuttosto me la paghi tu la cravatta imbrattata di cera?

Con lui attaccato al braccio, come un paniere che sentiva la merda, raggiungemmo la sala del bar. L’armata Brancaleone era tutta la pietrificata, gli uni stretti agli altri, come a volersi proteggere da un mostro invisibile. A quel punto, non restava che cercare una spiegazione per capire quel fenomeno. Iniziammo, uno alla volta e senza spingere, a raccontare le nostre paure. Un vecchio marinaio disse:

- Nella mia vita ho affrontato le peggiori tempeste di mare, ma non ho mai avuto tanta paura come questa notte!

Il postino:

-Che Dio ci perdoni, cosa abbiamo resuscitato?

Eravamo in tilt. Ma io, non ero come loro e non potevo accettare né sopportare quei deliri, mi servivano risposte razionali e così, dopo un momento di sbandamento, pensai a mio padre e al suo modo di vedere le cose. Che si fosse sbagliato su di Dio e il diavolo? Era colpa sua sé ero diventato

ateo e comunista. Quella notte e in quel frangente, avrei voluto che mi venisse in aiuto per farmi ritrovare l'equilibrio. La notte incominciava a far male e s'accingeva a bruciare il tempo, mentre noi rimanevamo seduti indecisi se rientrare oppure no, nelle nostre case. Fuori faceva freddo e la strada era deserta. Non trovai di meglio che aprire due bottiglie di grappa per scacciare, con quell'alcool, gli spiriti maligni o benigni che fossero. Poco a poco, la calma ritornò e ognuno di noi, incominciò a raccontare le proprie storie. Il telefono squillò e tutti noi, indistintamente, cercammo la mano del vicino. Il postino, sollevò la cornetta,bianco in viso come la morte ci disse che era una voce dell’oltretomba, che minacciava noi e le nostre famiglie per tutto quello che avevamo tentato quella notte .E intanto la grappa faceva il suo effetto e se qualcuno voleva, poteva rientrare a casa. Raffaele spense tutte le luci, scappando come un furetto.

Mentre i miei compagni di sventura si raggruppavano in mezzo alla strada. Lasciai girare la chiave nella serratura e quando la porta fu ben chiusa, ecco che, per un falso contatto o per magia, tutte le luci del locale si riaccesero, senza eccezione alcuna, costringendo i miei compagni di sventura a darsela a gambe e poco dopo, farli ritornare intorno a me che non avevo battuto ciglio, ma tremavo immobile e muto. Erano accanto a me, per vedere cosa facevo ancora appoggiato alla porta del locale. Insistevo come una statua di sale, stavo riprendendomi per capire e poi sfidare quell'irrazionale notte di forti emozioni che altro non era che un fenomeno naturale. Bisognava fare qualcosa, ed io, che restavo come al solito, un gran figlio di buona mamma, che si sforzava di capire la soverchieria, continuava a spingere la commedia, oltre l’impossibile sopportazione e perché no! Oltre ogni logica. In quel momento, preferii non svelare il meccanismo, che mi avrebbe spiegato tutto. Quindi andiamo per ordine. Mentre loro discutevano, io, riaprii la porta, feci il giro del locale, spensi, ancora una volta tutte le luci e cercando di restare calmo,ritornai su i miei passi dicendo che di là, era rimasta come una strana presenza. Si complimentarono per il mio coraggio e poi, a gruppi di quattro, cercarono di andarsene, sicuri di non riuscire a uccidere la fine di una notte che si annunciava maledetta. Il mattino, dovetti aprire il bar senza il mio barman che mi faceva sapere che non stava bene. In verità, senza chiedermi nemmeno un soldo, aveva posato il culo sull'alfa Romeo, che un pretore omosessuale di Ramacca gli aveva pagato e senza nemmeno salutarmi, era rientrato in Sicilia I partecipanti a quella serata, l'uno dopo l'altro, ritornarono sul luogo della tragica e comica commedia. Da quel giorno e per tanto tempo, la gente si mise a chiamarmi:

quello che parla con i morti.

Quel titolo fece bene ai miei affari e il mio cassetto si riempì di tanti bei soldini. Non mi restava che far credere che l'aldilà s'era messo in contatto con me e che da quel momento, se gli increduli volevano, sarei stato il tramite per far comunicare gli uni e gli altri, parlare con i loro defunti e perché no, anche con Dio! Se volevano, dovevano chiederlo a me. E fu cosi che, a partire da quella notte, mi misi ad organizzare sedute spiritistiche e cene pantagrueliche, che sapevano di magia nera. Gli allocchi non mancavano e tutte quelle stupidaggini, servirono a farmi riuscire i collegamenti più strani. Volevi parlare con Napoleone? Io, ti ci facevo parlare! Stalin? Niente di più facile in una Maremma piena di comunisti! Dio? Pure lui! Tramite me, parlò con tutti! In quanto alla mia storia con Anna -Maria Abate, non ci volle molto per capire cosa m'era successo. Da govanetto, tredici anni appena, io, che quel testone di mio fratello Ciccio, diceva che ero il cocco di mamma: mano nella sua mano, mi lasciavo trascinare, lungo i viali della città dei morti e là, volente o nolente, il mio sub-conscio, a mia insaputa, si metteva a parlare alle lapidi e registrava le scritte e i pianti dei parenti. Fu per colpa di mia madre, se quell'impatto con la morta in questione, tanti anni dopo, avrebbe risvegliato ricordi che mi avrebbero fatto paura, in una notte d'impossibile e falso spiritismo. Mi ricordo che mamma, si sedeva davanti al deposito delle ossa e mentre lei pregava, io, che sapevo leggere, m'incantavo davanti a quelle lapide e forse fu la foto della donna che mi colpì o le parole di mamma che conosceva la storia di quella famiglia e spesso ne parlava. Sta di fatto che quella notte, il ricordo di quella gente mi passò nella farina come una sarda morta da una settimana. Recuperare il mio equilibrio non mi fu difficile e dopo quella ridicola storia, mi scatenai e mi divertii come un matto. Venticinque anni dopo di quei viaggi con mamma, il mio subconscio era venuto a presentarmi la nota, facendomi dubitare come uno scemo, che aveva preso

quella banale manifestazione d'emozioni, per messaggi dall'aldilà. Da quella notte che, incoscientemente, avevo fatto camminare il bicchiere, quelli che credevo essere i miei nuovi poteri, non funzionarono più. A ogni seduta spiritistica mi ci voleva una persona influenzabile e soggetta al suo subconscio. Avevo capito tutto e a partire da quel momento, con le chiacchiere e senza bisogno d'altro, potevo far smuovere il bicchiere a mani più naif delle mie. Non c'era una notte, che non si organizzassero sedute spiritistiche nel locale o nelle case della gente, oppure presso ruderi abbandonati, dove riuscivo a creare atmosfere lugubri. Ma un giorno, il maresciallo dei carabinieri, mi fece convocare in caserma:

-Signor Cammarata!Baciamo le mani e i piedi quando sono cotti e puliti! Vorrei che mi spiegasse come passa le sue notti e con chi!

- Signore maresciallo, che domande mi fa. Con mia moglie e la mia cagna!

- E sicuro? Ieri, in caserma, è venuta la moglie dell'ingegner Presenti. Pare che lei, ha plagiato suo marito, facendolo parlare con un suo antenato che gli ha ordinato di demolire la sua villa, perché sotto alle fondazioni, c’è una cassa piena di marenghi d'oro. Come la mettiamo?

Io lo so! Lei non è uno stupido! Per caso, si annoia, in questo villaggio di pescatori? Al tempo del Fascismo, per meno di questo, il Duce, l'avrebbe spedito all'isola dell'Asinara! Se vuole, visto che la considero una persona simpatica, potrei inviarla a “va fan culo”, lei e tutta questa banda d'imbecilli!

Per qualche notte lasciai stare e poi come dei cospiratori, riprendemmo i nostri maneggi!

Da quel giorno se avessimo voluto divertirci, occorreva essere più prudenti. Mogli, figli e carabinieri ci tenevano sotto controllo, cosa che mi faceva ridere e mi eccitava, ma per farla franca, bisognava muoversi come i carbonari. In paese s'erano formati due partiti: quello della setta spiritica e quello dei cacciatori di teste. Una sera, i fanatici del bicchiere che parlava mi chiesero di fare una seduta lontano da Orbetello. Mi ricordo che a quei tempi, ero amministratore di una società di lestofanti, gli antenati di Berlusconi &, che operava ad Ansedonia. Il posto era ideale e i locali erano situati ai piedi della città etrusca di < Cosa >. A notte fonda, con una ventina di vetture arrivammo nel posteggio del ristorante del quale, tra le tante attività di quel tempo, m'occupavo. Mi ricordo che il mio cane stava dormendo dietro la porta della cucina; quel frastuono non lo rassicurò e lui, fifone e segugio da due soldi, si diede ad abbaiare come se avesse previsto che quella notte che ci preparavamo a consumare, sarebbe stata una notte “Loffia”. Tutti i miei invitati, conoscevano quel posto e la storia delle tombe etrusche che giacevano sotto ai nostri piedi. Io, come al solito, rincarai la dose, cercando di creare un’aria di zombi in libertà. Aprii la porta e come se ci fossimo messi d’accordo, quello stronzo d’un can di Trieste, aggredì alla cieca il più fragile dei miei invitati. Inutile dire che corsero tutti alle vetture e vi si chiusero dentro. Nell’aria, c’erano la tensione e la paura di quelle occasioni e noi, i loro sudditi, vittime predestinate, perché non c'era una notte, che non andasse a farsi fottere. La calma ritornò e il cane divorò la sbobba che gli avevo portato e poi, si quietò. Finito di mangiare, fece il giro del posteggio e pisciò sulle ruote delle vetture per leggervi i messaggi degli altri cani. Noi, scendemmo le scale che portavano alla cantina. Avevamo appena messo piede nella cava che, per non sa quale fenomeno, tutti gli scaffali si misero a vibrare, facendo suonare le bottiglie, come se fossero campane a morte. Un mio complice involontario e burlone, mi dava una mano; Inutile che vi dica, che la cosa non mi dispiaceva. Uno di quelli che era con me, svenne e cadde per terra. Lo rianimammo e demmo inizio alla seduta. Bando ai preamboli, tanto, ora, anche voi conoscete la tecnica per chiamare < Gian Luca):

- Se ci sei batti due colpi! E lo spirito si materializzava e la scena si apriva grande come una voragine senza fondo ed io, quella sera, ebbi paura, tanto era fragile quella gente, che la serata mi scappò dalle mani e degenerò. Fuori il cane ululava e stranamente, le portiere delle vetture che erano chiuse a chiave, si diedero a sbattere rumorosamente. In un batter baleno ci trovammo tutti fuori sul piazzale per vedere cosa stava accadendo alle nostre vetture. Non c’era nulla d'anormale; quell’improvvisa corsa alla superficie, aveva riportato un po’ di calma negli animi, ed io, potei riprendere il controllo della situazione. Ero deciso a smettere con quel tipo di sedute, ma soprattutto, con gente che mi scappava dalle mani come oggetti: usa e getta. M'ero convinto che

prima o poi ci poteva scappare il morto. Giuseppe Romano venditore d’uccelli esotici a Grosseto, in via San Martino, sposato e con un’amante che gli faceva perdere la testa, s’impossessò del diritto di guidare il bicchiere e partì in quarta come Nuvolari. Il messaggio che s’impresse sul foglio di carta, sicuramente sarebbe stato per lui e gli veniva dalla parte di Gianluca:

- Da domani, non prendere la vettura e lascia stare quella donna, se non vuoi passare i guai! Al colmo dell’ira, gli strappai il bicchiere da sotto il dito e lo lanciai contro il muro, dove si infranse. Dovete credermi, quella stessa notte, l’amico napoletano, inseguendo la vettura della sua amante, si capovolse con la sua, facendo danni enormi e finendo all'ospedale. Passò tre mesi a letto ingessato come una mummia egiziana.

Strade parallele                                                [torna all'indice]

L'inizio fu così, ed io c'ero.

Catania:

Via Cordai 115 ( cortile degli sfaccendati)

1935- Mio padre ha 43 anni e mia madre mi mette al mondo il 4 settembre alle 11 di un anonimo mattino d’un mese incolore dell'Era Fascista, in un quartiere della vecchia città di Catania.

Parigi

Qualche breve cenno storico, è necessario per inquadrare e fare un parallelo tra il mio 4 settembre e quello di un certo momento storico della Francia, molto ma molto più importante della mia data di nascita. Dopo la sconfitta subita a Sedan dalle truppe di Napoleone III per opera delle truppe prussiane, il 4 settembre 1870 venne proclamata a Parigi la repubblica: è il crollo del II Impero. La capitale francese venne cinta d’assedio dai soldati prussiani e il 28 gennaio 1871 Parigi, sfinita dalla fame, capitolò. Venne eletta un’Assemblea Nazionale, composta quasi esclusivamente da rappresentanti della borghesia, e capo del governo, Adolfo Thiers (quel “nano mostruoso”, come lo chiamerà Marx). Ecco perché ho dichiarato che sono nato all'alba di un 4 settembre senza importanza. Ma c’è un’altra ragione; in via quattro settembre, a Parigi, vicino al palazzo dell’Opera, c’era il banco di Roma, il solo che mi aveva voluto aprire un conto e permesso di prendere la gestione di un ristorante e fare tanti bei soldini.

 

Amburgo:

1978-avevo 43 anni e il mio primo figlio nasceva in Germania. Nello stesso anno, la morte mi rubava, nel breve spazio di una settimana: mio figlio e mio padre.

 

Catania1955:

- mio padre aveva 63 anni, ed io ne avevo 20 e come al solito parlavo troppo, mentre lui cercava d'ascoltarmi e con misurata sufficienza, a modo suo, rispondeva alle mie incessanti domande che facevano paura.

 

Parigi, a due passi dal Panteon:

 

1998- avevo 63 anni, ed il mio secondo Davide, quello che la morte non m'avrebbe preso, 20 anni. Lui ed io, ancora oggi, che ne ha 30, parliamo poco, perché non fa domande. Grazie a lui, ho imparato l'indifferenza. Contrariamente a mio padre, non ho bisogno di rispondergli, ma mille interrogativi nascono e crescono nel mio cuore che, un giorno dopo l’altro, si spegne, e lui? Non fa nulla per aiutarmi a capire. Ecco, ciò che, ancora oggi, siamo. Ma adesso, per non perdere i pedali e capire meglio e di più, sarebbe più pratico, tornare al 1955 a Catania, dove:

Seduti, l'uno accanto all'altro, un padre e un figlio discutono del più e del meno, ma sopratutto della situazione politica che attraversa il paese. Mio padre filosofo, incerto e sognatore, ed io, solamente un figlio incazzato, pronto a far esplodere il mondo sul quale stavamo seduti. Parlavamo...? Lui parlava, mentre io gridavo tutta la mia rabbia, perché volevo smuovere le acque

dell'immobilismo, ma non ci riuscivo. Ecco quello che eravamo, due ribelli senza speranza. Erano 10 anni che la guerra era finita: al nord dell'Italia, qualcosa era cambiato, al sud, i proprietari dei feudi, i politici, mafiosi o no affamavano e sottomettevano tutti, anche quelli che credevano d'esser liberi. Mio padre cercava, senza riuscirvi, di farmi accettare che la rivoluzione sarebbe stata per il giorno dopo. Colorava di rosso i miei giorni e le mie notti, col suo ideale comunista. Era il Benigni della sua epoca e spesso, diceva: “ La vita è bella”. Era convinto che avessi torto, diceva che lo deludevo, perché osavo gridarlo in faccia al mondo.

- Allora, a sentirti, si potrebbe credere che questo mondo è bello... Vorresti, con la visione che ti sei fatta delle cose, che rinunciassi alle tavole imbandite? Io che sono tuo figlio!

Lui restava pur sempre l'autorità che non permetteva d'infiammarsi e con la sua voce dagli accenti paterni, diceva:

- Figlio, i piaceri che tu cerchi son gesti di puro egoismo. E' come se tu portassi al monte di pietà, un falso capolavoro e te lo pagassero con della falsa moneta, e se questo esempio non ti basta, sappi che la vita è un veleno che bisogna bere a piccolissime dosi e che la pazienza e il rispetto sono alla base di ogni riuscita sociale.

-Padre, il mondo rinuncia a me e quando ne ha voglia, prende le mie passioni e le deforma.

Perché, certa gente ha tutto quello che vuole e altri non mangiano a sazietà? Perché insisti a inocularmi il tuo male politico? Perché vuoi che i tuoi figli credano nell'ideale del social comunismo e nella fraternità fra gli uomini e nel rispetto dei diritti altrui, se tu ed io, sappiamo che non è così? Caro papà, non credo a tutto ciò che tu dici e non ci crederò mai! Lasciami rubare tutto quello che hanno preso ai nostri. Lasciami essere Robin Hood e non Don Chisciotte. Lo so, che tu sei dolce e caro come la gente delle tue campagne. Tu apri le braccia alla miseria del mondo e anche a chi ti fa del male. Il tuo ufficio è diventato la corte dei miracoli. Senza volerlo hai demolito le mie certezze, trasmettendomi il virus del fare il bene intorno a me e ora, eccomi diventato, per colpa tua, un giovane pieno di dubbi e incertezze.

Gli avevo detto tutto ciò d'un getto, senza pensare che l’avrei ferito. Lo guardai e mi resi conto che l'avevo centrato. Avrei voluto chiedere perdòno ma non sapevo e poi, la mia collera era grande, com'era grande il mio dolore per le sue ingenuità. Avrei voluto che capisse il mio desiderio d'un posto al “sole”. Papà mi guardava sconcertato, perché vedeva la faccia nascosta di quel suo strano figlio che non voleva accettare alcuna spiegazione, e allora? Decise di parlarmi da uomo ad uomo:

 

-Tu hai una visione del mondo e dei suoi meandri che mi fa paura. Fremo all'idea che tu possa avere ragione. Figlio mio, lasciami sperare che il mondo possa cambiare e che l'uomo, possa diventare migliore. Tu viaggi troppo e spesso nei cuori e nelle teste della gente e questo ti perderà.

Non gli risposi e virtualmente, inventai un ologramma di bilancia e l'istallai davanti a noi. Su i piatti di quella simbolica bilancia, gli chiesi d'immaginare la posta in palio: sul piatto di sinistra, posai i consigli e i suoi avvertimenti e sull'altro, misi la mia sete di vivere, la rabbia e tutta la mia angoscia passata e presente. Il mio piatto non resistette e si spezzò in mille pezzi. Segno che ancora una volta avevo ragione io. Non mi disse nulla, perché non poteva e non voleva vedere quella bilancia virtuale. Mi alzai e senza sbattere la porta della corte dei miracoli che era diventata la sua bottega a rischi, tentai d'andar via. Papà capì, s'alzò e accompagnandomi con la sua eterna dolcezza, affettuosamente, mi passò le chiavi della sua vita:

- Prendi, potrebbero servirti! Me ne andai come le bestie che corrono al macello, nella giungla del mondo. Fu così, che per colpa mia, da quel giorno, papà ed io, camminammo su due marciapiedi paralleli ma distanti, parlandoci appena.

 

“Ad Amburgo, con la morte negli occhi”

1978- Stavo uscendo dal cimitero d'Amburgo, dove qualche ora prima, avevo seppellito le ceneri del cadavere del mio piccolo Davide, camminavo senza sapere dove andavo, né perché. Poi, cammina che ti cammina, mi trovai sul molo del porto di quella città grigia e senza sole. I miei occhi s'annegarono di lacrime, cercando verso l'orizzonte la mia cara isola di Sicilia, dove oggi, mio padre e mia madre riposano nella cappella di famiglia. Le lacrime scendevano sul mio viso:

gran parte di quelle, furono per mio figlio, il resto per mio padre, che non ho più; queste due care immagini sono e restano: Vincenzo, del quale sono sempre il figlio e Davide, del quale, per sempre, sarò il padre. Se avessi potuto, avrei voluto fondermi con loro, per diventare una sola persona. Oggi, come ieri e come domani, a distanza di tanti anni, m'interrogo sul come e sul perché della vita e della morte. Sul molo di quel porto straniero, smarrito e addolorato, gridai:

-Perché Dio del caso, perché?

 

Parigi1980: Il mio secondo Davide aveva 16 mesi e il suo fratellino Fabio era parcheggiato nel ventre della mia donna d'allora; la loro nonna stava poco bene e si lasciava morire, sembrava che la sua morte fosse prossima. Da 16 mesi, papà era morto, non era più accanto a lei, che fragile come un cristallo, fatto di pene, un giorno dopo l’altro, scivolava lungo la scarpata della morte, perché aveva deciso di non vivere oltre al suo uomo. Papà era bolscevico e ateo e lei, cattolica e fedele al suo Dio e al suo uomo. Vivevo a Parigi, lontano da lei, ma non cessavo di pensare a mamma, che sarebbe morta senza la gioia di vedere la mia pro-genitura; volevo che prima di morire, vedesse il mio bambino, volevo presentarli, l'uno all'altra. E decisi di volare da lei con la mia piccola famiglia; prendemmo l'aereo per Catania, felici d'andare. Eccoci a casa di mamma, siamo lì, davanti a lei, come quando mio padre, andò da sua madre per fargli conoscere la sua Tina. Sono vicinissimi, si tendono le mani:

Lei ha 78 anni, 48 kg di carne e ossa, lui, 18 mesi appena, 9 kg d'amore e sorrisi. Delicatamente, lo posai sulle sue gambe fragili e lei lo strinse e lo cullò sul suo cuore. I braccini di Davide strinsero il collo di mamma, in una confusione di baci reciproci. Che meraviglioso spettacolo! Mamma piangeva e rideva, per il regalo importante d'un figlio a sua madre; uno di quei suoi ragazzi che aveva perduto e quel giorno, ritrovava.

Con tanta tenerezza, glielo tolsi e lo resi a sua madre. Poi, avvolsi mia madre d'amore e la strinsi nelle braccia, con grande tenerezza e la cullai come aveva fatto lei con me, quando bambino la cercavo e buttavo le mie braccia intorno al suo collo. Col cuore stretto e le lacrime agli occhi, delicatamente, posai il più sincero e tenero bacio di un figlio per la madre, un bacio sulla sua fronte umida d'emozione. E là, sentii che presto l'avremmo perduta. Un mese dopo la notizia ci arrivò:

-Mamma sta per morire, è decisa a lasciarci; con mio fratello Francesco, prendemmo il primo volo per Catania. Attraverso gli oblò, guardai la mia terra che non si lasciava ammirare, perché era diventata refrattaria, sembrava un cocktail d'amore e odio. Atterrammo e fuori dall'aeroporto c’era sempre la solita solfa, la stessa desolazione di sempre. Sembrava che l'isola vivesse nel passato, come se le lancette del tempo, stanche di vivere, si fossero suicidate. Niente era cambiato o piuttosto, molte cose non erano più come prima: la gente non aveva più lo stesso sguardo. Un vento di violenza soffiava sulle nostre teste e l'aria suggeriva di stare in campana, come se d'un momento all'altro, dovesse accadere. I giovani siciliani, i più sfavoriti, i figli di quei padri d'un tempo, ancora oggi, escono dai ghetti e prendono possesso delle strade dei quartieri borghesi, ricattano e scuotono l'economia della città. Niente e nessuno possono fermarli. I pochi amici che vi ho lasciato, mi dicono di fare attenzione a come parlo e sopratutto a quello che dico, raccomandandomi di fare il turista e basta. A Catania viveva mia nipote Patrizia che era sposata al figlio di Pippo Fava, fondatore della rivista “ I siciliani”, settimanale antifascista e antimafioso, diretto da giovani sani e motivati, che non avevano paura di denunciare l'accoppiata di politicanti e mafiosi. Morta mamma, ritornammo in Francia. La vita tumultuosa con la mia ex moglie e il mio lavoro, mi fecero dimenticare la serie di avvenimenti che insanguinavano la Sicilia. La mafia aveva ucciso Giuseppe Fava, suocero di Patrizia, che era figlia di Ciccio. Fava aveva parlato troppo e a proposito, contro chi stava al potere della Regione e trafficavano con la malavita. Davanti a quell'ennesimo delitto, Catania restò a guardare e alcuni dissero che non era stata la mafia, ma un marito tradito, perché Fava era un bell'uomo, scrittore, pittore, autore di teatro e comunista, e tutte queste qualità, in un uomo solo, non piacevano, disturbavano i mediocri che non avevano bisogno d'essere intelligenti e colti, per riuscire in quel mondo d'intrallazzi e disonestà. Un mattino, il suo corpo crivellato di proiettili, come addormentato, scivolò sul volante della sua vettura, in un eterno sonno di morte e di battaglie abortite. In Sicilia, non cerano e non ci saranno mai regole, la terra scotta e brucia

ancora sotto i piedi, la gente rasenta i muri, sperando d'evitare le palle perdute, che spesso fanno strage di innocenti. Mio fratello Ciccio, temendo per la vita di sua figlia e quella di suo maritoi, di comune accordo con me, pensò di farli venire in Francia ma Claudio Fava, figlio di un cotanto padre, declinò la nostra offerta, deciso a restare e battersi contro la piovra e contro il malcostume politico e ancora oggi, in qualità di deputato europeo si batte sulle tribune del parlamento d'Europa.

Restiamo a Parigi, crocevia di sane opportunità:

-1998 Il tempo è passato come l'acqua della Senna, sotto ai ponti di Parigi e niente è cambiato, né nulla sarà diverso nelle terre di Sicilia: assassinii in serie, corruzione, ingiustizie e miseria!

Qui, ho troppe cose da fare e continuare ad amare la Sicilia, mi è difficile. Un giorno, mio fratello Ciccio si presentò nel mio ristorante carico di riviste del settimanale “ I Siciliani”, che nonostante la morte di Giuseppe Fava, grazie al figlio e ai suoi compagni, continuava ad essere pubblicato per denunciare i fatti e i misfatti dei cavalieri dell'Apocalisse: R... P... F... P... e altri. Conoscevo quelle pagine, che avevo già letto. La mia mente e la mia anima, avevano vissuto e pagate care le mie scorribande politiche, nelle file dei giovani comunisti del mio tempo, ma volli leggerli lo stesso, per vedere se realmente, Dio non fosse mai sceso in Sicilia. Un giorno, all'ora della pausa pomeridiana, presi una di quelle riviste e mi diedi a sfogliarla e a leggere un articolo che parlava d'un fatto, accaduto qualche tempo prima, nel quartiere dell’Albergheria, a Palermo, in un vicolo all'odore di chiesa e dal nome di Santa Chiara.

La scena: Un quartiere scassato e quasi in rovina. I personaggi tanti e diversi nei ruoli: da un lato i poveri, inquadrati da un prete proletario e forse comunista, e dall'altra parte, i giornalisti della rivista rivoluzionaria e le forze dell'ordine-disordine, che avevano l'obbligo di proteggere gli operatori e i bulldozer che dovevano demolire le fatiscenti case dei poveri che non sapevano dove andare. Il parroco-pecoraio di anime, incitava la folla e sbandierava uno straccio bianco, gridando:

- Giustizia e case per i poveri! Com'erano rari i preti comunisti e come duravano poco.

Un coro di disperazione si alzò verso il cielo, dove forse non abitava più Dio, nella piazza e all'ingresso del vicolo, il rombo dei bulldozer, squarciava i timpani dei bimbi del vicolo Santa Chiara. Claudio Fava c'era, ed era in prima fila. Una fiumana di bimbi si avvicinò per bombardarlo di mille e una questione:

- Chi sei, che cosa hai in mano e perché sei qui? Più d'ogni cosa, l'intrigavano il registratore e la cinepresa. Claudio capì la loro miseria e le loro paure, e come un fratello maggiore rispose senza timore, abbassandosi e facendosi piccolo, quasi come loro, per raccontare:

 

- Questa è una scatola magica e serve per catturare le vostre vocine stridule e chiacchierine.

Poi, con grande diligenza, rimandò indietro il nastro e lo fece ascoltare. I bimbi indietreggiarono sconcertati, ma conquistati; perché capirono che quella scatola non faceva male, e allora, tutti, gli uni sugli altri:

- Prima io che sono più grande!

- io che sono il figlio dell'accalappiacani!

E poi, spuntata da chi sa dove, arrivò lei, la Passionaria, sette anni appena e due fratellini più piccoli di lei, uno per mano, tenuti stretti per non farli schiacciare dai più grandi. La piccola, a

modo suo, voleva essere la Rossella di “ Via col vento e ritorno.” Non aveva peli sulla lingua e non temeva nessuno, perché era già vecchia nell'anima. Tirò per la giacca l'incredulo Claudio che non si rendeva conto di chi lo strattonasse. Claudio per vederla meglio, si abbassò e quasi in ginocchio, sorrise e disse:

- Prego madamigella, dica la sua, e poi, vedrò, forse risponderò!

- Signore forse e non forse! Anch'io ho voglia di parlare nella tua scatola a parole. Sappi che non mi chiamo madamigella come tu dici, ma mi chiamo Giuseppina Diolosà, anche se tu sei il solo a non saperlo! Ho sette anni, sono nata e abito qui, e questa non è una sceneggiata, è una delle nostre tante battaglie!” E mentre parlava, accompagnava quella sua vocina con larghi gesti della testa, perché non poteva liberare nessuna delle due mani, altrimenti gli scappava un fratellino. D'un gesto disperato, indicò a destra e a sinistra le macerie delle prime case rase al suolo e poi gli disse:

- Guarda giù in fondo al vicolo, lì abita la mia famiglia e se non ci hanno ancora sfrattato da quel piano-terra, è perché sopra a noi vive un giovane poliziotto con la sua sposa e una bambina di appena undici mesi. E se non lo fanno, è perché non sanno dove alloggiarlo. Una premessa è d’obligo:

Un professore di scuola superiore, siciliano e fiero di esserlo, cercando di mettere un po’ d’ordine in questo testo, risentito e ferito nel suo orgoglio siciliano, mi fa rimarcare che dovrei smettere di calcare la mano, sulla Sicilia e su i siciliani; pare che le denigro troppo, ma lui non sa il mio vissuto e i rischi che ho corso sulle strade di questa sua splendida Sicilia; in quanto alla bambina di sette anni che parla e dice cose da grandi è solo una licenza mia; che mi lasci sfogare e sia più indulgente.

A quel punto, i genitori, che avevano visto i maneggi di Claudio, allontanando i bimbi da lui, incazzatissimi, si misero a gridare insulti a chi gli capitava davanti:

-Governo ladro piove sempre sul terreno bagnato! Guardate i nostri figli e il degrado nel quale siamo costretti a vivere!

Riecco la manina di prima, che riacchiappa la giacca di Claudio e lo strattona ancora:

- Ehi tu! Per caso mi hai dimenticato? Non ancora ho finito con te! Ma prima di lasciarla continuare, devo fare un alt per dirvi, che vorrei descrivere la foto che c'era sulla prima pagina dei “Siciliani”:

La piccola Passionaria e i suoi compagni, su una montagna di detriti, alla guerra come alla guerra, lanciavano pietre contro i bulldozer, gridando slogan per mini rivoluzioni che, nonostante la loro giovane età, invocavano il nome del Chechevara, affinché risuscitasse e corresse in loro aiuto. E ora ritorniamo a Giuseppina e Claudio:

- Pardonnez moi miledy, continuate!

- Guarda intorno a noi, lo vedi il degrado, il fetore, i topi, che fraternizzano con i cani e i gatti?

Vedi i volti delle nostre mamme che partoriscono bimbi vecchi e già rassegnati?

Cosa poteva rispondergli lui, che aveva già pagato, con la vita del padre, quei massacri e quegli abbandoni che non erano colpa dei giusti, ma delle loro assenze non giustificate. Claudio sapeva e non taceva e tutti i giorni percorreva la Sicilia in largo e in lungo, a rischio di lasciarvi la pelle. E noi, quelli che non avevamo le trance di mortadella sugli occhi, da lontano lo vedevamo e sapevamo del suo coraggio e per paura di comprometterci e per non perdere le nostre piccole conquiste sociali, all'estero, col coraggio dei vigliacchi, ci mordevamo le labbra, gridando in silenzio; mentre giù, ancora oggi, certuni si tappano le bocche, le orecchie e gli occhi, solo per fare e dire: ( nenti visti, nenti sintii e si c'ero presenti, stavo durmennu!) Dentro e fuori della Sicilia, siamo tutti colpevoli e il coraggio di uno non è di tutti, è il male profondo della disonestà che “ Passa, scassa e lascia” che il mondo dica, che non ci sono i mezzi e che il sud è il male, la palla al piede dell'Italia, la vergogna per gli amici di Berlusconi e Bossi. A causa dei mafiosi incravattati che siedono alle camere del parlamento e del senato italiano, possiamo dire che la Sicilia è femmina mafiosa e madre imbecille, e Palermo è maschio violento e senza anima! Palermo è l'equivalente di: Nuova Delhi, Bombay, Calcutta, è uguale a tutte le capitali del mondo che fanno incetta di tutte le miserie umane e poi, li rigettano perché sono indigeste; popoli che, in parte,

emigrano e se ne vanno per il mondo. I vicoli e le strade di Palermo sono la vergogna che fa arrossire di rabbia quelli che vigliaccamente, sono scappati via all'estero. Il vicolo Santa Chiara è a due passi del palazzo delle aquile, dove si trova il municipio della più grande città dell'isola. Più lontano, alla sua sinistra, la cattedrale di Santa Rosalia, la patrona di Palermo, maestosa e traboccante di suppliche, alle quali, Dio non ha saputo rispondere. Immaginate se Santa Rosalia, che si prende l'onere di gestire le suppliche, potrebbe farlo. Lo credereste possibile? Il palazzo della Regione, che non è molto lontano dal vicolo in questione, anche quell'immobile è maestoso e inutile. Un po’ più in là, c’è il palazzo di Giustizia..., più mostruoso che gli altri, quasi superbo e intrigante, incestuoso nelle leggi fatte ad oc! Tra le mura c’é un gran giardino pieno di bozze e il merito di quei monticelli di terra, riviene per diritto a una banda di talpe politico-mafiose. Ancora cento metri a piedi e poi, se lo vuoi, puoi immergerti nella centralissima via Roma, con le sue lussuose vetrine, (boutique) che fanno sognare solamente i poveri, perché i ricchi non si meravigliano più, è sempre stata la loro quotidianità. Due mondi paralleli ma diversi tra loro, si evitano, odiandosi. La storia del vicolo Santa Chiara, in questi ultimi anni della mia vita si trova lontano anni luce. In Sicilia, nelle 9 province, se volete assistere alle riunioni comunali e se avete fegato e nervi a posto, potrete vedere, ammirare e giudicare la bestia politica. Gli uni vociferano e gli altri, piangendo lacrime di coccodrillo, declamano con le mani giunte, o meglio ancora, con la mano sul proprio portafoglio gridano per coprire le verità o le menzogne degli avversari. Quelli che sono al potere, parlano d'ordine, sacrifici, rinunce, mentre i loro oppositori gridano allo scandalo, denunciando intrighi veri che servono a giustificare il diritto di dividersi i beni della comunità. Non c'è mai una seduta che non degeneri. Nessuno di questi politici vuole prendersi a cuore i problemi dei bimbi delle borgate meno fortunate, perché non li considerano parte del loro mondo. Trovo difficile e impossibile di fare un discorso sulla mafia, perché gli ho sbattuto la porta in faccia molto tempo fa e perché so che la vita vera sta altrove. E allora? Un certo momento, mi sono reso conto che dovevo andarmene via. E questa decisione di andare via, qui in Sicilia, è storia corrente, lo vedi e lo senti attraverso quelli che se ne vanno e ritornano in vacanza e quelli che non ripartono più e che, spesso ti dicono:

- Beato tu che te ne vai davvero! I siciliani come me, malgrado che siano apolidi, non riescono a tagliare il cordone ombelicale con la madre terra, la memoria di fatti e cose, continua a vivere nel nostro D.n.a. E allora ogni piccolo fatto di cronaca nera o raggio di sole acquista il significato della nostra atavica tragedia. E mentre tu non ci sei, perché hai scelto di fare così, la mafia continua a uccidere e cadano: Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e tutti quanti. Su questa isola, c'è molta gente abbandonata a se stessa. Qui i bimbi non vanno a scuola perché manca. In quelle famiglie di poveri, le madri sono spesso donne di servizio e i padri non ci sono più e quando ci sono, sono in prigione. Qui, tutto diventa difficile, l'educazione di questi bimbi si fa nei ghetti, dove imparano le leggi della giungla. Il più forte e non sempre il migliore, come nel caso dei cromosomi e degli spermatozoidi, sopravvive a quelle leggi del Menga.

 

-Parigi, via des fosses St. Jak n° 18 1998:

Ristorante Terra Nera, era l'ora del primo servizio, ed era un giorno calmo, in sala c'era un solo cliente e accanto a me, mio figlio Davide che lavorava in qualità di cameriere. Stavo leggendogli questa mia riflessione su quanto ho scritto a proposito della Sicilia e lui che è nato a Parigi, ritenendosi più siciliano di me, obbiettava e teneva a darmi il suo avviso.

- Papà, posso esprimere una mia opinione a proposito di quella che è la tua analisi?

- Certo che puoi.

- Tu sai che ogni anno vado in Sicilia e che mamma lì possiede una casa in riva al mare?

-Si che lo so! I soldi per comprarla, li ha rubato a me, ma questo è un altro discorso, continua!

La Sicilia è cambiata, non siamo più ai tempi tuoi, perché non ci vai più spesso?

- Ci vado, ci vado!

- Allora se ci vai e non cambi idea, vuol dire che hai perso il treno della nostra storia! Così come ti dice lo zio Cristofaro.

I giovani di oggi, non importa quale sia la loro idea politica o le loro condizioni sociali, escono da

casa e scendono nelle strade del centro per protestare, democraticamente, contro lo strapotere dei lestofanti politici e mafiosi. Professori e studenti, tenendosi per la mano, cercano di cambiare e modificare la scuola. Un vento di giustizia si sta abbattendo sul capo dei disonesti; giudici coraggiosi, combattono contro la mafia e contro i politici corrotti. Ci sono preti che non hanno nulla a che vedere con i preti del tuo tempo. Non sono pedofili e aprono comunità di recupero a vocazione terapeutica per salvare molti giovani dalla dipendenza della droga. Ci sono mafiosi che collaborano con la giustizia e contribuiscono a far condannare i loro “amici”.

- Mi sembrò d'ascoltare mio padre, che nel 1955, beveva tutte le storie che leggeva su l’Unità. Guardai mio figlio, come avevo fatto con mio padre, che gli rassomigliava e mi resi conto che l'ingenuità e la speranza non l'avrebbero accompagnato per troppo tempo ancora, perché se ne sarebbe accorto da solo e intanto, per non deluderlo, gli sorrisi dicendogli:

- Che sia fatta la volontà di Dio” Alleluia brava gente!”

 

Catania, via del Teatro Massimo n°17 1955.

Quel giorno, non ero con mio padre, era una giornata, ma era con mia madre, che voleva sapere. Me ne ricordo come se fosse oggi. La rivedo seduta nella sua poltrona di velluto rosa Santa Agata, mentre sgrana il rosario e prega per me, il suo figliolo più fragile e vulnerabile. Era il tempo dei miei 20 anni in follia, erano giorni nei quali, avrei voluto scavare una fossa profonda al centro della terra, per cercare e trovare il fondo delle verità nascoste. E lo volevo fare perché la terra e il cielo s'erano coalizzati per impedire la mia nascita. Al contrario, i miei genitori mi volevano, ma senza saper quale tipo di figlio strampalato gli avrebbe offerto la vita. E fu così, che senza cercar e senza voler conquistare il mondo, la mia infanzia si propose tristemente gioiosa, ingannandoli. Nonostante tutto il loro amore, incominciai a mostrare il mio vero volto e furono tic e toc. E che tic e che toc! Povera mamma mia! Quante lacrime e quante preghiere! Quanti Pater Nostro e quante Ave Maria! Ricordo che tutte le sere la sua voce pietosa e santa e quelle sue preghiere, per almeno 20 anni, risuonarono tra le mura della nostra casa e oltre:

 

- Povero figlio mio, San Michele Arcangelo, proteggetelo voi, interrogate la sua stella e cambiatela in meglio! Riportatelo sulla buona strada! Cosa dirò a Dio, quando sarò al suo cospetto, che ho fallito? Era là, seduta sulla sua poltrona, in faccia a me e nello stesso tempo, in comunicazione col suo buon Dio. Avevo creduto di poter eludere il suo sguardo e scappare, ma la sua mano, fu pronta per afferrare la mia giacca e bloccarmi.

- Da dove vieni, sono 5 giorni che non ti fai vedere, vuoi che muoia?

- Come potevo rispondere a quella mamma e raccontare l'inferno che vivevo in quel periodo del mio esistere? La guardavo senza dire nulla, mentre lei mi diceva:

- Spera in Dio e nella tua stella, e vedrai che la tempesta passerà!

Ma prendevo tutto il mio tempo e poi, senza guardare i suoi occhi pieni di lacrime gli rispondevo:

- Mamma! Non riesco a credere nel tuo Dio, ed è, forse per questo che non gliene voglio e continuo la mia traversata senza curarmi di Lui, né dei suoi Santi.

Lei penava, ma non demordeva e non lasciava presa, pregando come nessuno mai. Pregava come se i miei peccati fossero i suoi. Mi guardava con gli occhi pieni di pietà, ed esclamava:

- Vade retro Satana! Come se guardando quel giovane di 20 che era suo figlio, carne della sua carne, a un tratto fosse il diavolo. Cara Mamma che non sapeva quello che era la verità assoluta e il senso della vita! La sua visione, era deformata e confusa e il suo spirito concavo, perché si nutriva dell'influenza della chiesa e dei suoi pseudo - ministri di Dio, insisteva, sperando che diventassi migliore.

 

Parigi, ristorante “ Terra Nera”; confuso tra i clienti penso a mamma e m'interrogo:

-1998: Che cosa mi resta di tutto ciò, La polvere degli anni passati, l'odore sottile della sua cucina, che mi ha fatto diventare un ottimo cuoco, il ricordo delle sue mani quando la sera, fino a tarda ora lavorava all'uncinetto, la forma del suo corpo nella poltrona vuota. Quanti ricordi e quante nuove letture di vita, mi si preparano, mentre scrivo le mie emozioni e cerco di rubare quelle degli altri.

L'altro ieri, Dominique, la mia terza e ultima moglie... Si! Ultima moglie, perché son troppo vecchio per tentare il diavolo della carne. Lei è cara e colta, mi ha regalato un libro dopo l’altro; ieri s’è presentata con un romanzo che parla del quartiere, Via dei malefizi e mi ha detto:

-leggilo, ti stordirà di piacere.

I personaggi di questa storia vissero a qualche metro dal mio ristorante, in via Mouffetard, vicino alla piazza del Panthéon. Com'èra tutto così strano; quei quartieri non li conoscevo e se non avessi posseduto quel ristorantino, non sarei qui a raccontarvi di certe emozioni che scuotono il mio animo e solleticano la mia memoria. Erano appena otto mesi che stavo in capo a quell’attività e in quel giorno, grazie a quel romanzo, avrei scoperto che al mondo, anche a tanti km di lontananza, ci sono piccoli-mondi in parallelo a quello nel quale, l'istante presente, ci afferra per mano e ci scuote. Rue des Fossés St Jacques n° 18, al posto di questo ristorante c'era una macelleria. Era il 1941, nel libro, la gente faceva la coda davanti alla porta del mio locale, con i ticket di razionamento alla mano, per un pezzo di miserabile carne di vacca, morta per troppa fatica. L'occupante tedesco faceva risuonare i talloni degli stivali sul pavé delle strade di Parigi, ed io, pensai a Catania, alla stessa epoca e a mio fratello Ciccio che, davanti alla macelleria del signor Nicotra, restava per ore e ore, a fare la coda, alla stessa maniera dei francesi e di tutti quelli che vissero e subirono la guerra. Sempre a Catania, al centro della piazza, troneggiava un ricovero antiaereo che alla fine della guerra, restò ancora là, diventando il cacatoio di tutti i ragazzini dei dintorni. Il libro della via Mouffetard, detto dei malefizi, rassomigliava al quartiere di San-Birillo di Catania), ero certo che la lettura di quel libro sarebbe stata intrigante e istruttiva.

La storia raccontava tutti i misfatti che erano stati consumati in quegli anni di terrore, in una strada che era quella del vizio e della deboscia. Oggi non è più cosi, quel quartiere è diventato un continuo vai e vieni di turisti e poi, c'è accanto l'università della Sorbona, il Panthéon e i giardini del Lussemburgo e c'è Parigi che non è Catania. Oggi c'è quel piccolo ristorante, che fu mio per 5 anni, senza più tic, né toc e ora, andato via io, resta un piccolo regno gastronomico, che fa piacere all'anima e al palato della gente che lo frequenta. In quel periodo, gli incubi non si addossavano più dietro e dentro alla mia testa. La vita mia era quasi serena. La madre dei miei figli mi aveva sbattuto la porta in faccia e requisito il ristorante di Ville D'Avraj, vicino a Versailles. Ero e non ero tranquillo ma al fin libero da una donna che mi aveva reso la vita impossibile. Avevo perduto i miei figli che avevano preferito restare con la madre, un ristorante e la quiete dell’anima; per scaricare la mia debordante adrenalina, vennero e mi ghermirono, sogni irrequieti in notti blu, per incastonarsi gli uni agli altri e creare mosaici di pseudo felicità, perché avevo incontrato una donna perbene, per guarirmi dalla precedente, ma sarebbe stato possibile?Puntavo alla roulette russa per ottenere l’aiuto del Dio del caso, che facesse durare quel momento che fino ad adesso, perdura e non mi fa ruzzolare più. In tutti questi anni passati, spesso sono ritornato a Catania come un pellegrino che vuole rivisitare i luoghi della sua infanzia.

 

Sicilia, Catania, quartiere della mia infanzia:

Quest'anno, come prima tappa mi sono prefisso di fermarmi davanti al n° 17 della via del Teatro Massimo, la dov'era la casa che avevamo abitato, tanto tempo fa. La porta era grande e aperta. Un artigiano aveva trasformato quella nostra vecchia tana in laboratorio per la fabbricazione di infissi metallici. L'uomo, che doveva essere il padrone dei luoghi, notò che stavo aspettando, impalato, chissà cosa, l'ora o altro e quando capì che ero come incantato:

- Scusasse cerca qualcuno?

- No!

- Vuole qualcosa?

-No!

- Vuole un’informazione?

- No!

- Vuol comprare una porta metallica?

- No!

- Vuole che gli venda la bottega?

Ma allora che cazzu voli?

-Niente ma una cosa la può fare, quella di permettermi di visitare questi luoghi.

- Ma allora, lei non vuole comprarmi nulla?

- No, proprio no e ora la prego d'ascoltarmi: La mia famiglia ed io, per ben 30 anni abbiamo vissuto in questa casa, dove ne abbiamo viste di cotte e di crude. E se lei non ha nulla incontrario, vorrei ritrovare gli odori della mia vecchia tana.

-Per caso lei ha tre fratelli e una sorella? Sappi che sono già passati, uno di più o uno di meno! Se è per questo, entri pure e faccia attenzione a dove mette i piedi. Cinque gradini che squadrai come fanno gli scalpellini e poi, uno sguardo affettuoso che voleva accarezzare quelle pietre laviche, che m'aspettavano, mentre lui ripeteva:

- Faccia attenzione a dove mette i piedi!

Con foga ed emozione, entrai e mi feci male a una caviglia tra che s’era presa tra due putrelle di ferro.

50 anni erano passati dall'ultima volta che avevo attraversato quella porta, e ora, a parte le frese e il tornio di lavoro e le quantità di profilati metallici, le nostre mura e i pavimenti che avevamo calpestato erano lì che aspettavano come un'amante.

Il ragazzo che non era più tale, quel giorno, ritornava vecchio e timido come un rottame arrugginito, alla ricerca di quella che era stata la sua amata dimora. Ero al centro della camera di mamma, che era ingresso, salone, stanza da letto e sentiero di passaggio obbligato per andare nel resto di una strana casa, fatta di camere comunicanti. Quella di mamma era alta di plafond e grande come un garage pubblico. Era anche la nostra sala di sport, perché solo là, tra il letto e l'armadio, dove passavamo per raggiungere la sala da pranzo, c'era sufficientemente spazio per battersi e a tal proposito, papà stendeva una coperta a terra e ci lasciava esercitare in piccole lotte che quasi sempre finivano con qualche bernoccolo in testa e qualche lacrimuccia. Non avevamo una sala da bagno, ma eravamo puliti lo stesso, perché mamma, la guardiana della nostra igiene, vigilava e con l'aiuto di una grande bacinella di zinco, l'uno dopo l'altro, ogni domenica mattina c'insaponava e ci sciacquava, versandoci sulla testa, una piccola casseruola d'acqua tiepida che, a più riprese, a mò di doccia, ci faceva saltare in aria, perché spesso l'acqua era troppo calda o troppo fredda. Gli altri giorni, in fila indiana e per ordine d'età e priorità, ci si lavava in un piccolo lavatoio, che si trovava alla fine della sala da pranzo, verso la porta che dava nel cortile comune a tutti quelli che abitavano i bassi del palazzo. Mi ricordo che quando arrivammo in quella casa, c'erano due grandi stanze e un ammezzato nel quale si arrivava attraverso una scala di legno. Papà fece venire un muratore comunista come lui, amante del buon vino, con una voce da tenore che quando aveva un bicchiere di troppo nel pif, cantava vecchie romanze e canti siciliani da farti drizzare i peli sull’anima. Quell'uomo era Fulippu nasca ( Filippo dalle narici dilatate), ed era, a modo suo, un'artista:

-dipingeva, cantava e suonava il violino e a tempo perso, quando la gente lo chiamava lo pagava, ristrutturava le case dei poveri e dei compagni di partito. Per quei tempi, aveva più d’un difetto ben definito ed era come mio padre, correva dietro alle donne, amava il vino ed era ateo. Poi un giorno, non so cosa gli accadde. Incontrò Dio in una chiesa Battista, che prima d'allora era stata “ Sala cinematografica”, segno che anche Dio andava al cinema. Divenne astemio, cristiano e fedele alla sua vecchia sposa. Durante i miei pellegrinaggi a Catania, l'incontrai e seppi di quella sua metamorfosi. Povero uomo ateo che aveva incontrato Dio e che, come mio padre, avrebbe abbandonato la terra per la fossa eterna, dove non avrebbe scontato i suoi peccati, né incontrato Dio. Ma restiamo nella nostra tana e nella prima stanza. Mi posizionai al centro, chiusi gli occhi e cercai di ricostruire la decorazione della loro stanza da letto:

Entrando, subito a sinistra, la quaffosa-toilette, con un grande specchio; Rivedo, a ogni lato di questo mobile, le due tavolette di marmo verde vagone, con sopra le foto di noi tutti e quelle del suo matrimonio. Al centro di questo, un piano impellicciato di quercia e verniciato a spirito e sopra, tutte le sue ciprie e profumi e... Un po’ più in là, una sedia capitoneè. L'enorme radio Marelli, splendente, tra una sedia e il comodino, allietava i silenzi e le fatiche di mamma. Ricordo che quella, fu la radio delle sere della disobbedienza al regime fascista, con papà che ascoltava radio

Londra, mettendo Ciccio e Cristoforo dietro la porta a fare il palo e poi, con enfasi, commentava i messaggi dell'emittente inglese che c'informava sul vero e sul falso della guerra. Sul suo comodino: un bicchiere d'acqua, un pacchetto di bicarbonato, il porta sigarette in argento, con dentro le popolari e accanto, il porta monete. Il grande letto di mamma era come la vara della Madonna: un copriletto di broccato con riflessi a fili d’oro. Il comodino di mamma era come quello di papà, ma sul suo c'erano: l’abat-jour, tre lampade a olio, dominio del culto per i suoi morti, sul muro, santi e santini e ramoscelli d'olivo, e cuori di palme benedette e intrecciate, in ricordo delle pasque passate e consumate con cosce di agnelli della collina di mia madre. Sulla parete a sinistra del suo letto, il comò, con piano di marmo di Carrara e sopra, ancora altre fotografie dei suoi ragazzi. Tre cassetti e due sportelli chiusi a chiave e queste, nascoste nel reggiseno, perché i suoi quattro briganti di figli, sapevano che quel mobile era la caverna di Alì Babà: dolci, medaglie della guerra 1911/18 e tante altre cose per eccitare la nostra fantasia. Nonostante le precauzioni di mamma, i due più grandi, Cristoforo e Francesco, scafati e furbi, mettevano Rodolfo e me a fare il palo, nel caso che arrivasse mamma. E mentre lei andava a fare la spesa al mercato del pesce e della carne, loro due facevano scivolare il marmo di quel tanto che bastasse per arrivare al vassoio dei dolci, che ingenuamente, aveva sistemato in uno dei due sportelli del comò. Era evidente che facendogli quegli scherzi là, mettevamo il disordine nel primo cassetto, quello sotto al marmo, dove c'erano le medaglie e i calendari tascabili del barbiere, con le donnine formose e le cosce eccitanti. La povera

mamma, quando apriva il suo comò e trovava i segni del nostro passaggio, si metteva le mani ai capelli, chiedendosi, come riuscivamo a fare quei danni là, poiché le chiavi erano ben custodite nel reggiseno. Allora, senza sapere né leggere, né scrivere, cosa che era vera, visto che sapeva fare solo la sua firma, ci allineava in fila per uno e ci bastonava e ci mordeva, per quattro, come se fossimo i figli della vicina. A Ciccio, quando era il suo turno, gli dava qualche morso in più, dicendogli:

- Questo è per ieri, che mi sei scappato, oggi sei qui e paghi anche per quello. In quelle situazioni, dopo il massacro, il silenzio si abbatteva sulla casa e dopo la tempesta di colpi e morsi che c’erano piovuti sulla testa, calava il sipario. Sembrava il Conte Ugolino, intento a mangiare i suoi figli. Poi, sfinita e pentita, si lasciava cadere sulla sua poltrona di velluto rosa per chiedere perdòno al suo Dio che, ancora una volta, non interveniva in nostro aiuto, ma la perdonava generosamente. Papà, aveva ragione quando diceva che Dio era democristiano e che non amava i figli dei comunisti! Una settimana dopo ricominciavamo, ed erano ancora botte ma qualche volta, gli scappavamo e andavamo a chiedere protezione a nostro padre che sorridendo, ci dava la soluzione:

- Fate la conta e quello al quale tocca la sorte, va a casa e incassa per lui e per gli altri tre. Una volta che vostra madre si sarà sfogata su uno solo, forse risparmierà gli altri. E noi facevamo così, ma non sempre ci andava bene. E lei cambiò il nascondiglio e li mise nell'armadio, e li chiuse a chiave, e noi, come prima più di prima:

- Spostavamo l'armadio dal muro e con un cacciavite che l'ignara vicina ci prestava, svitavamo le otto vite che reggevano il compensato e ripetevamo i saccheggi di sempre. Era il cane che si mordeva la coda; noi rubavamo e mamma picchiava e ci strappava le carni di dosso. Poi e sempre al centro di quella stanza, guardai verso quell'armadio che non c'era più! Al suo posto, una macchia chiara, come a ricordare che quello era stato il posto dell'ultima dimora dei nostri pochi indumenti. Mi avvicinai a quel rettangolo di muro, per appoggiarvi la fronte e ritrovare una parte di quegli odori che ero venuto a cercare. Strinsi i denti, quasi a rompere la mia nuova dentiera e lasciai piangere il mio cuore e poi, andai nell'altra stanza, quella che mio padre aveva battezzato, il crocevia della nostra quotidianità. In effetti, quel luogo, erano i quattro cantoni, intorno al quale scorreva la vita di tutti i giorni, fossero questi belli o brutti, perché allora si viveva quasi sempre insieme e fuori ci si andava poco e lì accanto, c'era la cucina e noi che avevamo sempre fame, giravamo intorno a mamma e ai suoi fornelli. Gli svaghi erano rari e la televisione s'era fermata a Roma, contrariamente a Dio che, non s'era fermato a Eboli, ma c'era la radio e c'era papà con le sue storie e mamma, che quando papà non le faceva le corna, cantava ed era felice. Entrai in quella stanza e reinventai il decoro.

A destra, appena passata la porta, c'era un canapè-letto e attaccato a quel giaciglio, una delle otto

sedie che componevano l'arredo della tavola da pranzo e addossata alla stessa parete, una dessert che era in stile con tutto il resto della sala da pranzo: una grande specchiera, un piano di marmo, dove mamma esponeva i suoi capolavori gastronomici, sotto due vetri scorrevoli proteggevano e custodivano le sue poche porcellane di Capodimonte, che papà gli aveva regalato, quando eravamo ancora ricchi e lei, solamente per questo non li metteva a tavolo e anche perché dovevano andare a far parte della dote di nostra sorella. Poi c'era quel famoso punto d'acqua dove ogni mattina, prima di andare a scuola, ci lavavamo senza poter prendere il proprio tempo. La porta che dava nel cortile era là, tra la cucina e quel benedetto rubinetto. Da quell'apertura, ci catapultavamo nel cortile che era il nostro giardino in terra battuta e senza fiori, ma in compenso c’erano le latte della spazzatura delle case dei poveri, dove la nostra cagna e i gatti dei vicini, si recavano per cercare qualche residuo di pranzi o cene. Gettai un occhio nel cortile, dove non cerano più bimbi. Tutto era cambiato, silenzio scosso solo dal lavoro d'una macchina della legatoria-tipografia degli eredi del signor Caccetta:

-muri puliti e pavimentazione, e vetture dappertutto. Rientrai dalla parte del cortile e guardai alla mia destra, dove immaginai l'angusta cucina di mamma. Al suo posto, quel giorno c'era un macchinario per piegare i metalli, ma ai tempi nostri una parete fatta apposta da Filippo Nasca, separava quel piccolo locale dalla sala da pranzo e si chiudeva con un rideau multicolore. In quella cucina c'era la fabbrica dell'appetito, dove mamma faceva miracoli perché noi potessimo crescere e diventare forti. La parete di fronte a quella del mobile sparecchia tavola, era stata doppiata per nascondere la scala e costruirvi sotto un cesso, nel quale, dopo aver fatto le nostre merdine, gettavamo un secchio d'acqua; una porticina nascondeva quel buco senza acqua corrente. Su quella falsa parete c'era la credenza, quella che i francesi chiamerebbero: “ il garde-manger” E anche quello, come tutto il resto del mobilio era stato realizzato dal nostro vicino, signor Morgano Umberto, ebanista di grandi qualità e proprietario del cacciavite complice, senza saperlo, dei saccheggi nostri. Quel mobile era“ il supplizio di Tantalo!” La dentro cera tutto il ben di Dio che ci veniva dalla campagna di mamma e dagli affari che papà riusciva a concludere, con la sua agenzia di trasporti. E noi, i suoi quattro ladroni, anche lì, dopo avergli fatto sparire le chiavi, prendevamo a piene mani. La mia memoria, eccitata da quei ricordi, mi fece rivivere uno dei tanti succulenti pranzetti, che passammo insieme e che ora, voglio raccontare. Bisognava vedere quei pranzi e quelle cene, ma che dico, spettacoli pirotecnici, dove tutto poteva accadere:

- Mamma era la chioccia e i suoi pulcini beccavano le sue vesti e litigavano tra loro per avere i pezzi migliori. Ritornata la calma e, ogni uno al posto suo, papà sedeva a capo tavola dando le spalle alla camera coniugale. Alla sua destra Cris e Melina sul seggiolone, alla sua sinistra io e Rodolfo e in faccia a papà, mamma e Ciccio, guardato a vista come uno sciuscià pericoloso e pronto a cercarci le pulci. In quanto a mamma, era sempre l'ultima a sedersi, perché vegliava, affinché non ci mancasse nulla, mentre papà faceva di tutto per costringerla a sedersi.

Ricordo che gli diceva sempre:

- Tina veni, assettiti, si no, non pozzu mangiare! E in tanto aveva finito il suo piatto e mamma, sorridendo, gli serviva l'altro. Quasi tutti i giorni c'erano a tavola la pasta e un pezzo di pecorino siciliano da grattugiare. La padrona di quella tavola era sempre mamma e con lei non si scherzava. Avevamo dieci secondi di tempo per grattugiare la nostra parte di formaggio. Ricordo che ogni uno di noi credeva di conoscere la tecnica migliore per riuscire a grattare più veloce degli altri, ma in realtà, il più furbo era Francesco - Ciccio Cammarata. Lui ci lasciava servire per primi, e poi prendendo tutto il suo tempo, diceva a papà:

- Dicci di quella volta, quando ragazzo, sul molo del Rio Grande del Sole pescasti tutti quei pesci. Papà abboccava e noi dietro ad ascoltare quelle storie, mentre Ciccio grattugiava senza tregua. Altro che dieci secondi! E non contento, mentre noi pendevamo dalle labbra di papà, i secondi diventavano minuti, mentre il mariolo insisteva:

- Racconta papà! Cunta papà! E in tanto ci fregava, perché sapeva, che non volevamo scontrarci con lui, soprattutto io e Rodolfo che non facevamo il peso ma Cristofaro non si lasciava fare e di tanto in tanto gli mollava na cuzzata, (una manata) tra capo e collo. E da quel giorno il suo sopranome divenne: “ cunta Papà, cunta Papà!” E ancora oggi che ha 77 anni, quando

c'incontriamo a casa dell'uno o dell'altro, lo chiamo cunta Papà. Avevo visitato tutto il piano terra. Non mi restava che visitare l'ammezzato, mentre il vecchio artigiano che aveva capito tutto, mi diceva:

- Salga pure e faccia attenzione ai gradini di legno. E la scala si mise a scricchiolarmi sotto ai piedi come un'antica compagna che riconosceva uno dei suoi 4 ometti d'un tempo. Ed io, me la presi comoda, perché volevo assaporare i gradini della scala della mia travagliata e impossibile infanzia. La camera di sopra, era piena di materiale metallico ma tutto quel disordine, non avrebbe potuto impedirmi di provare le stesse emozioni che avevo vissuto nelle altre due stanze. Quanti ricordi e quanta nostalgia, e quanti topi, sfrecciarono tra le nostre gambe! Quel giorno non cera più il grano che li aveva attirati, c'era solo ferro e i topi che non amavano quel tipo di mangiare, non abitavano più in via del Teatro Massimo 17. Ed io non ebbi paura di quel brutto ricordo che aveva dannato le nostre notti e ci aveva fatto gridare:

- Papà aiuto! I topi ci attaccano!

-Mi addossai a un ritaglio di parete libera, per vedere e cercare di ricordarmi com'eravamo sistemati:

- Alla destra del balcone, il pilozzo in scaglie di cemento, dove mamma lavava i panni della nostra tribù e dove, a volte, ci permetteva di prendere delle docce rachitiche e scomode. Quattro materassi di crine vegetale su delle tavole d'olivo sostenuti da trespoli di ferro. Un solo comodino, tra i letti di Cri e Francesco, un solo interruttore e una miserabile lampada per la sera. Chi gestiva l'erogazione dell'elettricità era il futuro professor Cris Cammarata. Dirimpetto ai loro letti c'erano quelli di Rodolfo e Arturo. Noi due non avevamo comodino, ma una sedia impagliata dove posavamo i nostri modesti indumenti. Nella grande parete, alla sinistra di Cri, a mezz'aria c'era una finestra che dava sull'enorme stanza da letto di mamma e sotto a quella finestra, quei maledetti dieci sacchi di frumento, dove i topi, tutte le notti, venivano, si servivano e dopo una buona pennichella, se ne ritornavano nelle loro caverne, che avevano scavato sotto al pavimento della cucina. E pensai a Catania, a quell'epoca, dopo l'ultima guerra mondiale, e a tutte le città italiane, che vivevano all'ora dell'arte di arrangiarsi, cosa che per certi versi, accade ancora, da Napoli a Porto-Palo, che è la punta estrema della mia terra di Sicilia. E intanto in quell’ammezzato, cinque figli, avevano vissuto nel terrore, i soli a non aver avuto paura dei topi erano stati, papà, la gatta e la cagna Zaff, che quando ne acchiappava uno, non lo mangiava ma era sazio di soddisfazione e miagolava di piacere. Il suolo della cucina era diventato come una fetta di formaggio svizzero, pieno di buchi, che papà e Fulippu Nasca, riempivano di pezzi di vetro, carbone e calce che non servivano che a rallentare, per qualche giorno, il loro passaggio. Per andare al cesso dovevamo bussare e salire con i piedi sul bordo della latrina, per non farci mordere le natiche. Venivano da tutte le parti:

arrivavano sul grano, si servivano e ripartivano. Quando il sole abbandonava, via del Teatro Massimo e scendeva la sera, il cielo si faceva scuro e tu non li potevi vedere, né difenderti, ma loro erano già la sopra, dietro i sacchi, zitti zitti. Mica erano scemi. Ci lasciavano rasserenare, entrare sotto alle lenzuola, spegnere la luce, rimboccare le coperte e poi, ci tappavamo le orecchie, sperando di trovare il coraggio per addormentarci. 30 secondi, non più di tanto e un concerto come di macchine da scrivere iniziava e noi stringevamo le natiche e pregavamo che nessun topo saltasse su uno dei nostri letti, in cerca di carne umana. Una notte sì e l’altra anche, Ciccio sognava quelle bestiacce immonde e nel sonno gridava:

- Zaff, pighiulu, pighiulu, u surici è Ddo letto, non tu fari scappari!( prendilo, il topo è nel mio letto.) Poi, all'apice della paura, gridava:

- Cristofaro, adduma a luci! Accendi Cristofaro! Ma quello non rispondeva, perché conosceva i suoi sogni, che erano i sogni di tutti noi. E Ciccio continuava a chiamare e Cristofaro rispondeva:

- Si o frati. ( si fratello mio). Ma non accendeva niente e Ciccio, disperato, afferrava una scarpa e gliela lanciava contro. La luce si accendeva, Cristofaro inforcava gli occhiali e mezzo addormentato, lo guardava e lo trattava come si faceva con le femminucce:

- Piagnucolone, non ti rendi conto che stai sognando? Ma quella notte era tutto vero e Zaff, all'ordine, come un attendente, era saltata sul letto e il topo, Ciccio e la cagna, in quelle lotte

impari, cadevano dal letto. I topi sopra al grano, nel più totale disordine, saltavano dai sacchi e prendevano la fuga per andare giù, loro avanti, la gatta e la cagna dietro, e tutti insieme si scapicollavano per le scale, ritrovandosi tutti davanti alla porta dello stanzino di Melina, dove il bestiario si batteva. I topi avevano sempre la peggio e scappavano, lasciando qualche cadavere davanti alla porta di Melina, che per quella notte non avrebbe smesso di piangere e chiamare mamma, che mai e poi mai sarebbe venuta in suo aiuto. Mamma, alla vista di un topo, anche se morto, sarebbe svenuta. Di quelle notti ce ne furono tante. I primi raggi del sole inondavano la nostra stanza, la calma ritornava nei nostri cuori e noi saltavamo a piedi giunti per correre nel cortile e dire buongiorno alla vita... Ma intanto bisognava prendere una decisione a proposito di quelle bestiacce. Papà era amico del guardiano notturno del consorzio agrario, il quale ogni notte con una grande trappola a botola, catturava i topi che attentavano ai cereali dei loro depositi. Quell’uomo ce la prestò per una settimana, e una sera, papà e la trappola a topi si presentarono a casa; il marchingegno sembrava un’opera di Leonardo da Vinci; aveva la forma d’una caverna di filamenti di ferro; quel cavallo di Troia all’incontrario, c'impressionò come non mai, e poi, svanita la sorpresa, ci si mise ad armeggiare. Un pezzo di pecorino nel ventre di quell'aggeggio, e la fossa Caudina venne sistemata nella cucina, ma prima di andare a letto, dall'alto in basso, come per una battuta di caccia, grandi e piccoli, con casseruole, coperchi e grossi cucchiai, ci mettemmo a fare un baccano da matti, come nelle ( battute) in Africa. La cagna e la gatta, aspettarono ai piedi della scala le bestie rivali; acchiapparono tre topi che, credendosi furbi, erano già saliti sopra e s'erano sistemati dietro ai sacchi di grano. Famiglia Cammarata e topi- 3 a 0 e palla al centro. Finalmente un po’ di pace. Una notte d'attesa tranquilla e senza topi nella nostra stanza, perché eravamo certissimi che il pecorino messo dentro al ventre del cavallo di Troia ci avrebbe vendicato:

- A mezzanotte e tre quarti, grida stridule come di bimbi cattivi, ci fecero drizzare sui letti e correre giù, come se fosse la notte di Natale. Papà ci allontanò, dicendoci:

-State alla larga da queste bestie! Uno spettacolo terrificante si presentò davanti a noi. 17 enormi topi s'erano lasciati intrappolare al 17 di via del Teatro Massimo. Si mordevano tra di loro, senza curarsi del pezzo di pecorino che li aveva attirati la dentro. La tendina multicolore, se l'erano tirata dentro a quell'inferno, trasformandola in coriandoli di stoffa e sangue. Poteva farlo solamente Papà. Riempì d'acqua la grande vasca di zinco e li affogò dentro a quel recipiente, dove ogni domenica prendevamo il nostro bagno!!! E mentre noi pensavamo al dopo esecuzione, papà che voleva che la condanna fosse eseguita all'aperto, nel cortile, col suo frastuono e quello dei topi, fece saltare dai letti, i vicini dei bassi, che vennero per vedere la valle di Roncisvalle. E si fecero le ore piccole, perché l'indomani era domenica e poi, bisognava vederli morire e sentirli gridare e se era il caso, andare a dormire felici e sperare che, da quella notte avrebbero capito e se ne sarebbero andati lontano da noi. Per i topi, da quel giorno, casa nostra sarebbe diventata zona minata e per qualche kg di grano, non valeva la pena di lasciarci la vita. Quel massacro si ripeté per ben sette notti e loro, stupide bestie, vennero e morirono e poi, ragionando tra loro, capirono, e i pochi superstiti, come gli ultimi apache se ne ritornarono nelle fogne sterminate della città di Catania. Grossi topi non se ne videro quasi più, in compenso, una famiglia di topolini sbarazzini, che fino a quel giorno non aveva osato mettere piede a casa nostra, decise di venirci a sfruculiare e disturbare il ritrovato morale e come se non bastasse si moltiplicarono a una velocità supersonica. Quei topolini si misero a saltare, anche loro, sui sacchi di grano e qualche volta anche sui letti e anche s'erano piccolini, erano pur sempre topi. La gatta e la cagna ne acchiapparono tanti, guadagnandosi la stima di tutta la famiglia. Un solo neo all'orizzonte! Nostro fratello Francesco, non riusciva a superare il trauma che, la storia dei topi, esercitava nella sua anima che sapevamo in bilico. Era lui che, ogni sera, rincasava per ultimo per non incontrare nessuno di noi e per non essere preso in giro, arrivava alle ore piccole, e intanto svegliava tutta la famiglia con i salti che faceva per fare capire ai topolini che lui era lì e non voleva vederli tra i piedi. Cristofaro non sopportava più quel baccano che gli rompeva il sonno e qualche altra cosa. Uomo di principio e a modo suo coraggioso, decise di dargli una lezione che non avrebbe dimenticato mai. Un pomeriggio che stavamo facendo i compiti, con l'aiuto della gatta e della cagna, catturammo tre topolini bene in carne e belli da vedere. Organizzammo la messa in scena di quella che sarebbe

diventata una notte d'orrore per quel rompi palle di nostro fratello. Mamma e papà, erano già a letto e noi che facevamo finta di dormire, verso le dieci di sera, senza far rumore, quatti – quatti, come gatti, scendemmo e una volta giù, incominciammo a operare:

-spago topi e tanta volontà di finirla, una volta per tutte, con Ciccio. Il primo cadaverino l'attaccammo all'interruttore della sala da pranzo, il secondo alla putrella di sostegno che stava sopra alla scala e il terzo sull'interruttore dell'ammezzato. Poi, come attentatori anarchici, ritornammo nei nostri letti e aspettammo che arrivasse il disturbatore della quiete familiare. A 50 metri da casa nostra, riconoscemmo la sua voce, perché, se pur stonato, cantava sempre. Poi appena fu a pochi metri dall'ingresso fischiò per inviare un messaggio cifrato agli animali domestici e ai topi. Aprì la porta con gran rumore e svegliò Papà che disse:

-Ah! Sei tu! Sempre l'ultimo, chiudi la porta e non fare il solito baccano e non svegliare i tuoi fratelli che hanno studiato fino a tardi. La cagna e la gatta gli vennero accanto come a rassicurarsi reciprocamente e poi:

- Buona notte Pà e …notte Mà! Il suo cuore si mise a pompare e poi s'imballò e subito dopo, con tre salti, fu davanti alla porta della sala da pranzo. La sua mano cercò e trovò l'interruttore, ma al suo posto, un piccolo peluche, aveva preso la forma dell'abituale bottone, offrendosi alla mano tremante di nostro fratello che, rendendosi conto di quello che gli stava capitando, come Tarzan nella giungla, gridò e svegliò tutta la famiglia: Papà e Mamma non risero, ma in compenso, Melina-Cita, la scimmietta, incominciò a piangere, mentre noi ci sbellicavo dalle risate. Giù, nella sala da pranzo, Ciccio, incazzatissimo e accompagnato dagli ululati della cagna imboccò la scala, dove si prese il topo sul viso, e là, ancora una volta gridò tutta la sua rabbia. Alla fine della scala, come ogni sera, l'attendeva l'altro interruttore, dove sapeva che giaceva l'ultimo cadaverino di un innocente topolino. Non ebbe più paura, ma pur sempre terrorizzato, accese la luce, prese la bestiola per la coda e andò dritto verso il letto di Cristoforo che finse meraviglia e cercò d'abbozzare un timido sorriso ipocrita e dicendo:

- Che c'è, cosa ti succede?Che cosa ti prendeeee?

Per tutta risposta si prese quattro topolinate in faccia, restando a guardare e fingendo stupore e disgusto. Mentre Ciccio, che non demordeva, s'avvicinò al mio letto:

- E questo è per te, cretino e complice d’un fratello che si crede spiritoso!

E non risparmio Rodolfo che incominciò a piangere e a chiamare Mamma e Papà. Qualche momento di sbandamento e poi gli saltammo tutti e tre addosso, ma avemmo la peggio lo stesso, perché la sua forza si era centuplicata e nessuno poteva arrestarlo, nemmeno Papà che era salito, fingendo di non sapere e cercando di calmare le acque. Ciccio ci additò e disse a Papà:

- Guardali bene questi fetenti, a partire da domani, sarà bene che si paghino delle guardie del corpo, perché se non lo fanno, te li storpio! E noi, per qualche settimana, rasentammo i muri di casa e quelli del quartiere, sempre insieme, come fratelli siamesi.

Le cugine e i cugini di campagna.

Topi a parte, quanti ricordi, belli e brutti, ricchi d'insegnamento o meno. L'inizio dell'anno scolastico ci riportava le cugine e i cugini, quelli dei paesi di mamma e papà. L'inferno che, tutti insieme scatenavamo era tale che, topolini e topoloni decisero di farsi le valigie e partire. Mamma era la nutrice che dava da mangiare e per negligenza anche ai topi che venivano sempre più di rado, mamma non badando ai sacrifici; ci dava la dolcezza spontanea della sua vecchia campagna: buona cucina, dolci e ogni ben di Dio. La casa, che era già piccola per noi, diventava una caserma: le ragazze dormivano nella sala da pranzo che si trasformava in un letto a cento piazze e i ragazzi nell'ammezzato. Sotto era tutto in ordine, controllato e protetto da mamma, che vigilava. Sopra era un altro mondo: scherzi da preti, barzellette piccanti e irripetibili, materassi all'aria e lotte interminabili, che quasi sempre finivano a schifio ( a bordello). Era l'anarchia e papà, che amava la vita e i giovani, ridiventava bambino, e giocava con noi e raccontava di socialismo e cambiamenti, convinto che, presto, avremmo avuto un mondo migliore. Ogni pomeriggio, si giocava al pallone e le femminucce, tifavano per gli uni o per gli altri. Ogni gol che segnavamo, scatenava

l'entusiasmo della giovane folla. Facevamo troppo bordello e le mamme del cortile, ci cacciavano via e noi correvamo in piazza del teatro massimo per finire l'incontro. La sera, nel cortile, al chiaro della luna, maschietti e femminucce giocavano a nascondino e qualcuno di noi, i più intrepidi, facevano camminare le mani sui corpicini delle ragazzine, rimediando qualche calcio nelle palle. Il sabato pomeriggio, i campagnoli, riprendevano la corriera e ritornavano ai loro villaggi, per ritornare il lunedì di dopo. Domenica mattina era il rito del bagno. Mamma accedeva i fuochi e riscaldava enormi casseruole d'acqua, piazzava nella sala da pranzo quell'enorme vasca di zinco, dove avevamo affogato i 17 topi della prima volta e di tante altre. Il primo a lavarsi era sempre papà, e in quel caso, noi andavamo nel cortile, perché non era bene che vedessimo nostro padre nudo. Preso il suo bagno, se ne andava dal barbiere, che a quei tempi restava aperto anche la domenica, fino alle ore 14. Poi veniva il nostro turno: Cris, Francesco, io e poi Rodolfo. Ed ecco che, una domenica, come gli ammutinati del Bounty, i fratelli Cammarata cercarono di rivoltarsi contro l'autorità della mamma. Cris che era il più grande, fu delegato per di convincere mamma a smetterla di spogliarci e di lavarci, l’uno dopo l’altro, come se fossimo ragazzini. E quella domenica, Cris, prima di spogliarsi, affrontò mamma. Povera donna! Quel suo ragazzo, il migliore tra tutti noi, il più a modo, gli proferiva parole che suonavano come un affronto, Cris tentò di fare capire, a quella cara mamma, che l'ora del pudore era suonata e che era bene che smettesse di spugnarci come baccalà e che nonostante la nostra differenza di età, avremmo voluto occuparci della nostra igiene corporale. Il morale di mamma si sbriciolò.

-Come e perché, quei birbanti avrebbero potuto fare a meno di lei? Povera e cara mamma che non capiva l'imbarazzo dei suoi figli che crescevano, senza che lei se n'accorgesse. Mamma ascoltò in silenzio e dopo una lunga pausa disse:

- Ti capisco! Sei grande e questo posso anche accettarlo, ma io devo controllare l'igiene di quei tre che m'imbrogliano sempre. Cristofaro sapeva bene che non poteva sacrificarci sull'altare dei suoi diritti, l’aveva promesso. Alla fine della loro conversazione, mamma capitolò, ma pretese una vittima e fu deciso per Rodolfo, che come Ciccio, ci odiò per un mese intero e poi anche lui, col tempo si liberò e raggiunse il mucchio ribelle. Ecco tutto quello, che la visita di quella casa, aveva risvegliato in me! La voce del vecchio signore mi riportò alla realtà:

- Ha ritrovato le sue impronte?

- Si signore, grazie!

Qualche giorno dopo ritornai in Francia, a Parigi, nel mio ristorantino“ Terra Nera.” Il mio pellegrinaggio, come sempre m'annodava l'anima, lasciandomi portare nel cuore, battiti d'emozioni forti e indelebili. Il tempo non ha potuto cancellare un passato che sarà sempre presente e il pensiero per quella casa, dove noi tutti, abbiamo lasciato qualcosa che rimarrà per sempre, vivo in noi: tesori di souvenir e amori. Ciao, amara Terra di Sicilia, arrivederci piccola giovinezza che mi ha lasciato in bocca il sapore delle migliori nostalgie. Il solo rimpianto che mi resta, è la partenza di Mamma e Papà!

Ricordi e memoria

Non avevo che da scegliere, e allora, presi i ricordi. La memoria è un gendarme senz'anima che t'inchioda ai piedi delle tue responsabilità perché non puoi manipolarla, né modificarla. La memoria è una montagna che può diventare una valanga e schiacciarti, salvo se lei, a tua insaputa, decide di suicidarsi. Con i ricordi, tu puoi giocare, rimetterli nel cassetto o tirarli fuori alla domanda, per abbellire il tuo profilo per la posterità.

Tra i miei ricordi c'è n’è uno che vale la pena di raccontare:

-Durante la mia infanzia m'ero inventato un compagno di giochi, al quale potevo dire e raccontare tutti i silenzi della mia anima. All’'inizio fu bello, perché non mi sfidava, non obiettava, era accondiscendente e assentiva con un segno della testa. Quei suoi silenzi m'intrigarono. Gli pizzicai un braccio, ma lui non disse nulla, perché era sordo e muto, ma pianse lo stesso. Eppure era così

gentile! Dovetti cancellarlo dalla mia giovane vita, mentre lui, sarebbe voluto restare. Gli anni passarono facendomi dimenticare quel bimbo, adesso che sono vecchio e solitario, da qualche anno, nel secreto della mia anima è sbocciato un nuovo compagno, che m'è piovuto addosso, fresco – fresco, dal profondo mondo dell'immaginario che, a volte, ha abitato le mie nevrosi. Senza averglielo chiesto, invade casa mia, come certi sentimenti che fan bene a restarmi lontano. Questo personaggio non è sordo e muto, parla e rompe per due, col resto di tre e ogni giorno che passa cerca, come può, di spalmarmi la pomata, fingendosi utile e dilettevole. Per farlo accettare a mia moglie, c'è voluto tutto il mio istrionismo e tutta la sua pazienza. Cara donna, che cosa non farebbe, per darmi ragione: accettarlo, vederlo e parlargli come faccio io. Questa storia è cominciata due anni fa quando, smesso di lavorare, sono andato in pensione; insieme alla mia donna, ci siamo ritirati in esilio, nella nostra casa in riva al mare atlantico, a San Michel chef chef. E' da un anno che questo mio sosia vive con noi e tratta il cane e la gatta, con affettuosità, e loro che sono buone bestie, si strusciano a lui come se fosse uno della famiglia. Quindi, volente o nolente, in questa casa in riva al mare, tutti gli vogliono bene e l'accettano come un calmo delirio della mia mente, che spesso s'ammala d'una follia dolce che serve e quanto mi serve... Ogni mattino, quando ci mettiamo al tavolo della prima colazione, lo vedi arrivare dalla mansarda dove dorme. Si siede accanto a me, alla mia sinistra, la parte più sensibile del mio cuore. Fa mille domande, alle quali, spesso, non rispondo perché non mi va di sentire le sue chiacchiere. Inventa troppo e crede d’esser il mio alter-ego. Con le sue storie, cerca di portarmi a spasso e spesso, a dire di mia moglie, ci riesce. Terminato di sorbire il suo caffè, mi posa la solita domanda di tutti questi giorni passati insieme:

- Per caso, così tanto per parlare un po’, prima che te ne vai e mi lasci solo a casa, vuoi sapere che sogno ho fatto questa notte?

Fingo d'essere infastidito e cerco di prendermi gioco di lui, e lui ci casca. Sa bene che di lì a poco: Dominique, io e il cane andremo al supermercato per fare gli acquisti e lui, resterà solo in casa, col gatto che non gli parla e i pesci dell'enorme acquario, che restano sempre muti come pesci. S'incazza, perché non vuol capire che non possiamo portarcelo dietro; è miope e maldestro. L'ultima volta che è venuto con noi, è inciampato su di una vecchia signora, che cadendo s'è spezzato il femore. Gli ho messo un nome eccentrico, quello di Pierrot le fou, Piero il pazzo), un vecchio personaggio della criminalità francese. Quel mattino, avevo tempo da perdere, e per farlo contento, gli dissi:

- Non più di cinque minuti, racconta e sii breve.

- Allora, posso raccontare?

- Ma sì, vai, racconta pure!

- Questa notte ho sognato che, con la tua vettura...

- Piero tu sei pazzo, quante volte devo dire di non prendere la mia vettura, soprattutto quando fai certi sogni!

Il mio spirito di patata non lo fece sorridere, ma piuttosto, salì in cattedra avvilito e offeso per dirmi:

- Figlio di una ballerina impertinente, smettila di prenderti gioco di me! Se io fossi veramente reale e palpabile, è da tempo che avrei piegato i bagagli e ripartito da dove son venuto.

Lo sai o no che, con la tua fantasia di merda, m'inchiodi ai piedi della tua follia?

Rimasi pietrificato, senza sapere come fare per parare quella filippica.

- Scusami Piero, era per sdrammatizzare, vedo che t'incazzi facilmente e sei privo d’humor.

-Prometti di star zitto e di lasciarmi raccontare quest'altro sogno?

-E’ così sia!

-Stavo passeggiando nella strada parallela, il lungo mare di San Michele, quando a un tratto vidi una folla di curiosi sul bagnasciuga; fermai la tua vettura, scesi per vedere e m'incamminai, facendomi largo in mezzo a quella folla dove mi sembrò di vedere Dio, che nonostante la mia invisibilità mi guardava come se fossi una bestia venuta da un altro pianeta. Il mio sguardo incrociò il suo e l'obbligò ad abbassare gli occhi, colpevoli (?!) Sulla spiaggia, tra alghe e meduse morte, giaceva il corpo di una donna che per miseria e disperazione aveva cercato di finirla; era là,

stesa sulla sabbia in mezzo a quella folla indifferente o solamente curiosa. Era gonfia d'acqua e aria come carogna d'animale. Due gemelli di appena sette anni, in ginocchiati davanti a lei e in lacrime, cercavano con le loro piccole mani, d'aprirgli la bocca, nella speranza di rimettergli in corpo il soffio della vita, ma la madre non si lasciava fare, perché, in virtù di non sai quale diritto divino, si rifiutava alla vita, mentre Dio e la folla restavano indifferenti, a guardare. La madre era morta e nemmeno Dio poteva ridargli la vita. Egli, il Signore dei cieli e di ogni luogo, era dietro di me e questo lo so, perché sentivo il suo alito, che sapeva di zolfo. Senza alcuna paura, mi girai e lo fissai, tanto che cosa mi poteva fare? Non ero mica una sua creatura? L'affrontai; l'uno in faccia all'altro, come nella scena della cavalleria rusticana, quando compare Alfio affrontò compare Turiddu, per una questione d'onore.

E Dio parlò per dirmi:

- Perché mi guardi? Ed io:

- Perché non hai fatto nulla?

- Ti sbagli, ho fatto tante cose e pure gli uomini; tocca a loro, occuparsi dei propri simili, di aiutarli e renderli degni di vivere sulla mia terra. Lo so Piero, tu non sei una mia creatura. Tu non sei altro che un ologramma inventato da un uomo pieno di tic. Sappi che non posso occuparmi di tutti i casi.

- Lo so! Tu ti occupi di cataclisma, di terremoti, delle epidemie e degli uragani, con i quali spazzi e uccidi indiscriminatamente, molta povera gente. Ti fai passare per un Dio misericordioso, giusto e amico degli onesti, ma in verità, l'apocalisse delle contraddizioni, sei Tu e solo tu!

E la rabbia mi prese, per questo Dio ipocrita e impotente! E mi svegliai da quel sogno, cadendo dal quel miserabile letto che mi hai destinato nella tua soffitta! Il sogno accusatore di Piero il pazzo, per tutto il tragitto che va da casa mia al supermercato, ci diede un bel po’ di materiale per masturbarci il cervello e farci discutere. Dominique, dopo quanto aveva raccontato Piero, capì che il nostro ospite non era uno qualunque, ma una creatura sensibile e quasi umana, ma super rompi palle. Mia moglie era già davanti alla porta, aspettando che mi sbrigassi, se no, con le chiacchiere di Piero, avremmo trovato i magazzini chiusi.

- Sbrigati!

- Il corridoio, il giardino, la strada e poi, come d'abitudine, lupo, il mio cane, va a mettere il naso in tutte le pipì dei suoi colleghi cani, per leggere le-mail e le ultime storie di culo dei rivali del quartiere e fuori. Trovo la vettura dove l'avevo lasciata la sera avanti, segno che, la storia di Piero il pazzo, era solo un sogno. Lupo non vuole salire in macchina; c'è una pipì che l'intriga più delle altre, sicuramente, deve essere la lettera di una sua spasimante. Fischio, ma lui non demorde, si attarda ed io grido il suo nome. Al tono della mia voce, capisce che sto preparandogli un calcio sul ventitré; si finge afflitto e si nasconde dietro a mia moglie che ride e mi dice:

-Lasciagli il tempo che gli occorre, è vecchio e ancora vergine, lascialo sognare e annusare.

La mia indulgenza è grande ed io, lo lascio salire senza calci in culo. Metto in moto e lascio che la vettura se ne vada da sola, come un asino che conosce le contrade. L'immagine di Piero è là tra noi, nel sedile di dietro e il mio cane,gli si strofina addosso. Mia moglie si gira verso di me e dice:

- Perché fai questa faccia? Hai dormito male? Non sopporto più le conversazioni che hai con quel pazzo che ci vive accanto e ti mette a soqquadro l'anima, diventando porta parola delle tue angosce che si trasformano in incubi!

- Cara e dolce sposa, forse tu non lo sai. E' grazie a Piero, se riesco a trovare il coraggio per battermi contro la vecchiaia e contro la polvere che si deposita sulla mia memoria e mi fa artritico. Egli m'è diventato indispensabile, è la voce profonda che cerca di aprirmi gli occhi davanti al baratro non omologato. E nonostante tutto quello che riesce fare e a dire, sento che è fragile e che, quanto prima, mi si spezzerà nel cuore e tra le mani come una porcellana nata male. La mia donna comprende perfino i miei pensieri nascosti. E mentre la vettura va, noi, parlando del più e del meno, del sogno di Piero, della vita e della morte, scivoliamo sull’essenza intrinseca della vita che bene o male viviamo, ma la morte, quell'infame genia ci sorpassa, ci taglia la strada e non ci lascia capire più nulla. Non pensare alla morte e non averne è impossibile. Soprattutto quando si hanno gli anni che ho io e si sente nell'anima e nel corpo, che la vita e la gioventù delle nostre cellule hanno fatto il loro tempo. Poi, chissà perché, un giorno o l'altro, senza prevenirci, con o senza

dolore e senza rispetto per il nostro corpo, le nostre cellule si toglieranno la vita. Ecco perché ho paura e divento vigliacco al cospetto della morte, augurando a me e alle persone che amo, una morte folgorante e senza dolore, che cancelli dalla nostra mente questo corto o lungo momento, che va dalla vita alla morte. E Dominique, m’interrompe, per darmi il suo parere sulle mie eterne e monotone questioni:

- E' più d'un secolo che i biologi parlano e studiano la vita e la morte di queste incomprensibili cellule, senza capirci granché, né il perché, né il come.

-Lo so! Tutti cercano di bucare il segreto della vita e della morte, ed io, mitragliato dai media, mi lascio prendere dal panico. Tutti vogliamo sapere e capire. Due clan si sono formati e si contrappongono: da una parte quelli che come me, credono in un Dio della biologia e della logica e dall'altra parte, quelli che credono in un Dio divino e giustiziere. Nessuno di noi, per il momento è in grado di spiegare il fenomeno della vita e le ragioni della morte, che non sono quelle che racconta la chiesa, dai suoi altari.

Mia moglie è atea come me e come me, legge tanto e insieme ci poniamo le stesse domande. Vorremmo capire e spiegare a chi ci ama, perché le vite sono così brevi. Sono diciassette anni che viviamo insieme e che, abbordiamo il capitolo della vita e della morte e delle sue conseguenze, che non sono sempre uguali per tutti. Ogni sera, prima d'andare a letto, lei mi prende la mano, la stringe sul suo seno e dice:

- Arturo, lo sai o no che hanno scoperto che milioni di non si sanno quante cellule si uccidono per permetterci di vivere meglio? E come al solito, io che sono pessimista, replico, dicendo:

- Tutti questi miracoli biologici, sono limitati nel tempo. E mi viene alla mente, la lunga e irrefrenabile storia della corsa degli spermatozoidi umani: un'orda selvaggia di non sa quanti individui, sale lungo il canale della vagina della donna. Gli uni e gli altri, si calpestano e uccidono i propri fratelli e sorelle, certi di poter imporre il loro marchio di fabbrica e il diritto alla paternità della vita, che si realizzerà. Tutto accade come al casinò: mongoliani, futuri scienziati, mediocri, figli di puttana, homo, etc, etc... Uno solo e non sempre il migliore, feconda l'ovulo. Sono sempre e solo gli spermatozoidi che faranno il male e il bene della società nella quale viviamo. E' forse questo il miracolo della vita? Una cellula, risultato del matrimonio tra un ovulo e uno spermatozoide maligno e furbo, si divide in due e poi in quattro e poi ancora in otto e così di seguito, per diventare un embrione, un feto che si farà vita, che sarà domani: l'uomo, la donna o l'altro? Vita e morte di milioni di cellule che, per una logica scombinata e incomprensibile, ci fanno vivere e poi morire. Perché gli appuntamenti con la morte, accadono a una certa ora, piuttosto che a un altra?

Nel ventre delle nostre madri, appena nati, piccoli, mentre certi figli di puttana vivono, senza le cellule suicidate, fino e oltre ai cent'anni. Forse è questo il miracolo della vita? Ditemelo voi! Spesso, io e mia moglie, nei giorni di sole o di triste grigiore, aspettando che la morte ci freghi, tenendoci per la mano, ce ne andiamo a passeggio in luoghi dove, gli speculatori della terza età, erigono case di riposo di un certo livello. Poi, camminando come se niente fosse, attirati dagli odori dei crisantemi e del rosmarino, entriamo nei cimiteri e chiediamo se c'è posto. Guardiamo le foto dei morti e leggiamo gli strazi delle famiglie. Poi, sempre sullo stesso tema, entriamo nella bottega del beccamorto e gli chiediamo:

-Scusi, quanto costa un funerale? E all'annuncio dei prezzi, sconcertati, di comune accordo, decidiamo di farci cremare. A buoni intenditori, poche parole! Quella sera, rientrando a casa, non ritrovammo più Piero il pazzo. I giorni e le notti passarono, ma del nostro Piero nessuna notizia. Nessuno tranne noi, poteva incontrarlo e vederlo, e chiedere alla gente se l'avessero visto, sarebbe stato stupidoe inutile. Poi, una sera di Dicembre, ritornò come un boomerang.

Bussò, lo vidi davanti a me, affranto e deluso, e prima che io dicessi qualcosa, come un oracolo parlò:

- Il mondo di fuori è più forte di me, ti prego, lasciami entrare! La tua casa è la sola dimora sicura! Poi vedrò, se ne valga la pena di tentare un'altra sortita. E si materializzò e diventò il mio secondo io, e mi fece paura. Mio Dio, cosa avevo mai fatto! Piero mi ritornava con gli occhi abbassati e la testa giù come una visiera. Era uno straccio che grondava sudore, malaticcio, affamato e gelato. La

sua non era più una silhouette ma carni e ossa; aveva un viso che era il mio, aveva il corpo che gli avevo clonato. Posò la sua pesante mano sulla mia spalla, ma prima che potesse parlare, stringendolo a me, gli dissi:

- Perché ti ho fatto così come me? Eppure, era?Doveva essere un gioco, è solo un caso, s'esisti! Non doveva succedere e invece sei il mio doppio, ma di cosa? Come se non avessi abbastanza guai. Sono certo che anche tu, vorresti capire e sapere cos'è la vita e la morte, o no? La vita e la morte, su questa terra, si annoiano e nei due casi, si realizzano senza avvertirci. Sopravvivere è complicato, perché la vita ha pochi alleati. Al contrario, la morte, aiutata dall'alcol, dal tabacco, dalla droga e dalla pazzia, distrugge la vita, tiene banco e vince sempre! Noi, macchine umane delicatissime, inconsciamente, creiamo i presupposti per la morte. Piero mi ascoltava e intanto, il suo viso incominciava a perdere i segni dell'incoscienza dei primi giorni del nostro sodalizio, quando ancora non aveva nessuna sembianza umana. E iniziammo un lungo dialogo tra sordi, senza renderci conto che dicevamo le stesse cose, perché eravamo una sola persona. E lui volle sapere, se nella mia vita, avevo assimilato tutto quello che avevo vissuto. E gli risposi, per tagliare la testa al toro:

- Secondo te, quanto pesa il fumo?

- Perché, si può pesare il fumo? Ha un suo peso specifico?

- Certo che si può, vedi questo mio sigaro! Ora lo pesiamo, poi lo fumerò, facendo attenzione a recuperare la cenere. Alla fine di questa lunga fumata, peseremo il sigaro restante e la cenere, il peso mancante, farà la differenza che ci darà il peso del fumo. E credimi, che se non avessi visto un film americano che parlava di questa cosa, ancora oggi, non saprei come fare per pesare il fumo e le persone. Nella vita di tutti i giorni, molti casi e tantissime persone, si chiudono a riccio per impedirti di capire i contorni. E se tu li prendi di petto, ti possono esplodere sul viso. Piero mi guardava come se fossi un maestro di vita ma osservandomi con una certa diffidenza, mentre io mi sentivo fiero di me e in quel momento di narcisismo, lo strinsi a me, dicendomi:

- Arturo! Ti voglio bene, lo sai?

Un mese dopo, Piero uscì definitivamente dalla mia vita, lasciando un gran vuoto in questa casa, dove mancheranno per sempre i racconti dei nostri sogni comuni. Forse s'è costruita una sua vita, forse no. Ed io, non saprò mai perché è venuto e poi sparito. Forse ho clonato il primo uomo sulla terra! Il tempo continua a passare, ed io e la mia famiglia non abbiamo più notizie di lui. Per ammazzare il tempo, con Dominique, cerchiamo di fare il punto sugli errori che si possono commettere e lei si mette a dire:

-Lascia stare, non parlare, qualunque cosa tu possa dire o fare, ti distruggerebbe; ti prego, dimentica il passato e guarda davanti a te!

-mia cara, dovresti sapere che riconoscere i propri errori, non è un atto di vigliaccheria, ma di coraggio e responsabilità. Poi, come preso e posseduto da una follia dolce, declamai, come il personaggio principale dell'Orlando furioso dell'Ariosto:

-Io, Arturo Cammarata, figlio di Vincenzo e di Arcangela Conti, io, l'imbecille per eccellenza, figlio di più continenti, nato ai piedi dell'Etna, da una famiglia senza storie importanti, ho preso la strada dell'esilio volontario per prostituire la mia anima, in cambio dei soliti bisogni atavici che ci fanno mendicanti. Oggi, parlo ancora la lingua antica degli affamati. Le mie mani hanno fatto mille mestieri. Ho cavalcato la rabbia senza riuscire a domarla. I consigli di mio padre non sono serviti a niente. Diventato, col tempo, padre anch'io, mediocre e limitato, raccontò ai miei figli, quello che mio Padre m’aveva insegnato, molto tempo fa. A ogni tappa delle loro giovani vite, ho raccontato quel rito magico, tra padre e figli e ho detto:

-Restatemi accanto e immagazzinate nei vostri cuori tutti i ricordi dei miei momenti magici. Leggete e rileggete quello che ho scritto, come se si trattasse di un testamento d'amore. Rivivete le scene di vita che sono state le mie e vogliono meritare e conquistare i vostri cuori!

Lontano da voi ho perso i miei anni migliori. Se Dio esistesse veramente, cosa potrei chiedergli:

-Dio sai una cosa? Un giorno molto lontano, quando sono stato bimbo, inginocchiato davanti al Cristo, tuo figlio, gli ho detto:

-Cristo! Io Arturo non ti deluderò mai!

Ma lui non mi ha sentito, perché forse, anche lui, come te, non esiste! Quello era il tempo nel quale, non capivo perché gli uomini parlassero per non dire nulla e maneggiassero (fucili a canne segate.) La gente aveva gli occhi chiusi e quando li apriva, era solo per uccidere la vita. Non capirò mai perché Dio protegge i forti e non i deboli. Da noi, in Sicilia: le notti, i giorni e il clima, sono razzisti. La Sicilia è la terra dove Dio mostra tutta la sua potenza con arroganza divina. Spesso, penso alle stelle che sono tante, ma che non guardo più perché so che non sono raggiungibili. Ce ne basterebbero due, per riempirli di quei farabutti dei quali parlano quelli che ci comandano, ma dove trovare gli onesti e forti cittadini per realizzare questa impresa. Quand'ero bimbo e poi giovanetto, cercai di capire i misteri del mondo, e ora che so molte cose, mi domando:

-Perché l’universo? Perché la vita e solo su questa terra di merdaioli. Accadde un giorno dei miei 14 anni, quando la mia mano si staccò dal cielo che la luce degli uomini giusti mi conquistò, senza Cristi, né Maddalene, e a partire da quel giorno, feci a meno della religione cristiana o altri surrogati. Imparai a diffidare dei falsi profeti e innalzai un muro intorno a me per proteggere i miei sentimenti e il mio posteriore. Divenni un uomo dalle mille facce, ma una sola, la vera, fu per mia Madre, alla quale dovevo tutto, anche quella mia vita scombinata, della quale, lei, non era responsabile. Le altre facce le usavo come una carta di credito, falsa e cortese. Tardi e senza sapere il perché divenni padre. Amburgo, in Germania, a quarantatre anni, che fino allora, non avevo visto scorrere. Fu lì che mi accadde un miracolo! Un angelo che tenni in braccio per qualche minuto appena, era nato. In quel momento, il mio solo desiderio fu quello di poterlo vedere diventare grande, accanto a me per insegnargli le cose della vita. Invecchiare con lui e finire la mia corsa con la sua mano nella mia, vecchia e ossuta. Come sarebbe stato bello passargli il testimone della mia persona che avrebbe continuato in lui. Doveva accadere e una legge di vita incomprensibile, si trasformò in legge di morte e me lo strappò dalle braccia e dal mondo dei vivi, ma non dal mio cuore, dove pascola ancora, insieme al ricordo del suo viso d'angelo. Tutti i giorni che sono passati e hanno divorato il mio cuore, non riusciranno a cancellarlo dalla mia mente.

-1978, se n'è andato non so dove. Se n'è andato come l'agnello di Dio, che non avrebbe brucato mai l'erba della vita, perché era stato sacrificato sull'altare del Caos! Se potessi, vorrei, per un giorno solo, riprodurre il miracolo della sua nascita, resuscitarlo, un giorno, nient’altro che uno, per vederlo sullo schermo di quella che sarebbe potata essere la sua vita. L'ora della sua vita e quella della sua morte si presero le gambe nella tagliola, obbligandomi a correre dietro alla sua dolce immagine che resta solo un amaro ricordo. Mi rassegno, ma il destino, non riesce a domarmi e continuo a trascinarmi dietro al suo dolce viso d’allora; il dolore e gli sguardi della gente, che mi conoscono, non possono chiedermi:

-Ce l'hai una foto di tuo figlio? Come è tuo figlio, bello?

La morte e il rispetto per quel mio grande dolore impediscono quella dolce domanda. Quel giorno, in collera, guardai quella piccola vita che se n'era andata via, come fa la giustizia degli uomini che non è uguale per tutti!

Perdonatemi, e se qualcuno di voi non trova cronologia e tempi, questo accade perché povera è la mia grammatica.

Vento di tempesta

-IL carnevale vertiginoso dell’anno 1960 stava per chiudere i suoi battenti. Coriandoli e cartacce inutili volteggiavano sulla mia testa e tutto intorno, perché c’era vento di tramontana, mentre io, non curante, fantasticavo tra la folla della vasta piazza del duomo della patrona di Catania. Un foglio, che credetti senza importanza, s'attaccò al risvolto del pantalone e ci s’incastrò dentro. Cercai, senza riuscirci, di scollarmelo di dosso scuotendo il piede per farlo volare via in quel mare di cartacce che mi giravano sempre e ancora intorno come uccelli del malaugurio. Quell’impertinente pezzo di carta voleva possedermi come l’edera che si attacca ai muri delle vecchie case di campagna. Infastidito, lo presi per un lembo e quello, per tutta risposta, mi s’incollò alla mano come se gli appartenessi. La cosa diventava comica e allo stesso tempo

fastidiosa e per qualche minuto, come un’equilibrista, si mise a saltare, da una mano all’altra, come a volermi dire.

-E cazzo, leggimi!

Era una lettera manoscritta, che un figlio, dalla guerra, scriveva alla sua mamma:

Febbraio 1918, montagne del Carso.

-Cara mamma adorata, ti scrivo dal fronte durante un momento di calma precaria… E mi arrestai perché capii subito che quella lettera era la testimone di una sofferenza che avrei dovuto leggere con più attenzione e che, s’era il caso, con rispetto e compassione, perché era una delle mille e più storie di guerra di quei tanti giovani che vissero e morirono a causa del primo massacro mondiale. La piegai religiosamente e la misi in tasca. Mi guardai intorno e vedendo che il bar del duomo era ancora aperto, entrai, mi sedetti e comandai un tè caldo. Fuori dal bar, tutto era grigio e faceva freddo, l’obelisco egizio, sulla schiena dell’elefante di pietra lavica, s’annoiava sul piano di Santa Agata, lontano dalla sua terra d'Egitto, mentre la facciata della cattedrale, portava ancora i segni della seconda guerra mondiale. Ero al caldo dentro al bar, aprii il foglio di carta, ingiallito dal tempo e incominciai a leggere:

-Cara mamma, scusami se non ho scritto prima. La guerra prende tutte le mie forze e mi confonde le idee. Se tu sapessi com’è terribile veder morire tutti i commilitoni. Ieri, oggi e domani, i nostri fucili e quelli dei nemici, al suon dei cannoni, sparano sinfonie di morte che sembrano simboleggiare ed esprimere le nostre follie. Il cannone non cessa di sparare, m'assorda ma non può impedirmi di scrivere. Mamma, dubito dell’esistenza di Dio. Come è possibile che faccia morire certuni e non altri, quelli che meriterebbero il castigo divino. Questa guerra, è il risultato degli errori dei nostri padri che non hanno fatto nulla per impedirla. Quando finirà e se gli sopravvivrò, sono sicuro, che non sarò più lo stesso uomo. Di questo macello conserverò solo i rimorsi di questa gran parte di giovani come me; sul mio corpo si potranno leggere le tracce della guerra, per l’eternità!

Perché quella lettera e perché, dopo tanti anni, giungeva fino a me? Era forse, perché mio padre, l’aveva combattuta? Ero il destinatario di quella missiva a scoppio ritardato? In quella lettera c’erano altre parole che l’usura del tempo aveva cancellato. La fine di quella straziante lettera si chiudeva, con i saluti d’un figlio a sua madre:

- Con tutta la mia tenerezza affettuosa, vostro figlio Peppino, alla prossima mamma!

Ripiegai la lettera di quel giovane e m’incamminai verso casa. Avevo appena 25 anni e abitavamo ancora, al n 17 della via del teatro massimo. Mia madre e mio padre erano ancora in vita e nessun grande dolore, m'aveva colpito ancora. Quella sera era una di quelle un po’ speciali ed io, non so perché, mi vedevo bello e forte. Eravamo giovani che tentavano il tutto, per tutto, pur di riuscire a tirare la testa fuori dalla cloaca; sognavamo a occhi chiusi, perché la luce del giorno non era bella da vedersi. Quella sera, come tante altre, me ne andavo bighellonando come un cliente deluso da quel carnevale di merda. Dal duomo a casa mia, c’erano quattro passi, ma più tosto che passare per via Vittorio Emanuele e girare per via Landolina, me ne andai per il corso Etna, svoltai ai quattro canti e presi la via Di San Giuliano. Davanti al teatro dell’opera, l’eco del bel canto, mi fece imboccare la via Perrotta, dove si situava l’entrata degli artisti e dove a volte mi piazzavo, per vedere entrare tenori e soprano della lirica. IL portiere era amico di mio padre e forse comunista come lui. Vedendomi e riconoscendomi, mi fece segno d’entrare. Poi, sentendomi artista anch’io, con passo teatrale e ben studiato, entrai e lui, gentilissimo, mi disse di piazzarmi tra le coulisse e le montagne di corde. Da lì avrei potuto, quasi, toccare le dolci forme del soprano. Sulla scena, Mimì, cantava a Rodolfo:

- Mi chiamano Mimì, ma il mio nome è Lucia!

Era in momenti come quelli che, la musica e le possenti voci degli artisti, riuscivano a scuotermi e a farmi apprezzare il piacere di vivere in osmosi con il resto del creato. Calò il sipario, si spense la luce, si svuotò la sala, ed io, felice, salutai l’amico di papà e m’incamminai verso casa. Come al solito, mio padre, s'era addormentato davanti alla televisione, ma mi sentì entrare e svegliandosi mi disse:

- Ah, sei tu? Non ti rendi conto che ora è?

- Scusa Pà! Posso chiederti qualcosa?

- Certo figlio mio! Gli raccontai della lettera che avevo trovato e gliela lessi.

- Lasciami vedere questo foglio tutto stropicciato e sporco. Inforcò i suoi vecchi occhiali che sapevano di mille letture e dopo averla riletta e ben riflettuto, rispose:

- Nella mia compagnia c’erano tre Peppino, due erano del mio villaggio e il terzo era di Catania. La lettera potrebbe essere del catanese, ma non sono certo che sia lui. Me la diede indietro e subito dopo, si rigirò verso la televisione e si mise a russare. Da quella sera, 38 anni sono passati e quella lettera, ora, dorme nel bel mezzo di un mio libro di poesie siciliane, scritte da Giovanni Formisano al quale ho preso in prestito alcuni passaggi, per il prosieguo. Papà e mamma non sono più su questa terra, né su di un’altra. Io sono padre, nell’aria e sulla terra, alla quale appartengo, non ci sono guerre; da 50 anni vivo a Parigi, dove posseggo un ristorante, anzi l’avevo, vicino al Panteon. Ora mi sono trasferito sulla costa atlantica, dove do l’impressione d'essere un uomo appagato e felice ma resto pur sempre, l’incarnazione di tutte le pene dei miei antenati: Amo, odio e perdòno come fanno tutti i deboli della terra. Le mie tristezze si sono trasformate in immagini sintetiche che forse, un giorno, troveranno un posto nella pace del mondo dei morti, laddove potrò vivere l’impossibile vita dei sogni abortiti. Speso mi guardo indietro e mi rendo conto dei guasti che ho fabbricato. L’occhio della saggezza e la mia precoce vecchiaia, mi hanno fatto attaccare, alle pareti della mia stanza, ritratti di famiglia che mostrano la vita che vivemmo, durante 1946.

Catania, il golfo d'Ognina e Giovanni Formisano che mi prende la mano, e mi permette di utilizzare una sua vecchia novella siciliana che trasformerò a mio uso e consumo;

1946. Un ricordo speciale e peccaminoso fu, quello del quartiere a luci rosse del vecchio San Birillo, dove tutte le notti si trasformavano in giorno e i giovani e i meno giovani, affamati di sesso, addentava femmine a buon mercato. Ero giovanissimo, quando il mio corpo mosse i primi passi nel modo del vizio più bello e recondito di ogni uomo. Era anche il tempo della precarietà che non aveva nulla a che vedere con la precarietà che oggi vive questa società sazia e obesa. Per noi, vivere e sfamarsi, non erano imprese facili. Anzi, se non eri vaccinato, non potevi sopravvivere. A guardia dell’ordine pubblico, c’era di tutto: truppe d’occupazione, ex fascisti riconvertiti al nuovo ordine sociale, collaboratori di tutte le specie, lupi vestiti d’agnello e alla fine di questa carrellata di fenomeni da baraccone, c’eravamo noi e i nostri padri, che erano uomini disperati. IL nostro Colosseo, per anni, finché non crescemmo, fu la piazza del teatro Massimo, che allora si chiamava: “Nuova luce“. Vociare di bimbi che correvano dietro ad un pallone, padri che ci guardavano e ci proteggevano, dall’alto dei gradoni del palazzo delle finanze per vederci giocare e infiammarsi come se stessero rivivendo la loro infanzia. Agli angoli della piazza, dei vicoli e delle strade, venditori ambulanti, con carretti carichi, di arance e fichi d'india e poi, c’erano anche i cocchieri con le carrozze a cavallo. Ora tutto questo non c’è più e si ha l’impressione che nel quartiere del vecchio nuova-luce, non nasce più un bimbo e non si sente più il ritornello delle loro voci, perché quei bimbi che siamo stati, sono diventati vecchi e non c'è stato il ricambio. La misura di un certo benessere, non è la felicità che assaporammo, quando piccoli e birichini, correvamo in una piazza che non ha più, i colori della vita. E poi, crescendo, ce n’andammo via, a cercare un futuro migliore, anche se una vita diversa dai nostri padri era un’anemica utopia. Promesse di riscatto, rimpianti e illusioni tante. Un crogiolo pieno d’incertezze, scosse le nostre vite di sbandati, mandandoci a spalare il vento delle speranze a Torino. Ma io, non ero come gli altri, volevo tutto e subito. Sceglievo, modo di dire, le fughe solo perché mi mettevano davanti al fatto compiuto, anche se la gente del nord mi disprezzava, rigettandomi come un negro che sapeva di pecorino siciliano, andavo avanti come un fiume di disperazione in piena.

 

Saint Michel chef chef, 22 maggio 2006:

Piove sul prato che circonda la mia casa di San Michele chef, chef, il cielo è malato e forse, solo lui ne conosce la ragione. Penso al mio sole di Sicilia e ai 35 gradi di Catania. Come sarebbe bello, se potessi bagnarmi, nel mare di Taormina! Andarci, giusto per confondere la mia tristezza, tra terra e sole, per non farmi contaminare dal male profondo che divora la mia gente. Non so, come sia potuto ritornare, nelle mie mani, il mio vecchio libro di poesie siciliane, che, allora, costava 300

lire. L’apro a caso e m’appare la lettera del soldato Peppino che pare che lo faccia apposta per accapponarmi la pelle e riportarmi a tutti quei ricordi e al 1955, quando un giorno, passeggiando sul molo del porticciolo di Ognina, in un periodo di tempesta di mare, che con le sue onde entrava e poi usciva dal porto e sballottava le barche: Anche io, come tanta gente, c'ero andato per cercare e trovare il sapore del mare. A questo punto del racconto, sento che mi ci vorrà l'aiuto del poeta dialettale, Giovanni Formisano, al quale ruberò alcuni passaggi di una sua novella siciliana, per scrivere meglio tutto quello che non riesco a dire con parole mie: grazie Giovanni Formisano, amico caro di mio padre e grazie a tuo nipote che mi ha regalato questa tua raccolta di poesie siciliane.

C'ero anch'io, su quel molo, a guardare i pescatori che non avevano fatto in tempo a guadagnare il golfo e si battevano come forsennati per rientrare, in un’impresa che sembrava impossibile.

 

“ Le campane della piccola chiesa dei pescatori suonavano per richiamare le madri e le spose di quegli uomini coraggiosi che rischiavano le loro vite, per sfamare i figli.” La gente e i familiari, incominciavano ad arrivare e a guardare verso il mare, maledicendolo. A bordo delle barche, gli uomini imprecavano e allo stesso tempo pregavano la madonna della piccola chiesa del porto e promettevano che se l'avessero scampata, non sarebbero più andati per mare e piuttosto avrebbero cambiato mestiere, ma non sapevano fare altro e qualche giorno dopo, col bel tempo o no, ritornavano e rischiavano, contro un mare che, in un momento di follia, se li poteva portare via. Quel giorno, guardando il mare Ionio, non potei fare a meno di pensare alla mia ultima tempesta d’amore che simile a delle enormi onde voluttuose, mi aveva spezzato il cuore. Anch’io, come quei pescatori, avevo promesso che non mi sarei mai più innamorato. Era a causa di quel mio ultimo amore se quel giorno, stavo passeggiando su quel molo.

 

Due mesi prima, mi ero innamorato di una lontana cugina che viveva e andava a scuola in un paesino vicino a quel borgo marinaro, era una fanciulla fresca e chiara come acqua di fonte e bionda, come le spighe di grano in agosto, era acqua e sapone e profumava di viole e zagara; suo padre, faceva il floricoltore e non mi vedeva di buon occhio e lei si chiamava Maria; il suo gioco preferito era quello di correre con me, tenendoci per mano, in mezzo ai campi di fiori del padre, in un gioco che mi rendeva ogni giorno più innamorato di lei, quasi a perderne la ragione. Tutti i sabati di quella calda estate d'amore, al calar del sole, prendevo la corriera per Acireale e poi, a piedi, raggiungevo la sua casa in mezzo ai fiori; suo padre, aveva giurato che se m'avesse visto girare intorno a Maria, m'avrebbe sparato a pallettoni.

Per me quello era stato il periodo più brutto della mia vita. Avevo fatto mille mestieri, senza riuscirne alcuno. I problemi erano tanti, perché vivevo ancora di sogni e di speranze. La mia testa scoppiava per le troppe letture male assortite. Avevo divorato i libri di quasi tutti gli utopisti della storia, comportandomi come il Chechevara dei miei tempi. Incoscientemente fiero e innamorato pazzo, da alcuni mesi avevo depositato il mio cuore ai piedi di Maria, dimenticando di riprendermelo. Quante lacrime e quanti sospiri gli avevo regalato. Poi, lei cambiò, perché aveva incominciato a capire che forse, non facevo per lei, mentre io morivo a ogni suo sguardo. Quante preghiere e quante imprecazioni per ottenere un solo bacio! Le sue labbra non si posarono mai sulle mie, ma un giorno del mese di maggio, non si sa come fu, l’attesa finì e l’incantesimo sbocciò e lei, mi fece credere che m'amava veramente. Maria aveva accecato la mia ragione, ma senza che me ne accorgessi, mi stava preparando una strana trappola d'amore e il mio stupido cuore, gli diede una mano, dicendomi, come se fosse amico mio:

- Calmati e lasciati portare dal vento dell'amore, ascolta la campana che accompagna l’Ave Maria; senti come mi faccio piccolo?Io che sono il tuo cuore. Resta muto, fascia i tuoi sentimenti e aspetta che qualche cosa di bello, ti arrivi tra capo e collo.

E fu cosi che quell’ultimo sabato Maria mi si piantò di fronte e come al solito, i miei occhi si s'affogarono nei suoi. Confusamente perduto, pensai che le sue labbra, ancora una volta, si sarebbero negate a me, ma le sue braccia, come per magia si attorcigliarono intorno al mio corpo e le sue labbra si misero ad accarezzarmi il viso con dolce malizia, poi, come se si fosse pentita di

quel gesto e di quei baci nei quali non speravo più, mi morse il labbro inferiore, lasciandomi cadere come un calzino sporco e scappando via, abbandonandomi con la passione che mi moriva sulle labbra insanguinate e il cuore in fiamme. Non mi ricordo più cosa mi accadde e quanto tempo mi ci volesse per ritornare da mia madre. Il fuoco di quei baci senza amore mi bruciò la fronte, mentre io, senza accorgermi mi ritrovai davanti casa, con mia madre sulla porta, che aspettava quel figlio che non vedeva da una settimana. Vedendomi in quello stato e credendomi malato, dolcemente, col suo amore di mamma, mi mise a letto. Per due giorni e due notti delirai come qualcuno che aveva perduto la ragione. Gli incubi e i cattivi sogni si misero a sfilare davanti alla mia fragile vita che non sapeva reagire. Mia madre mi vegliò e cercò di farmi prendere qualche medicina. Povera mamma, che non capiva quale male profondo mi stesse distruggendo. Il terzo giorno mi svegliò e mi parlò.

-Figlio mio, durante il delirio hai pronunciato frasi che fanno paura e che non voglio ripetere; cosa ti succede e chi è questa Maria?”

-Non è nessuna, lascia stare mamma e grazie per quello che hai fatto per me, in queste terribili notti. Mi alzai dal letto ed entrai nella sala da bagno, ma non mi lavai il volto, per non cancellare i baci che Maria mi aveva dato e che mi bruciavano ancora il viso. Una settimana dopo, mi presentai davanti alla scuola dove andava, per cercarla e parlargli. Qualcuno mi disse che era sparita. La loro casa era vuota e loro, non c’erano più e i campi non avevano più fiori. Un giorno di tanto tempo fa, passando da quelle parti, un suo paesano mi disse:

- Ti ricordi di quella ragazzina che t'aveva spezzato il cuore?

-” No!” Ma mentivo e lui replicò:

- Se n’è scappata con un marinaio veneziano. Non dissi nulla e lasciai che il tempo continuasse a scorrere e da quel giorno, ritornai a lavarmi il viso, cercando di strapparmi, quella parte di pelle che le sue labbra avevano sfiorato. Solo una macchia di sangue pesto, restò sul labbro inferiore, come il segno d’un amore morto. Grazie a te, Formisano Giovanni Senior.

Ancora oggi, quando scende la notte, prima di mettermi a letto, mi guardo allo specchio, per cercare quella macchia di sangue sbiadita dal tempo, che mi riporta a 45 anni fa e a quella sera di maggio, quando una donna che diceva d'amarmi, mi spezzò il cuore. Richiusi il mio vecchio libro di poesie siciliane, senza rileggere la lettera dal fronte del Carso. Chi lo sa! Forse un giorno, un mio nipotino troverà e aprirà quel vecchio libro e leggerà quella lettera e chissà se rivivrà le stesse emozioni del nonno?

Addio Peppino, povero soldato, riposa in pace, ovunque tu sia!

Morire a 16 anni                                [torna all'indice]

La ragione perturbava i miei sensi; la testa mi faceva male come una montagna sul corpo d’un malato, facendomi vacillare e piegare le ginocchia. Quella sensazione era dovuta alla morte di Mario unico amico e compagno di scuola della mia infanzia. Tutti i pomeriggi, con qualche scusa, lo strappavo all'inferno della sua famiglia. Il programma di quel giorno era una visita al quartiere malfamato e a luci rosse del vecchio e slabbrato quartiere di San Birillo; dal mattino alla sera, e oltre le ore della brava gente il sesso per tutti i prezzi, si fissava appuntamento. In quel luogo, non c'erano piccoli hotel saporosi per fare l'amore, ma solo dei piano-terra, senza acqua, né elettricità e ogni sera, ci si veniva per respirare il buio dei misteri e degli intrighi più peccaminosi. I resti di quelle che si sarebbero potute chiamare donne, s'offrivano a palati poveri e affamati. Quel giorno, all'ora del crepuscolo mi trovai davanti alla porta della casa di Mario, bussai e dalla strada, sentii colpi e ingiurie da far drizzare i capelli in testa; certamente dovevano essere i suoi genitori che come al solito, si stavano battendo. Il mio martellare la porta, li fece smettere. Un omone, versione orangutan, apparve sulla soglia, in canottiera e tanti peli di scimmia sul torace e sulle spalle, che sicuramente gli servivano per proteggersi dai giorni freddi. Mi guardò come faceva abitualmente e mi disse:

-Sei tu, entra, non farmi prendere freddo!

Ma fuori c'era il sole che splendeva, mentre in quella tana, non c'entrava, né l'astro lucente, né la felicità, perché vi vivevano gente come loro due, l'orco e la sua femmina e anche perché quella casa

era una caverna di trogloditi. E quando chiuse la porta, ebbi la sensazione che stesse chiudendo alla vita e alla luce. In quel proprio istante ebbi paura per me e pena per Mario. Vedendo quel padre, capii che quel mio compagno viveva una vita da incubi e che correva verso il precipizio un giorno dopo l'altro; quella era destinata a esplodere in malo modo. Suo padre non era come il mio che era dolce e poetico, ateo e comunista, sensibile e amabile, idealista e contadino. Papà era sempre disponibile e pronto a darci consigli per farci crescere bene e meglio. E quel giorno, davanti a quello strano padre, mi sentii investito d'una missione speciale: Salvare Mario, ad ogni costo e s’era il caso, trasformarmi in angelo custode.

-Allora, Mario, l’hai già dimenticato che dobbiamo fare i compiti e che mia madre ci aspetta con due belle tazze di cioccolata! Il padre gorilla, che aveva smesso di battersi e grugnire con la sua femmina, aprì la porta e disse:

Liberate la stanza, fuori di qui piccoli marioli! E noi, come due fratelli siamesi, ci catapultammo all'aperto, sotto i raggi di un sole di settembre che ci accolse a braccia aperte. Guardai Mario, mentre il suo volto riprendeva i colori della vita, quella che non costava molto, ma che, a noi, bastava. Mario era diverso da me e dagli altri compagni del gruppo semi-selvaggio al quale appartenevamo, lui, gioia di vivere o no, portava sempre sulla fronte le rughe delle vecchie persone e non c'era verso di scuoterlo. Arrivammo in piazza del Teatro Massimo. Sulla scalinata del palazzo delle finanze, ad aspettarci, c'erano 8 piccoli nani, quasi tutti portavamo ancora in pantaloni corti e il primo pelo sulle cosce. Lungo il percorso da casa sua alla piazza, cercai di farlo parlare e lui, in lacrime, disperato e fiducioso mi disse:

- Credo che mio padre stia per diventare pazzo; è come un fantasma, ogni notte, parla agli spettri, la morte è la sua migliore compagna, il suo modo di fare ci ghiaccia l'anima e uccide tutti i nostri buoni sentimenti.Cercai di rimontargli il morale perché, infondo, lui ed io eravamo due rubacuori, lui era biondo ed io bruno, ci chiamavano ”Black and White”. Le ragazzine del quartiere non ci resistevano. La sera, nel gran cortile del n°15 della via del teatro massimo, i ragazzi e le ragazze giocavamo a fare il papà e la mamma, al dottore e all'infermiera e sollevando le gonne, cercavamo di mettere le dita nelle zone minate. Ma i nostri piani per strappare qualcosa di più che un piccolo bacio, fallivano e qualcuno di noi ci rimediava qualche calcio nelle palle. Quei giochi, nelle sere d'estate, duravano non oltre le dieci della sera, poi i padri e le madri chiamavano le loro pollastrelle. Eravamo i bimbi che erano nati alla vigilia della seconda guerra mondiale. Mario ed io, eravamo della classe 1935. In quanto a me, avevo una gran voglia di vivere, Mario, al contrario degli altri, voleva morire e questo, io non l'avevo capito. Quella tragedia, non me la sarei mai aspettata. Quando, sui gradini del palazzo delle finanze, la banda fu al completo, partimmo per via delle finanze, “campi elisi della prostituzione a buon mercato.” Da ogni lato di quella via, stradine e vicoli, mostravano vecchie matrone, che s'offrivano per pochi soldi; le loro gambe erano sempre a 90 gradi, e a 300 Fahrenheit; le loro grosse mammelle si sparpagliavano su degli enormi ventri di Buddha. Erano truccate come maschere veneziane per nascondere il disfacimento dei loro visi. La prostituzione non era solamente quella delle femmine d'ippopotamo, c'erano anche le case di tolleranza di lusso, quelle di media qualità e quelle per la massa e i soldati. Erano come i convogli ferroviari: prima, seconda e terza classe e noi potevamo andare solo nei carri bestiame.

Le vecchie prostitute cercavano di attirarci con gesti da donzelle che venivano dalla campagna, ma non facevano altro che spaventarci, tanto erano sfatte e pesanti. Giravamo per ore e oltre il tempo che c’èra consentito nelle stradine e i vicoli di quel mondo di forti odori e di peccato spicciolo, per trovare amori a basso prezzo. Quando a un tratto, in un vicolo, da una casa color rosa, apparve, come se fosse stata una venere, un corpo di donna che fulminò Mario e anche noi. Mario tirò fuori di tasca 100 lire e mi disse:

-Dio, come è bella! Ma era solo il figlio della portinaia del palazzo San Giuliano. Ed io riconobbi quel volto e gli dissi:

-Non vedi che è un travestito?

-Si, lo vedo e che ci fa! E' più bello di tutti questi relitti e in più, hai visto i seni e le gambe, che dici, avi anche u sticchiu?( la passera, la tana, la gniocca). Non dissi nulla, perché sapevo che voleva pagare quello scotto, e lo lasciai andare. Sembrava come pazzo e non voleva sentire ragioni. E se

n'andò con quell'uomo che voleva prendere come se fosse una donna. Lo vedemmo entrare e sparire in quell'alcova equivocamente falsa. Noi continuammo a girare e poi, come sempre, andammo a sbattere il muso davanti alla porta della grossa Maria la napoletana. Mario aveva finito e ci sfrecciava davanti come un coniglio ferito, rosso in viso e amareggiato, perché certamente si rendeva conto della fesseria che aveva fatto. Ritorniamo a noi, a quei 7 nani che aspettavano davanti alla porta chiusa della vasta napoletana che sicuramente stava sul letto con un altro minuscolo cliente. Ero il più grande del gruppo e quindi potevo parlare in nome di tutti e poi, c’ero già stato con lei, era una donna pulita, ed ero certo che ci avrebbe dato più piacere di tante altre. Svuotammo le nostre tasche d'ogni forma di moneta e francobolli vari, li contammo, ma mi resi subito conto che forse, sarebbero bastati appena per quattro scopate, o meglio ancora, mini-scopate. Il cliente usci ed io, mi avvicinai a Maria, che mi conosceva già, e con un'aria di veterano di mille e più passe ( a umma- a umma) cercai di negoziare un prezzo di gruppo. Lei fece un gesto come se volesse dire:

-sciò - sciò, iatavenne a casa, e che! Me vulite fare arrestare per adescamento di minori deficienti comme a vui? Ma noi eravamo decisi e Maria aveva bisogno di soldi per nutrire i suoi piccoli e pagare la balia che s'occupava di quei cuccioli senza pedigree.

Per 300 lire e nello spazio di 15minuti fece fuori i nostri cazzetti, o pisellini che dir si voglia e poi, soddisfatti, uno dopo l'altro, ci lasciammo accompagnare alla porta come dei signori. Io, come un uomo vero, importante, uscendo davanti allo sguardo ammirato dei miei compagni più piccoli, posai un bacio, tra i suoi grossi seni e gli dissi:

“Alla prossima Maria!” E così, grazie a me, quel giorno, i più piccoli della banda scoprirono cosa volesse dire fare l'amore e perdere la verginità. Felici, coglionati ma scarichi di adrenalina, partimmo verso la bella piazza del palazzo dell’opera per ritornare a sederci sui gradini dell’immobile delle finanze. Mario era già là e ci aspettava con lo sguardo di cane bastonato; si avvicinò a me per cercare il mio perdòno e poi, prese il coraggio a due mani e incominciò a parlarmi:

Arturo, amico mio, certi giorni nascono bimbi che non conosceranno mai le gioie della vita. Altri giorni nasceranno altri bimbi che verranno al mondo per essere coccolati e curati dai loro genitori, fortunati e ricchi. Io appartengo al primo gruppo. Le pareti dei miei sogni non sono abbastanza grandi, per contenere il mio male di vivere. La sua bocca, smise di articolare e si bloccò e come un mendicante, attese che gli rispondessi. Come ogni giorno che vivemmo insieme cercai di far passare un messaggio, che per la nostra età, non era facile dire e fare:

-Scusa Mario, ho l'impressione o piuttosto sono certo che tu drammatizzi, credo che siamo troppo giovani per parlare di certe cose. Perché vuoi complicarti la vita? Lo so che tu fatichi e soffri più di me, ma questo non ti autorizza a lasciarti andare alla deriva, non è ancora la tua ora. Esci dal buco nero nel quale vivi. Tenta e cerca di localizzare, attraverso te stesso, l'energia per non lasciarti fottere l'anima. E pensare che tutto quello lo dicevo io, che ero più incasinato di lui:

-Ritrova l'equilibrio e la pace, non contaminarmi l'anima con questo tuo dolore assurdo e non farmi parlare come una persona grande; lasciami scazzare, vivi e lascia vivere! Ma che cosa ti arriva di così grave, per spingerti a bruciare la vita da tutti e due i lati?

-Brucio la mia vita e la mia anima perché non ho il diritto di possederne una. Oggi ho perduto la mia verginità nell'alcova di un travestito, perché era la sola bellezza femminile, nel corpo di un uomo che si prostituisce nel quartiere delle tue donne ippopotamo, brutte e vaste come Maria la napoletana. Un segnale di speranza? Non lo vedo venire! E tu, Arturo, tu non puoi fare nulla per aiutarmi. Come me, sei troppo piccolo; al contrario, le mie pene sono grandi, come le colpe degli adulti.

-Perché anneghi la tua vita in silenzio e non ne parli con tuo padre?

-Perché il mio quotidiano, non è il tuo e la mia voglia di fottermi all'aria è solo la mia.

Poi, come uno zombi, lo vidi partire verso il porto, o meglio ancora in direzione degli scogli del golfo di Catania. Il filo che ci teneva, l'uno unito all'altro, si era spezzato. Non mi resi conto, non vidi arrivare quel suicidio, perché avevo creduto che volesse prendere un bagno per strapparsi di dosso l'odore del diverso. Per un mese intero, i pompieri, cercarono il suo corpo nei meandri più

oscuri delle profondità marine e un giorno che mi sembrò un'eternità, il mare c’è lo restituì. Il suo cadavere approdò sulla spiaggia di Catania, oltre il porto; il corpo era immacolato, un dolce sorriso ornava le sue labbra, un'anima pia, aveva intrecciato una corona di alghe, e cinta la sua fronte. Un angelo ci aveva lasciati e quel giorno, ci ritornava morto, in mezzo ai vivi... Un malessere indefinibile mi strinse il cuore, e quell’essere privo di vita mi fece sentire colpevole di non aver capito. Mario mi aveva lasciato il suo mantello di dolore, che ancora oggi, porto con me nel cuore.

Premessa: mentre scrivo, leggo le critiche del mio negro di turno che trova esagerato i dialoghi de miei due giovani protagonisti; scusami, caro ed affettuoso grillo saccente e colto, lasciami indossare i loro panni e scazzare.

Delirio

Ramacca, sulla strada della Minarda. Restano solo parole rubate alla realtà del mio passato. Da alcuni anni cerco tra le macerie dei miei antenati, imponendomi il ruolo d'esploratore delle loro vite che non sono state delle migliori. Quando eravamo bambini e mamma possedeva ancora la terra della Minarda e papà guadagnava tanti bei soldini, noi, i loro scugnizzi, andavamo a passare le vacanze scolastiche a Ramacca. Il cammino che affrontavamo per arrivare alla collina di mia madre era sinuoso e impervio. Il grano dorato danzava ai lati di quel nostalgico percorso; oliveti, mandorleti, filari di fichi d'india e qualche rudere dell'antica Grecia che mi facevano viaggiare nella storia, quella che si studiava sui banchi di scuola. Tra un rudere e l'altro mi fermavo a guardare e a immaginare il passato di quelle contrade. Quel percorso durava 25 minuti a piedi, e poi tutto a un tratto, vedevi apparire la Minarda, la terra dei tuoi avi. E là, negli anfratti, potevi vedere i fantasmi degli uomini e degli animali che vissero ai tempi dei tuoi antenati, piegati a quattro zampe, al capriccio delle stagioni, tra filari di grano e cotone, al capriccio degli anni che non son sempre uguali; grattando la terra e cercando di guadagnare il pane per ieri. Questi erano gli umani animali che restavano saggiamente ai loro posti e si fingevano amabili, per piacere ai padroni. Ora sono solo ricordi intrisi di grande amarezza e piccole nostalgie, prima era la quotidianità. Le piante mi ritornano alla mente con i loro profumi, quella del rosmarino, del finocchio selvatico, del cappero, dell'origano e della zagara. Momenti e poi ore di ricordi e d'avventura, accompagnate dal canto delle cicale, aria pulita e senza concimi chimici. Ed entravo nell'aia dove trovavo gli uomini di mano intenti a spagliare il grano, le case della masseria ai piedi del Cucuzzolo della montagna degli impiccati( U Poi a furca), dove m'arrampicavo impavido, facendo scappare conigli e gazze ladre, e poi, con un po’ di fantasia, immaginavo l'esecuzione di alcuni cafoni che avevano osato tener testa al padrone d'un tempo, che per fortuna non esiste più, ma ora ci sono tanti caporali, la forca non c’è più, al suo posto, un vecchio piede di ulivo troneggia, ed io, quando arrivavo in cima al monte della forca, mi appoggiavo a quell'albero e come uno sparviero affondavo lo sguardo sulla piana di Catania, con i sensi in disordine. Stordito dall'odore forte della zagara in fiore e col cuore sereno, scendevo verso le terre di mio zio Turi, il fratello di mia madre. Ah! Se potessi, oggi, a 74 anni, con un passepartout virtuale, rivedere la collina di mia madre e pescare a piene mani le gioie di quel periodo che fu, mi ritufferei, una volta ancora, in quei paesaggi che la mia vecchia memoria vacillante vorrebbe cancellare. Il tempo non riesce a farmi dimenticare ed io mi rivedo insieme ai miei fratelli e ai tanti cugini intenti a correre in mezzo ai campi di grano, a caccia di cicale e farfalle. Avevamo sempre, a portata di mano, scatole di cartone bucherellate, a forma di prigione per mettervi dentro gli animaletti catturati. La sera non si ritornava in paese perché le notti erano ancora più belle se si passavano con i grandi. Il garzone della fattoria prendeva un gran telone e lo stendeva sulla paglia che era rimasta sull'aia e ne faceva un enorme letto da mille e una notte. La frenesia ci prendeva; perché sapevamo quello che, di lì a poco, sarebbe successo; due gruppi sparigliati e non sempre della stessa forza, si sarebbero dati battaglia. I Nicolosi, i Cammarata e i Conti, avvinghiati gli uni a gli altri, per suonarsele di santa ragione. Stanchi e senza più forze, ci lasciavamo cadere come guerrieri che non avevano più niente da dirsi. La quiete dopo la tempesta, ventri all'aria e occhi fissi verso il cielo a

cercare di decifrare il linguaggio delle stelle e capire il perché dell'universo. I più grandi fra noi, discutevano e parlavano di comete e probabili mondi lontani. Noi, quelli più piccoli, stanchi di sentire le loro papalate, ci lasciavamo vincere dal sonno. A poco a poco, anche i grandi, si addormentavano. Silenzio totale, rotto di tanto in tanto da un abbaiare di cani, che cercavano di snidare qualche coniglio incosciente e suicida. Il mattino, i belati degli agnelli e i muggiti delle vacche annunciavano l'ora della colazione, e noi, come l'armata Brancaleone, si correva a cercare la propria tazza che sapeva di rancio militare. In una mano la mini-gamella e nell'altra un pezzo di pane di campagna; non era uno qualunque, era il pane di Ramacca, e non lo dimenticherò mai, perché a quei tempi, quando volevi fare un complimento a qualcuno, bastava dire:

- Sei buono come il pane di Ramacca. Il vaccaro non riusciva a tenerci a bada e disperatamente diceva:

- Calma, buoni figli d’una santissima madre!

-Noi non smettevamo di reclamare:

- A mia, a mia!

Era il tempo di quando, per noi, la vita era bella e senza limiti; ora tutto è vuoto e sporco. Quelle che furono le nostre terre, oggi si animano solo in due occasioni: una al tempo delle semine e un'altra al tempo della raccolta del grano. Le fattorie cadono a pezzi e quasi più nessuno abita le campagne. La povertà d'una volta aveva una certa dignità. La pseudo opulenza di oggi è la vera miseria. L’immagine che offre la realtà, è quella di povera gente perduta, alla ricerca di un mondo che non ritornerà giammai e che continuerà a navigare nell'effimero. Seduti sul nostro culo sogniamo di viaggiare in una realtà diversa da quella che viviamo nei nostri ghetti. Nel bel mezzo di questa transumanza umana possiamo vedere e sfiorare certi uomini, che non potendo governare il mondo, si arrangiano per corromperlo. I rassegnati, quelli che non sanno dirigere la cosa pubblica, danzano fra loro come bestie addomesticate. Segnati dalle paure ancestrali, compiono i gesti che i marionettisti della vita gli insegnano. Popolo incosciente e ingenuo, che si lascia contaminare dalla volgarità di quelli che li spogliano del loro vero destino.

Orfani di felicità sconosciute, che avrebbero potuto essere le loro. Quando ero giovane, crescevo senza rendermi conto che la mia solitudine potesse essere teleguidata da una mano invisibile; la mia famiglia e quelli che dicevano di volermi bene, restavano spettatori refrattari e indifferenti davanti alla mia caduta libera.

Solo un mio compagno di banco seppe parlarmi:

-Tu sei in procinto d’uccidere la tua infanzia.

Ed io, che lo sapevo più fragile di me, non gli prestai attenzione. Avevo 16 anni e mi sembravano tanti; non sapevo fare altro che battermi contro i miei sogni abortiti, che erano solo emozioni disordinate che spingevano a cercare il mare, quello che s'infrangeva su gli scogli del golfo di Catania, per far saltellare a fior d'acqua le gallette di pietre che portavo sempre in tasca e mentre lo facevo, pensavo alla maniera per vincere la paura che mi trasmetteva il mare. Avrei voluto tuffarmi come sapeva fare mio fratello Rodolfo che era campione in tutto, ma questo non mi fu mai possibile. Un mattino di sole, di un certo mese d'agosto, la mia indolenza, m'inchiodò su quegli scogli e mentre io gettavo le ultime pietre in acqua, dove si disegnavano cerchi concentrici, vidi apparire il volto di quel compagno di banco, che un mese prima, dagli stessi scogli, sui quali mi trovavo, si era gettato per cercarvi la morte. La classe 1935 se la faceva addosso; voglia di scazzare o solo voglia di finirla? Quel volto in mezzo al cerchio d'acqua mi fece fremere e allo stesso tempo servì a scacciare i cattivi pensieri che, quel mattino, rodevano il mio cervello. E così, da quel giorno cercai di riappropriarmi del mio destino che, se avessi voluto, avrei potuto gestire meglio. Tolsi il culo da quello scoglio stregato e ritornai a casa, dove mamma aveva apparecchiato e servito dei grandi piatti di bucatini alla Norma. Il pomeriggio feci una pennichella e al crepuscolo, vestito come lo scettico blu, riguadagnai il centro storico, dove gli stolti andavano a respirare l'aria malsana del quartiere delle prostitute; anch'io ci andavo, come quegli altri, per correre incontro al vizio e chiedergli di uccidere quella voglia di sesso a poco prezzo. Solo in quei luoghi provavo un piacere amaro per il mondo che sentivo nemico. Una lacrima di pietà colò sulla mia anima e m'inchiodò in mezzo a quel carosello di femmine vaste e cariche di malattie veneree.

Le notti erano lunghe e sempre uguali. E quando arrivava il giorno, come bestia abbattuta, andavo a trovare mio padre nel suo ufficio di via Landolina n° 70, e lui, buon papà, capiva e cercava di parlarmi come se fossi un suo fratello:

-Sentiamo! Cosa hai? Perché fai questa faccia?

Prendeva le mie mani nelle sue e subito, senza perdere tempo, sospirando diceva:

-Figlio mio, cosa farò di te? Senza rispondere e senza riuscire a guardarlo negli occhi, riprendevo le mie mani dalle sue per ritornare tristemente su i passi delle mie angosce e in quel mondo che m'impediva di accarezzare la vita nel verso del pelo. In quei momenti, inchiodato davanti a lui, la mia vita di fanciullo si trasformava in un sugo acido e passato, e lo spazio intorno a me, si popolava di fantasmi che danzavano in deserti di visi deformi, malefici e scontati. E subito, il rimpianto d'esser venuto al mondo mi faceva pensare a quella santa di mia madre, per la quale nutrivo un sentimento di pena. Spesso, davanti al suo ricordo, piangevo convito che quelle mie lacrime erano per lei, ma in verità, piangevo come un coccodrillo che non digerendo le sue malefatte, le versava a sproposito e solo per se stesso. Quasi tutte le sere, quelli che non avevamo compiuto 18 anni, bivaccavamo nelle piccole stradine del vecchio quartiere di San Birillo, ma soprattutto davanti alla tana di Maria la napoletana: beltà sfiorita, 120 chili certi, 60 anni sicuri, ma quanta esperienza e che seni. Ogni volta che facevamo l'amore, per consolarmi dei miei lamenti, mi raccontava qualche episodio della sua vita, che non era cosa da poco. La sua tana impestava di sesso a buon mercato. Alla fine, soddisfatto per quel quarto d'ora di piacere, rientravo a casa. Mi svegliavo alle 6 del mattino, per andare a lavorare nella pasticceria di via Umberto, angolo via Argentina; facevo l'aiutante pasticciere e il proprietario che era un lontano cugino, mi trattava con affetto e simpatia. Alla fine del lavoro, andavo alla buvette dell'arena Argentina per guadagnarmi il diritto di vedere le riviste di avanspettacolo e il film che veniva dopo; negli intervalli servivo al bar e affittavo cuscini alla gente, che dopo ore di poltrone di ferro, rischiavano di farsi i calli al culo. Come tutta la gente che non aveva molte risorse, quando potevo vedere uno spettacolo senza pagare, mi ci ficcavo dentro, e a volte quando la serata si faceva lunga, col permesso del proprietario della sala e l'accordo di mio padre, nelle sere d'estate, prendevo una grande quantità di cuscini, li adagiavo sulla scena del teatro e ci dormivo sopra, ad aspettare l'alba e l'apertura del laboratorio di pasticceria, scendevo dal palco come se avessi calcato, anch'io, la scena. I soldi erano pochi, ma d'inverno, quando non andavo all'arena, il cugino principale mi offriva dei ricchi vassoi di cassatelle, babà e altro, perché il mattino il bancone non esponeva i dolci del giorno prima, e se ne restavano troppi, una parte si mischiava con la farina, il cacao, lo zucchero, l’ammoniaca e le mandorle per fare le piparelle; una parte di quelle paste li dava agli operai, che felici e contenti li portavano a casa per i loro bambini; il mio cartoccio era per i miei fratelli che aspettavano come aquilotti affamati. Spesso non rientravo a casa e mamma s'inquietava e se la prendeva con papà che era troppo permissivo. Tra vai e rivieni, scazza a manca e a destra la mia vita di notte, nei letti profumati di mia madre, s'infiammavano di cattivi sogni, gli incubi, puntuali come un treno svizzero o come un mostro assetato di sesso, venivano e violavano il mio sonno precario, facendomi levare dal letto. Mi rivestivo come una cavia consenziente e partivo per andare davanti alla villa Bellini, dove a mezzanotte era come se fosse mezzogiorno: la folla passeggiava come al mercato della fiera del lunedì( A fera o luni), Bar aperti e gente a strusciarsi su i marciapiedi di via Etna, dove la vita non si fermava mai; notabili, avvocati dalle cause perse e clochard anonimi, si scontravano, sfiorandosi appena, in quel che era considerato( il Macadam) il salotto della Catania barocca. E poi, in via Etnea, non ci si andava solo per leccare le basole (blocchi) di pietra lavica; la sera, in agguato, c'era Pippo Pernacchia e nessuno voleva perdersi quel fenomeno da baraccone: Petomane eccezionale, intonato e imprevedibile, e sempre pronto a rendere servizio, grazie a cinquanta lire che riceveva a ogni esecuzione. Età indefinibile, di statura piccola, modestamente vestito, ma sempre pulito della sua persona e gentile con tutti quelli che non lo sfottevano, se no, erano pernacchie a volontà e qualche brutto epiteto che avrebbe fatto ridere di te tutto il parterre degli sfacinnati ( sfaccendati) dell'ultima ora. Pippo, con un'aria da cacciatore di teste, fingeva indifferenza e dava l'impressione d'essere lì per caso; Quando, tutto a un tratto, una o più persone l'avvicinava e mettendogli 50 lire in mano, gli additava una testa di turco, ordinandogli

di fare una pernacchia. Incassava il prezzo del Peto e con discrezione e non visto dalla vittima; lo valutava, lo pesava e avvertiva il commissionario di quella richiesta, che in caso di ritorsioni, qualcuno doveva salvargli la pelle. Rassicurato, postava la vittima, la seguiva e quando gli era dietro, un concerto in do di culo, umiliava l'ignara persona, che era stata presa di mira.

Alcuni reagivano, ma non potevano perché Pippo pernacchia, stava già dietro al suo protettore, il solo che conosceva le ragioni di quell'affronto e quella persona che l'aveva autorizzato, era la vittima, che si fermava di botto. Girava sui tacchi e si confondeva tra le altre vittime del passeggio.

 

Ritornata la quiete e smorzatesi le risate, Pippo Pernacchia, continuava il suo profittevole lavoro. Ed era: come prima più di prima. Ora, a distanza d'anni, ci penso ancora, con tanta nostalgia. Allora, era da poco tempo che la guerra era finita e le facciate delle belle case di via Etna portavano ancora le tracce dei bombardamenti degli aeri anglo-americani, ed io, aspettando l'alba e guardando uno dei palazzi dei quattro canti che era stato sventrato e ferito a morte, riflettevo, mentre il tempo si consumava, senza bisogno di dargli una mano. Quella notte non ero rientrato a casa: il sole del mattino metteva a nudo tutte le miserie umane di una fauna che si preparava ad affrontare la vita come meglio poteva, e poi, strofinandomi gli occhi come i gatti, guardavo passare i primi tram e i primi autobus, pieni di uomini e donne che partivano a lavorare o a cercare una soluzione per sopravvivere. Stanco e già deluso da quel giorno che s’annunciava uguale a tanti altri, rientravo a casa per cercare di trasformare in notte quel giorno che portava su di se le stigmate delle contraddizioni e delle ingiustizie di tutti i giorni passati, presenti e futuri.

La panchina                                      [torna all'indice]

2 marzo 1997: Sole pazzo sulla città e in una piazza, all’angolo di una strada, la terrazza d’una brasserie piena di tavoli. Le prime folle di primavera succhiano i raggi del sole d’un giorno qualunque ma assetato. Come al solito parcheggio in doppia fila, la mia Toyota sbuffa, perché non la lascio mai sola e non esco dall'abitacolo, per paura di buscarmi una contravvenzione per parcheggio selvaggio; scende solo Dominique per andare a comprare una composizione di fiori per le persone che ci avranno a pranzo. Devo pazientare e aspettando il ritorno della mia compagna guardo verso quella terrazza e quella panchina che mi sta accanto, vuota ma solo per poco: due donne minute e diverse tra loro, arrivano da direzioni opposte; non si conoscono, ma questo non impedisce che si siedano, l'una accanto all'altra. La prima è bionda e forse normanna, la seconda è bruna, e forse portoghese;

La brunetta si girò verso la sua vicina ed esordì così:

-Sbaglio o è una bella giornata?

La bionda alzò il suo sguardo, la fissò e mettendosi in guardia come un pugile, prese tutto il suo tempo prima di rispondere. L'accento della portoghese era canagliesco e deformava la bella lingua francese; la parigina restò sul chi vive e non volle sbilanciarsi troppo, ma articolò un si diffidente e sospettoso, ma quella sua freddezza non smontò la brunetta che si mise a raccontare la sua vita, mentre l'altra continuava a leggere i risultati del lotto. Un uomo, dall'aspetto pulito, con un abito stropicciato come se ci avesse dormito dentro, si sedette tra le due donne; portava un gran sacco a tracollo, che sicuramente conteneva il suo guardaroba. Sistemò tra le sue gambe tutti i suoi beni e poi, per evitare di mischiarsi alla conversazione, chiese scusa, si alzò e si sedette all'estremità della panca. Lasciò cadere la testa all'indietro, mentre i raggi del sole cercavano di scongelare quel suo corpo anchilosato da tutte le notti passate all'hotel delle stelle e là, su due piedi prese sonno, cercando di dimenticare tutte le amarezze della vita. Incoscientemente libero di sognare, iniziò il suo solito concerto di “suonata russata”, attirando l'attenzione delle due donne, che guardandosi risero come due complici. Un altro uomo, giacca di cuoio, ai piedi scarpe maniera cow boy, un paio di jeans usati, sulla testa, un cappello di panama sbiadito e unto di brillantina, alla mano sinistra un pacchetto di sigarette caporale e nell'altra una bottiglia di birra grande come la sua voglia di strafare, posò le sue consunte natiche, consumate dall'alcol e dal dolce far niente, all'altra estremità del banco, mentre le due donne, per precauzione, accorciarono le distanze ma non la

diffidenza della bionda che non sapeva più dove mettersi. Secondo lei, intorno alla sua persona, c’era troppa brutta gente. Bene o male, nolenti o dolenti, le due donne parlavano, l'uomo dal gran sacco russava e il cow boy scolava la sua birra e accendeva, una dopo l'altra, le sue fetide sigarette. I miei quattro personaggi giravano le spalle alla terrazza, ma pur essendo in faccia a me, non mi guardavano e la cosa mi faceva piacere, perché mi permetteva di leggere il labiale, che sapeva di nuove storie da scrivere. Un disoccupato, scuro di pelle e certamente marocchino, si sedette dalla parte opposta della panchina, che era un sedile double face. Guardava verso la terrazza, dove la gente mangiava e beveva, fissava quel mondo senza gioia, senza troppa attenzione; di primo acchito sembrava quasi che ignorasse i clienti e il via vai dei passanti. In verità, il suo sguardo si proiettava oltre quella fauna alla quale non era mai appartenuto, domandandosi se esistesse una miseria più grande della sua. Non osava rientrare a casa e incrociare lo sguardo del suo bimbo e quello della sua cara Fatima che portava nel grembo un altro figlio, che di lì a poco sarebbe nato. Da due mesi non lavora più nella pizzeria, dove aveva fatto il cuciniere e il pizzaiolo, con la paga da lavapiatti. Malgrado tutti i suoi sforzi, il suo padrone, e sì! Li chiamano così i datori di lavoro in questa Francia di: “ libertà, uguaglianza e fratellanza”. Come stavo per dirvi, il suo padrone, piuttosto che resistere, aveva preferito mettere la chiave sotto allo stoino e licenziare il poco personale, che a volte dichiarava e spesso no! Per quel povero musulmano, la vita era stata sempre così, come l'aceto che non è sempre di buona qualità: pizzerie slabbrate e sporche, fast food di terzo ordine, tenute da padroni sempre al limite della legalità. Ecco che sull'altro lato della panchina, la biondina, stanca di sentire il cicalare della portoghese, s'alza, saluta la compagnia e se ne va per la sua strada. L'uomo con la giacca di pelle e il panama in testa, solleva il culo dal banco e anche lui, con un passo molleggiato, parte per gettare la sua bottiglia nel cestino dei rifiuti. Soddisfatto della sua sceneggiata, accende un'altra sigaretta e continua a impestare l'aria, mentre si avvia per cercare un'altra birra e un altro banco. L'uomo dal grande sacco, tira fuori dalla tasca della giacca una banana, la sbuccia religiosamente, ma l'ingoia come l'affamato che è. Si pulisce la bocca sulla manica della giacca, lisa dal tempo e dalla mancanza d'una donna che si occupi di lui. Dall'altra tasca prende un giornale letto e riletto del giorno prima e trovato nei cestini della metropolitana, dove durante le giornate di freddo va per proteggersi dalle intemperie. Lo guardo mentre lui, visto il mio interessamento, spiega il giornale, alla pagina della borsa di Parigi, come un uomo d'affari, scorrendo i titoli senza interesse alcuno. La terrazza del bar attira i turisti e gli impiegati degli uffici vicini, come fa il miele con le api. Smetto di guardarlo e con l'occhio a periscopio, cerco, di ritornare sull'altro lato del banco per immaginare cosa stia facendo il nostro povero musulmano:

Sta fissando il cameriere che svolazza tra i tavoli, vede girare biglietti e monete di banca, e subito, si mette a sognare d'un lavoro uguale a quello. Il cameriere sente e vede il suo sguardo, perché anche lui è musulmano, ma più fortunato. Si gira per meglio capire la miseria dell'altro. Gli si avvicina e discretamente, lascia scivolare 50 franchi nella tasca di Ahmed, che sorpreso e imbarazzato, stringe la mano generosa del compatriota. Una voglia d’un buon kaua ( caffè) gli prende lo stomaco, ma in tutta verità è ben altro, è fame. Ringrazia e parte verso il bistro d'Alì, nel quartiere della Bastille. Non potendolo seguire e non avendo visto bene come si sono svolte le storie di quei personaggi in cerca d'autore, inventerò, sperando che mi seguirete e leggerete. Eccolo davanti al ristorantino d'Alì, che emana un odore di couscous, che profuma l'aria di montone affogato in un mondo di spezie e legumi. In quel preciso momento, la voglia di caffè andò subìto a farsi fottere e come nella febbre dell'oro, se non avesse avuto quei 50 franchi, si sarebbe mangiato le scarpe come Charlot. La prima cosa che fece fu quella di sventolare il biglietto di banca per tranquillizzare Alì che lo fece accomodare per poi servirgli il meglio del repertorio orientale, accompagnandolo con un buon bicchiere d'Ibrahim rosso. Mangiando e godendo di quel pasto dalle mille e una notte, non dimenticò i suoi cari che l'aspettavano a casa. Mangiò solo i legumi e il couscous e portò a casa il pezzo d'agnello. Riconfortato e sazio, uscendo inciampò in un grande cartone che l’apostrofò, gridando:

- Ahi! Attento a dove metti i piedi! E Ahmed, inquieto come Geppetto col suo Pinocchio, chiese scusa, scoprendo che dentro a quel cartone viveva un vagabondo che dormiva e al quale, senza

volerlo, aveva spezzato un sogno:

-Scusate, chi siete? E l'altro:

-Sono un cartone animato! Che non si vede?

Non chiedetemi nulla; così è se vi pare! La voce di Pavarotti, canta “O sole mio”, per riportarmi alla realtà d’un giorno diverso dagli altri, ed io, continuo a guardare la panchina che mi sta di fronte. L'uomo col sacco continua a far finta di leggere i corsi della borsa, ma in realtà guarda la bruna portoghese, dicendosi e raccontandosela tra sé e sé:

-niente male!

E poi, come il principe azzurro, cerca d'immaginarla sola, senza nessun uomo tra i piedi e che, da un momento all'altro, gli dica:

-Vieni a casa mia, ti darò il mio corpo su di un letto pulito!

Ma intanto non accade nulla, mentre una vecchietta che s'appoggia a due stampelle, per aiutare le sue gambe tremolanti, s'avvicina per cercare un po’ di compagnia, in mezzo alla gente; sperando che qualcuno voglia degnarsi di parlargli; Ma nessuno se la fila e lei, dopo dieci minuti di silenzio, povera e brava vecchina, vestita di nero e aureolata d'una grande corona di capelli color dell'argento, non sapendo cosa fare, si alza, si piega fino a sfiorare i riccioli della portoghese e dice:

-Non vi accorgete che avete l'aria triste, che cosa vi succede, perché non sorridete? La brunetta mastica un'ingiuria che non riesco a leggere. E la vecchina scoraggiata, lentamente, si mette in moto come una locomotiva a vapore. Me l'immaginai in procinto di rientrare in un vecchio basso dei quartieri di Parigi, sola in un monolocale, dove non c'e più il suo compagno di tutta una vita, perché i mariti muoiono prima e resta solo la fotografia del loro matrimonio, quando lui e lei erano felici e giovani. La brunetta s'alza, l'ora di rientrare a casa, s'approssima. L'uomo col sacco capisce che forse, sta per avverarsi il miracolo e per non perdere una buona occasione; si alza anche lui e la segue; lei si gira indietro e gli sorride.

Mia moglie ha comprato i fiori e bussa al vetro, gli apro il cofano, lo sportello e lei si siede accanto a me. Il sipario scende sulla piazza, ed io, rimetto il contatto per far partire la vettura, ma prima di andarmene via getto un ultimo saluto di compassione a quella panchina e a quei personaggi che non potrò seguire e che, non saprò mai, come finiranno le loro storie. La vettura se ne va, portandomi via con lei, verso un'altra storia.......

Amore perduto, amore ritrovato                                                                        [torna all'indice]

Passiamo un terzo della nostra vita da soli, dormendo accanto a qualcuno, della quale o del quale, la presenza equivale a un’assenza. Insieme, sotto allo stesso tetto, dove ogni uno di noi vive in compagnia della propria solitudine. Siamo angeli con un'ala sola che aspettano che qualcuno gli porti l'ala mancante. Siamo come la metà di chi ci somiglia e al quale manca la metà del cielo. Ho preso in prestito questa citazione da Jacomo d'Aquino. Sempre noi e ancora noi, c'innamoriamo e questo arriva come un colpo di cannone che ci fa credere di aver trovato il vero, l'unico amore. Spesso, quell’amore si spezza, lo perdi e poi lo cerchi e ti metti a fare la faina lungo il cammino che hai smarrito lungo il sentiero della tua vita. E se lo trovi, come ti comporti? Pot-pour ( insieme) di sentimenti, rabbia, desiderio di vendetta, piacere del perdòno, appena lo ritrovi, se lo trovi. Io mi ricorderò sempre del mio primo amore: Avevo 15 anni e avevo abbandonato gli studi e lavoravo come apprendista pasticciere a Catania. Un giorno davanti al bancone del bar Manganaro, il barman che mi conosceva bene, mi propose di andare a lavorare a Vizzini, nel bar di un suo amico; quale occasione migliore, per uno specialista delle fughe in avanti com'ero. Accettai, solo dopo d’esser riuscito a strappare il consenso a mio padre, ma non quello di mia madre che preferiva di sapermi a casa con loro. Alcuni giorni dopo presi la corriera per andare nelle terre del famoso e immaginario duello rusticano, tra Turiddu e compare Alfio, nell'opera di Mascagni. Due ore dopo, la corriera s'arrestò nella bella piazza di Vizzini, dove mi aspettava il mio principale, che era giovane e gentile. Insieme, andammo a prendere possessione della mia camera, nella locanda che

si trovava a due passi del posto di lavoro. Bussammo al portone e subito dopo, una ragazzina della mia stessa età, scese e ci aprì, in braccio teneva un bambino di alcuni anni, ma non era suo figlio, era l’ultimo dei suoi fratelli.) Vedendomi, abbassò gli occhi ed io, confuso e guardandomi la punta delle scarpe, sentii drizzarsi la prima peluria sul mio tenero cuore. Poi, per ritrovare la mia precaria calma cercai le stelle che non erano ancora uscite e non potevano stare in cielo a quell’ora e quell’alzata d’occhi feci lo stesso la figura del grullo. Il padre della ragazza e il mio datore di lavoro, in disparte, parlavano del prezzo della cameretta, mentre io e lei, col bimbo sempre in braccia, restammo nel salone, ad aspettare; imbarazzatissimi, guardavamo i disegni che c'erano sulle pareti. Cinque minuti bastarono, per smaltire l'emozione e poi, trovai il coraggio e comandai ai miei occhi di puntare sul suo bel viso e capi che mi stavo innamorando. Dal canto mio era la prima volta che m'accadeva, e sapevo che l'emozione m'avrebbe fatto volare. Vidi le sue labbra tremare e le sentii dire, timidamente:

-come ti chiami? Io mi chiamo Lucia e ho quattordici anni e mezzo!

- Ed io, restai a fissarla senza riuscire a separarmi da quell'intreccio di nuove e tenere sensazioni.

- Sveglia Casanova, vieni a vedere la stanza e dimmi se ti piace! Era il mio principale, ed io non sapevo cosa rispondere, perché ero in cielo e poi in terra con gli angeli. Egli rise e ripeté:

-Andiamo Casanova! E quel giorno, tra paste e cannoli alla ricotta, non cessai di pensare alla piccola Lucia e a far correre il tempo, che non voleva passare. Non vedevo l'ora di arrivare alla pensione e sapere s'era ancora sveglia e se mi aspettasse. Lungo la strada del ritorno, vidi il balcone illuminato e la sua silhouette che mi cercava e sventolava un foulard di seta gialla. Quella piccola creatura mi faceva segno. Accelerai il passo e in meno che non si dica, fui davanti al portone e lei dietro, pronta ad aprirlo per non svegliare gli altri, mi prese la mano e la posò sul suo cuore, dicendomi:

- Senti come batte! E la mia mano, nel sentire i suoi piccoli e acerbi seni, l’accarezzò e tremò di gioia, e di piacere convulsivo. Noi due, la sua mano nella mia, senza far rumore entrammo nella mia cameretta, con lei dietro, attaccata al mio collo. Là, la mia poca esperienza mi paralizzò, ed io non ebbi nemmeno il riflesso di stringerla tra le braccia; trascorremmo una lunghissima ora, restando seduti sul bordo del letto, sfiorandoci appena, senza baciarla, poi, non so perché gli chiesi dov'era sua madre e lei mi raccontò che stava morendo di cancro all'ospedale Garibaldi di Catania. La strinsi sul cuore, baciandola appena sulla fronte. Lei, appoggiò la testa sulla mia spalla e scoppiò in singhiozzi. Sentivo il suo corpo che s'incollava al mio, sentivo il contatto dei suoi seni che palpitavano, sulla mia pelle, sentivo battere forte il cuore ma non osai alcun gesto sconsiderato. Non mi ricordo quanto tempo restammo in quella posizione, senza parlare, senza una carezza, ma nutrendoci solo di vibrazioni. All'improvviso, Lucia si staccò da me, mi baciò sulle labbra e partì nella sua camera, dove raggiunse il fratellino. Non riuscii a prendere sonno, perché mi misi a contare le ore come fanno certuni con le pecorelle. E aspettai il mattino per rivederla e capire se era vero amore e s'era quella la passione. Alle otto del mattino, Lucia bussò alla porta ed entrò, portando con sé un vassoio d'ogni ben di Dio. Restò accanto a me, per vedermi magiare come farebbe una piccola sposa, e poi, mi chiese:

-Mi amerai sempre? Giurami che non mi lascerai? Sulle ali di tutte quelle emozioni, gli carezzai il viso, posai un bacio sulla sua bocca, che si schiuse come un fiore delle belle di notte e di giorno; fiore timido come me che non sapevo come farla mia. Riposai le mie labbra sulle sue, che scottavano e sotto l'effetto di quelle sconquassanti emozioni, gli giurai che non mi sarei separato mai da lei, e che la nostra storia, sarebbe stata per la vita. 15 giorni dopo, ebbi una settimana di vacanza e ritornai dai miei, con mille cose da raccontare, ma mio fratello Cristofaro, che era il più giudizioso, disse che ero troppo giovane per vivere fuori di casa e così lontano. E papà che s'era lasciato portare a spasso dalle mie chiacchiere, dando ascolto a mio fratello, mi ordinò di andare a riprendere i miei effetti personali e di rientrare a Catania. Il mondo stava per crollarmi addosso. Come avrei fatto ad annunciare quella brutta notizia a Lucia? Cosa avrebbe detto quel mio piccolo amore? Non avevo il coraggio, ma dovevo abbandonarla lo stesso. E alla vigilia della mia partenza per Catania, trovai la forza, e profittando che quel pomeriggio eravamo soli nella pensione, gli dissi che anche la mia mamma stava male e quindi, dovevo rientrare per un certo tempo, ma

promisi che sarei ritornato e non ci saremmo più lasciati. Fu il dramma, fu “ Via col vento”. Lei piangeva, ed io, disperato, promisi che alla mia maggiore età, sarei venuto a cercarla sul mio destriero bianco, per portarla via, lontano da quel villaggio dove non succedeva mai nulla di bello. Ma una volta a Catania, nonostante il bene che gli volevo, incominciai a conoscere nuovi amori e altre passioni. Gli anni passarono, anche se di tanto in tanto, pensavo a lei. E un giorno, dieci anni dopo, in vespa, ripresi la strada per Vizzini. Erano “ le cinco della stardas”, non c'era nessuno sulla piazza, la scena era muta, la locanda non esisteva più e lei non abitava più in quella casa; chiesi intorno a me e poi, un commerciante curioso e attento alle storie d’amore, mi chiese cosa cercavo, e quando capì, disse che avevano traslocato fuori le mura del villaggio, i suoi genitori erano morti, lei si era sposata e gestiva un'altra pensione di dimensioni più modeste. Ottenni l'indirizzo e andai per strade e stradine. Arrivai davanti a un edificio che dava l'impressione d'esser stato bombardato. Un cartone, attaccato malamente alla porta, annunciava:

-si affittano camere a prezzi modici.

Suonai insistentemente o piuttosto, tirai una cordicella, che fece scuotere una campanella che suonò al piano di sopra, da dove, una voce stanca e sofferente rispose:

-Chi è? Arrivo subito! Il portoncino si aprì e quello che era stato il ricordo di una bella e adorabile ragazzina, mi apparve come un sacco di ossa e pelle, piazzati in disordine, intorno a due grandi occhi vuoti e profondi. Il mio cuore esplose di dolore, nel vedere quello che era diventato il mio primo amore. Mentre lei, senza riconoscermi:

-Cosa cercate, signore?

-Siete voi Lucia?

-Si! Sono io!

- Mi riconosci?E lei, con aria distratta, mi rispose:

-No! Non vi conosco! Mi presentai e aggiunsi:

Ti ricordi che nell’'altra pensione, dieci anni fa mi hai amato e che ti avevo promesso che un giorno sarei ritornato? Per tutta risposta, lei, risalì gli scalini a quattro a quattro, piangendo e gridando:

-Perché sei tornato, perché sei venuto? E mentre lei scappava, io, restavo ai piedi di un amore che non avrei mai e poi mai, dovuto cercare. Che imbecille che ero stato! Perché non mi ero contentato dell'emozione, del ricordo? Perché avevo voluto rivedere quel che era diventato quell’amore d’un tempo? Ripresi la strada del ritorno per Catania, rendendomi conto che in dieci secondi, dieci anni dopo, avevo ritrovato e perduto, il mio primo e solo grande amore!

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La caduta degli Angeli

Esiste la casa degli Angeli e se esiste, dov’è, dove si trova? Là dove c'è il paradiso? Accanto? Al di là delle stelle? Nessuno lo saprà mai, perché forse gli angeli non esistono o sono uomini e donne comuni e senza ali che fanno il bene intorno a loro e non lo dicono mai. Forse sono uomini e donne che non sanno volare e non possono andare in cielo perché lassù c'è il vuoto delle credenze ed è zona off-limite. O forse è un cantiere in ebollizione. Pianeti con vasti deserti, dove nessuno costruirà mai cattedrali perché, stranamente, non c'è vita e forse non c'è Dio. Ero piccolo e vivevo in Sicilia, dove i ricchi e i pseudo nobili possedevano quasi tutto, e poi perché solo la miseria apparteneva ai poveri che erano tanti. I potenti non sono stati mai tanti; i vagabondi, le prostitute, i barboni, i criminali, i poveri, gli storpi e gli innocenti, invece Sì! E col passar del tempo, sono sempre di più e come sempre, non hanno nazionalità. Mi ricordo che allora, c'era ancora la guerra; Berlusconi e Bossi non erano ancora nati e i loro compari nemmeno, ma c'erano stati: Mussolini, che era l'antenato di Almirante che era padre putativo di Fini e La Russa e c'era stato Hitler che aveva un solo testicolo come il mio bastardo d'un can di Trieste, ed era l'antenato de li mortacci di quegli altri! E c'eravamo noi e papà che, con la sua magia, inventava favole e storie che ci facevano pendere dalle sue labbra. E poi, era sempre presente e ogni sera, raccontava e

c'imburrava la mente, per tenerci in casa ed evitarci le bombe che cadevano sulla nostra città, inventando storie inverosimili, e na sera, iniziò col dire:

-Tenetevi forte! Questa volta vi racconterò la saga degli angeli che vissero e morirono per troppa curiosità. E come al solito, mio fratello Ciccio,” Cunta Papà” ( racconta papà!) Anche se a tavola non c’era il pecorino, chiedeva e insisteva come noi dicendo:

- cunta papà!

A sentire papà, la casa degli angeli doveva trovarsi, non oltre il settimo cielo, là dove il paradiso terrestre era finito da un pezzo, per colpa di Adamo ed Eva che erano stati sfrattati da lassù, da quel cielo di silenzio, fatto di giorni e notti infinite, dove nessuno ci abitava più e nessuno di noi sapeva cosa fosse capitato sulla terra, ai figli del primate Adamo e consorte. Il pianeta terra, brulicante di vita era il solo possedimento abitato e conosciuto nel regno dei cieli di Dio. Giù, sulla terra dei futuri ominidi, la parte abitata era diventata un letamaio, con ghetti dappertutto e aberrazioni quotidiane. I quasi -umani, vivevano, come potevano, dividendosi la terra con le bestie patentate, d’animale eretto ad animale tout court. Dio? Era rimasto solo e malgrado che, con Adamo ed Eva aveva fallito, volle provarci con gli angeli e per non rischiare, li fece senza sesso e senza voglie. Ma vedi caso, fra loro, c'era un certo Angelo che brillava per intelligenza e bravura e che, spesso, metteva nell’imbarazzo Dio che non arrivava a tenerlo a bada. C’erano giorni e notti lunghissime e noiose come la gramigna, notti nelle quali, per ammazzare il tempo, Dio, lo Spirito Santo e il giovane Lucifero,così si chiamava quell’Angelo turbolento, che si riunivano, per filosofare e discutere del più e del meno, mentre gli altri angeli, a torto, vivevano privati dal privilegio di conversare con Dio. Sulla terra, da tempo immemore, Adamo ed Eva, non cerano più e i loro figli e figliastri, si facevano la guerra, come se non fossero fratelli, e adesso, se lo desiderate veramente, ragazzi miei, proviamo a entrare nella casa degli angeli e vediamo chi erano e come vivevano: L'arredamento era sobrio e celestiale, il pavimento era un tappeto di nuvole azzurre a forma di cuori, i letti drappeggiati di seta e fiori, dove gli angeli, vivevano tristemente felici, perché erano e non erano. La notte non esisteva, perché faceva sempre giorno e la noia, la spalavano con monotonia divina.

Dio non era infallibile e non l’era stato mai, quindi, come per Adamo ed Eva, doveva succedere ancora; l'aver creato Lucifero, era stato un altro grande errore che di lì a poco, avrebbe rimesso nell'eterno imbarazzo Dio e tutto il suo casato. Quell'angelo era una strana creatura, superiore alla media e diversa da tutti gli altri. Il suo nome era importante, Lucifero, portatore di luce, stella del mattino o ancor meglio, Arcturus astro lucente nell'emisfero nord. Il padre celeste, da buon masochista, lo sapeva e non se ne preoccupava: egli era l'angelo più bello, più splendente e più vicino a Lui e solo per questo, fu chiamato con quel nome. E per la sua vicinanza al Padre e Signore dei cieli, poté godere di quel privilegio che avrebbe scatenato le sue ambizioni d'angelo, che gli avevano fatto sperare di poter diventare come Dio e che, un giorno dell'era divina, peccando di superbia, si sarebbe ribellato al volere del Padre, così come è scritto sui testi religiosi: “Simili ero Altissimo”,cioè “ Sarò simile all'Altissimo” Lucifero, col tempo e con la paglia, avrebbe radunato intorno a sé un terzo delle schiere degli angeli e se fosse stato costretto, avrebbe mosso guerra contro Dio, che ovviamente l'avrebbe vinto e precipitato dal cielo insieme ai suoi due complici, che furono gli arcangeli: “Michele e Gabriele.” Ancora una volta, incoscientemente oppure no, Dio si era clonato. Dio e Lucifero, prima o poi e per millenni, si sarebbero combattuti e nei cuori degli uomini, avrebbero seminato il dubbio. Com'era suo solito, Dio era maldestro e imprevedibile; cercò di confondere le carte, perché Egli era il bene e il male. Lucifero, per non prendersi la testa con L’Immenso, ogni giorno che passava, egli s’allontanava dalla casa degli angeli e se ne andava a spasso sulla Via Lattea, dove poteva sfogare la rabbia che lo devastava e lo faceva imbestialire e dire, a gran voce, che Dio aveva due fette di prosciutto sugli occhi: Un giorno di tanti millenni fa, a spasso sulla via delle grandi luci, i Campi Elisi del cielo, intravide la terra degli uomini e la voglia di vedere chi fossero e come vivessero, lo tentò. Dio era stato categorico: per nessun motivo divino, non dovevano andare oltre le porte del paradiso! Lucifero era un angelo ribelle e incontrollabile, spirito curioso e sempre alla ricerca dell'erba che Dio aveva maledetto. Insalutato ospite si spinse e osò un volo non autorizzato. Senza timore alcuno, si librò e planò sulla

terra degli uomini. Pochi minuti dopo e senza fatica alcuna, fu in piena zona Amazzoniana. Le bestie lo schivarono, mentre i quasi - umani, si strofinarono a lui, come facevano gli eschimesi e non fan più, con i loro ospiti. Lucifero, guardò quegli esseri con affetto e pena e poi, si chiese se per caso Dio padre onnipotente, sapeva oppure no, delle condizioni miserabili, nelle quali viveva quella sua strana fauna umana... Quali terribili crimini avevano commesso? Il nostro eroe alato si guardò intorno, ma non vide né gioie, né pace, ma solo una situazione di disagi e dolori. Quel pianeta gli sembrò l'inferno che non conosceva ancora e che Dio gli avrebbe destinato come regno, senza spiegargli per quale delitto, commesso o non commesso, glielo avrebbe destinato come una patata bollente... Lucifero si chiedeva perché mai Dio permetteva che, uomini e bestie, si mangiassero senza tregua e perché li aveva creati carnivori? Perché si racconta ancora, ai giorni d’oggi che è misericordioso e perché fa dire a San Francesco: fratello lupo e sorella iena? Lucifero, quel giorno, sulla terra, gridò forte verso il cielo:

Dio! Fai qualcosa!

Ma Dio, in quel momento così critico, non rispose, aveva ben altro da fare. E fu così che l'angelo ribelle, che non era uno qualunque, decise di fare il suo primo salto nel buio:

Si liberò del suo candido corpo per prendere le sembianze degli umani d’allora; Lui biondo e bello come un Dio scandinavo, prese le pesanti forme degli umani e fu subìto come se fosse uno di loro, dozzinale e mortale e poi, abbassò la visiera per capire. Un sesso d'uomo con relative palle gli s’agitò tra le cosce e la libidine s'impossessò di lui. Un bel primate di donna, con zoccoli e coda, gli si strofinò addosso e gli insegnò a fare all'amore e lui capì molte cose, promettendosi che l'avrebbe fatta pagare cara al suo Dio. Ora capiva cos'era l'amore e l'odio che gli entravano nelle vene, con la vita e la morte che gli ronzavano intorno. Dopo una lunga notte d'amore bestiale passata sugli alberi, per paura d'esser mangiato dalle bestie feroci, scese e per la prima volta, scoprì il piacere di una grassa pisciata e guardandosi in mano, quello strano oggetto del piacere, disse:

-Eureka! Alleluia brava gente!

Imparò la loro lingua e capì le ragioni del loro malessere. Il cuore e la mente gli si riempirono di luci e d’idee anarchiche che di lì a qualche millennio, avrebbero fatto girare la terra a sciabolate e colpi di cannoni. Non so quanto tempo rimase sulla terra e quanti luoghi visitò, ma sono certo che fece il pieno di tutte le suppliche del popolo degli uomini d’un tempo, che volevano sapere e capire. Dimenticò e poi si ricordò della casa degli angeli che credendolo sperduto nello spazio intersiderale, non l'aspettavano più. La terra di quei tempi era un pianeta imprevedibile, dove vivevano, senza gioie, i figli di un Dio sordo agli appelli di chi non sapeva più se nell'universo ci fosse o no un maestro di vita e quale! La femmina che visse quel mezzo secolo con lui fu presto incinta e di lì a qualche anno, gli scodellò un uovo. Non meravigliatevi, allora le femmine facevano le uova, le covavano e dopo sessanta giorni, si schiudevano e nascevano i piccoli dei Neanderthal. E quando Lucifero, ricevette il frutto del suo amore bestiale, non disse nulla alla sua prima e unica compagna ma in cuor suo, pensò che l'ora di ritornare in cielo era arrivata e che bisognava preparare i bagagli, spiegare le ali e partire per raccontare tutto ai suoi fratelli angeli. Ancora una volta cambiò di pelle e ridivenne angelo, e con quel suo uovo d'un figlio, prese quota. Lo Spirito Santo e i suoi sgherri, nascosti dietro ad una stella spenta della Via Lattea, finsero di non vederlo e poi, come d’abitudine, corsero ad avvertire il Padrone dei cieli, della terra e di ogni luogo conosciuto, per raccontare che Lucifero era tornato. Nella casa degli angeli, nessuno l'aspettava più e lui che si credeva furbo e aveva volato di notte, certo di aver eluso la sorveglianza delle milizie di Dio. Quindi, sicuro, ma pur sempre emozionato, raggiunse la sua vecchia dimora, dove trovò un’accoglienza divina e idilliaca. Intanto, mentre loro parlavano e s'abbracciavano, Dio ascoltava lo Sp.S che l'informava dell'arrivo dell'angelo prodigo, che dopo quasi un secolo ritornava con un enorme uovo di struzzo sotto il braccio. Dio, così come nel caso di Adamo e famiglia, aveva commesso un errore: quell'Angelo, non doveva nascere, perché di lì a poco, con Dio o senza, come Spartaco, avrebbe scatenato la prima e unica grande rivolta di angeli della storia dei misteri di Dio. Lucifero era intelligente ma presuntuoso come Dio, perché non avrebbe potuto vincere mai su Dio che l'aveva generato. Entrò, depose l'uovo sulla tavola da pranzo e raccontò dell’avventura sulla terra, della femmina e dell'uovo che portava dentro il cucciolo di un

amore impossibile ma vero. Il padre dell'uovo parlò ai suoi fratelli angeli e non trascurando nessun particolare disse, che oltre i limiti della Via Lattea, c’erano mondi a perdita d'occhio, che andavano visitati e vissuti; E loro in coro, chiesero:

-Cosa c'è dentro a questo involucro?

-La vita! E se mi promettete di star saggi, vi farò assistere alla nascita di mio figlio.

E qualcuno, da dentro l'uovo bussò e tutti, indistintamente, furono presi dal panico. Era l'ora e visto che nessuno gli rispondeva, la qualcosa, si mise a grattare e ruppe il guscio:

-un pargoletto, un putto alato e bello come una miniatura di Capodimonte, aprì gli occhietti azzurri e impugnando il suo pisellino, l'arma fatale, pisciò addosso ai volti dei più curiosi tra gli angeli. Dopo la sorpresa e lo sgomento, tutti si misero a fare domande alle quali, solo in parte, diede delle risposte accorte. L'Arcangelo Michele chiese a cosa serviva quell'affarino tra le gambe e perché loro non l'avevano. E mentre loro chiacchieravano, nella reggia, Dio e il S.S, cercavano di mettersi d'accordo come fare per punire Lucifero e quelli che come lui, si fossero montati la testa. Dio era stato disarcionato ancora una volta, ma non vinto. Bisognava correre ai ripari e per non perdere la faccia, disse:

-Spirito Santo, non scomodare me, se vuoi, vai! Occupatene tu! E il S.S andò:

-Veni, vidi e vici. Poco dopo ritornò da Dio e gli raccontò dell'uovo, del bimbo e di tutte le chiacchiere che aveva potuto raccogliere.

L'onnipotente, decise che quegli ingrati meritassero una severa punizione e sentenziò:

- Un carico di uova marce! Precipitatelo sulla casa degli angeli e disperdeteli!

Ma anche quella volta esagerò e le cose non andarono come aveva previsto. I guastatori e il loro carico, circondarono le mura, sfondarono il tetto della casa e vi precipitarono dentro quel carico infetto. Il frastuono e il fetore investirono gli animi puri e casti di quegli angeli che fino allora, non avevano commesso nessun peccato. In poco tempo che non si dica, molte di quelle creature di Dio, furono ferite e con le ali a brandelli. Il panico invase la casa e tutti si misero a correre in ogni senso e fu un sbandamento generale, lacrime e spavento invasero i volti di tutti. I tentativi di Lucifero, per evitare quella mattanza furono inutili e senza esito. Gli angeli, storpiati e malconci, si smarrirono. La loro caduta durò 9 giorni e alla fine, l'Inferno si spalancò e ne inghiottì almeno la metà. Secondo la tradizione, da quel momento, il vero nome di Lucifero fu cancellato dai Cieli. Con l'imposizione che nessuno avrebbe dovuto pronunciarlo più. Lucifero, sarebbe diventato L’altro!! Solo per il suo originario splendore fu imposto l’ordine che, a partire d'allora sarebbe stato chiamato “Satana”( cioè,l'Avversario”) In mezzo a quel sfracello, gli Angeli scapparono come l'armata Brancaleone, scontrandosi e dandosi a gambe levate. Lucifero si ritrovò tutto solo, con quel suo bimbo tra le mani e in mezzo a un marasma di gusci e mostriciattoli di strani uccelli. Alcuni angeli riuscirono la fuga lontano, su qualche pianeta sconosciuto. Tanti altri, quelli più ammosciati, precipitarono dalla Via Lattea e caddero sulla luna o sulla terra. In quanto a Lucifero, non visto, né sentito, col suo bimbo in braccia, se ne ritornò sulla terra, dove vive ancora nell'anonimato, perché lui è il diavolo che fa pagare le sue colpe al Dio dei giusti... (!?) Dio, Maestro di vita che nonostante tutto, quella notte, dormì comunque e non preoccupandosi di quel inutile olocausto.

Poi, nostro padre guardò il suo orologio e disse:

-Dio come si è fatto tardi, tutti a letto e a domani sera, alla stessa ora, il seguito. L'indomani era di sabato e non c'era scuola, perché era il tempo dell'era fascista e malgrado che il regime zoppicasse, si doveva andare in piazza e poi, per via Etnea a sfilare, con o senza la divisa e poi gridare:

-Viva il Duce e il fascismo!

Poi, ogni giorno, quando il crepuscolo si addossava ai muri delle case, i più piccini, quelli come me, uscivamo nell'enorme cortile condominiale, nella speranza di trovare qualche scheggia di bombe americane da collezionare, come fanno certuni con le farfalle e con le figurine Panini.

E poi, finalmente, arrivava, l'ora del suo racconto e lui, Merlino incantatore, padre simpatico e dispettoso, prende tutto il suo tempo, tentando di farci credere che quella sera non ci sarebbe stato un seguito e noi, supplicandolo:

Cunta papà, racconta papà! Ma va là papà, non è possibile!

-Amavi farti pregare e ci eccitavi per rendere la storia più appetitosa e imprevedibile.

-Volete sapere perché vi racconto questa storia? Se promettete di star zitti e di non fare troppe domande, ve lo dirò:

Quando ero bambino ed ero bello come Lucifero.

-Abbassa i prezzi! Bello? Diciamo che eri belloccio!

-Lo sapevo che avreste messo in dubbio la mia bellezza d'un tempo e il mio racconto, e ora tutti a letto e senza storia, né cena, via!

-E quella sera, non capimmo se ci faceva o c'era! Dieci buoni minuti passarono e ci sembrarono un'eternità, poi come al solito, ci guardò e ridendo di noi disse:

-Volevo farvi paura e scoprire se tutto quello che racconto, lo prendete per il giusto verso. Allora, stavo dicendovi che ero bello e intelligente come Lucifero e non mi sfuggiva nulla dalla mente, nella quale, fin da piccolo, ho ammassato tutti i ricordi della mia vita e anche quelli di mio padre, (vostro nonno), che raccontava ai tutti i bambini del paese, la storia della casa degli angeli. Ieri sera, avevamo lasciato gli angeli che si disperdevano, sfracellandosi dappertutto, nel nostro sistema solare e alcuni perfino all'inferno. Lucifero, l'individuo che avrebbe sconvolto il mondo e fatto tremare i regni dei Cieli, era atterrato sulla terra dei nostri avi, per aprire le prigioni ai barbari della vita. Il giorno della caduta degli Angeli, due di questi caddero sulla Sicilia e più precisamente, nell'orto della nostra famiglia...

-No papà! Dio non può aver fatto questo!

E mentre aspettavamo la sua reazione, fuori, in via del teatro massimo, cadevano le bombe e non gli angeli; il nostro immobile tremava, ma lui, con quella storia, ci prendeva le trippe dell’anima e ci faceva dimenticare i trenta milioni di vittime di quella guerra che si combatteva, fuori dalle mura della nostra tana.

-Come al solito ci zittisti e continuasti il tuo racconto:

-Ero nell'orto, avevo 20 anni e tanta voglia di mangiare gli ultimi fichi della stagione. Presi la scala di legno e l'appoggiai al tronco dell'albero e prima che non si dica, un botto, anzi due, -squarciarono il silenzio che avevo saputo creare per non essere scoperto. Alzai gli occhi in alto e li vidi:

-sembravano Icaro e il suo vicino di casa. Dalle loro ali colava il sangue, segno che non erano di cera. Il tempo di riprendermi e poi corsi in casa per chiamare mio padre:

-Correte fuori, nell'orto, tra i rami del fico si sono impigliati due scandinavi con le ali!

-.Ma cosa stai dicendo! Non ho sentito nessun botto; Andiamo a vedere. Io tenevo la scala e vostro nonno, facendo molta attenzione, gradino dopo gradino, montò e avvicinandosi a loro, ne strattonò uno, chiedendogli chi era e da dove veniva. Risposero in latino e nonno che a volte, aveva assistito a qualche messa, vedendo le loro ali, rabbrividì e mi disse:

-Dio mio, questi sono due veri angeli, che ci piovono dal cielo! Aiutami a tirarli giù e a nasconderli nello scantinato. Nonna, come nella discesa del Cristo dalla croce, portò due lenzuoli bianchi, che s’intrisero del sangue di quelle due creature celestiali che, con precauzione, portammo nelle stalle. Tutti noi, maschi e femmine aiutammo i nostri genitori e venne il farmacista che era repubblicano, ma credeva in Dio e negli Angeli. Li medicò, raccomandandoci di non spargere la voce. In famiglia, nessuno doveva parlare di quel fatto, era d’obbligo di tenere per noi quel segreto. Non sarebbe stato facile farli passare per due ragazzi del profondo sud. Bisognava comportarsi come se non fosse accaduto niente di speciale: Nonna, da buona mamma, incollò le ali sulle spalle, colorò i loro capelli e li vestì come la gente del villaggio e noi, li portammo a zappare le nostre terre e gli insegnammo a parlare e a scrivere la nostra lingua. Sei mesi dopo, gli caddero le ali, scurirono di pelle e si mimetizzarono nel paesaggio e la gente. Nonno era amico dell'ufficiale dello stato civile che, abilmente, risuscitò due giovani Raddusani morti durante il colera del 1867 e diede loro i nomi di quei due ragazzi morti e seppelliti. Il sole di casa nostra li arrostì e gli insegnò cosa fosse il soffrire, ma loro furono felici d’essere diventati uomini. Non si chiamavano più Angelo n° 2007 e Angelo n° 2100, ma si chiamarono: Badalamente e Barbagallo. Andarono a lavorare nella miniera di zolfo di contrada Calvino. Al posto delle ali, che s'erano atrofizzate, si formarono due gobbe, ma

loro non se ne dolevano, ed io, vostro padre, quando incontro un gobbo, lo guardo affettuosamente e mi dico, che forse, anche quello è figlio d’un angelo; alcuni anni dopo, imparata la lingua e le abitudini della terra di Raddusa, si sposarono con due nostre cugine ed ebbero un figlio per uno. Quei bimbi non furono uguali a tutti gli altri bambini del mondo, perché vennero senza la grazia di Dio, che li fece nascere con due gobbette, l’un davanti e l'altra di dietro, in ricordo delle colpe dei loro padri. Dio non pagava il sabato e nemmeno la domenica, e affibbiava e lo fa ancora, figli di tutte le specie. In paese, la gente non capiva quale male profondo avessero quelle due famiglie e per distinguerli dagli altri, che avevano un sopranome, li chiamarono la famiglia dei Gobbetti: Gobba la madre, gobba la figlia, gobba pure la sorella, erano gobbi pure quelli... Ancora un’altra serata di una storia che di lì a poco, alle ore 22 si sarebbe arrestata e ci avrebbe mandati a letto con la voglia di sentire il resto.

Sotto le coperte, aspettavamo che nostro padre entrasse nella sua stanza, per poterci interrogare e capire fino a che punto inventava e ci portava a spasso. E poi, il settimo giorno arrivava la domenica e c'era la sequenza del bagno generale, il pranzo domenicale e i dolci di mamma, il cinema della parrocchia, con il film senza scene d'amore ne baci, la partita di pallone in piazza teatro massimo e poi, si faceva sera e noi, come al solito aspettavamo che riprendesse il suo racconto. Mamma non amava quell’assurda storia e non voleva sentirla raccontare e ci diceva:

-Giocate con i fanti e lasciate stare in pace gli angeli! Mamma era una donna pia, tutta casa e chiesa, e ogni sera, all'ora del crepuscolo, o ancor meglio, all'Ave Maria, si sedeva sulla sua poltrona di velluto rosso e incominciava a sgranare il suo rosario e per un’ora, erano: Pater e Ave Regina, e ora pro nobis! E papà, che non teneva conto delle critiche di mamma, sette sere su sette, senza giorno di chiusura, attaccava il seguito della casa degli Angeli:

-Era il 1914 e i due Angeli, come noi tutti, partirono alla guerra. Badalamente morì sul Carso, Barbagallo ritornò per restare schiacciato nella miniera, insieme ad altri dieci disperati come lui. Morì vostro nonno e vostra nonna, ed io, che ho 51 anni, questa sera, aprile 1943, con voi quattro intorno a me: Cristofaro, Francesco, Arturo e Rodolfo, voglio che sappiate, che i due ragazzi-Angeli, figli di Badalamente e Barbagallo, sono diventati figliocci miei, li ho mandati a scuola, si sono sposati e i loro figli sono nati senza gobbe. Voi, sicuramente, vorreste sapere se esistono veramente gli Angeli. In verità? Non lo so e forse per questo che sono diventato ateo e bolscevico, ma anche se non credo, chi lo sa, se qualcuno, di lassù ci guarda e ci protegge.

- Papà, la tua storia fu molto istruttiva, ed io, da quel giorno, non smisi di riflettere su Dio e gli angeli e mi diedi a fare ricerche che non sempre si spiegavano.

Ora il mio papà, non c'è più, ma mi restano le sue storie e in modo speciale quella della casa degli Angeli, che mi risuona nell'anima, come la voce del grillo parlante, nella storia del Pinocchio di Collodi. Non so, se nel caso di Lucifero, si possa parlare d'arte Satanica, che trovo più sottile e insidiosa di quel che pensano molti cristiani, che dicono che il demonio si nasconde sotto le pieghe del male, per confonderci di più, servendosi dei fenomeni più razionali per insidiarci. La sua malignità è terribile; Ama fare il male e riesce a perderci. Per me, il Diavolo, è un'allegoria del malessere e se credessi in Dio e negli Angeli, credo che direi che: Lucifero fu e forse è ancora, uno spirito angelico che operò contro il falso bene, che non è sempre tale. Lo sento come uno di famiglia, un mio avo e sono certo, che Lucifero scelse liberamente, di non servire Dio e di usare contro di Lui i doni che lo stesso Dio gli aveva offerto. Questo l'affermo, in virtù del fatto che, secondo il cristianesimo, Dio è stato il creatore del demonio, ed è sua la colpa dei difetti primordiale della macchina Satana. La F.I.A.T., quando in una serie di vetture, una riesce male, ritira tutta la serie e da un’altra vettura. Se ci saranno lettori per questi miei deliri; ringrazio e brindo al loro coraggio.

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