C a p i t o l o 

                       

Il sistema coloniale come fattore d’indipendenza economica.

 

 

 

    “ L’indipendenza economica di un paese non potrà mai essere assoluta, e se lo fosse, non sarebbe utile.

 

Essa però costituisce una meta e una direttiva per lo svolgimento del lavoro nazionale”.(*)

 

     Con queste parole, Alberto Asquini, deputato al Parlamento, sosteneva che: “..una nazione deve realizzare

 

al 100% tutta la sua forza produttiva, in cui consiste la sua sola vera ricchezza: ciò significa attuare tutta la forza

 

di lavoro della popolazione”.

 

     La prima condizione della ricchezza di una nazione è, dunque, una popolazione numerosa.

 

Bisogna però che questa abbia la possibilità di lavorare, in modo tale che il risultato del suo lavoro,

 

o parte di esso, non vada disperso in favore di altre economie nazionali; quindi è necessario che essa abbia:

 

- un’adeguata area geografica;

 

- un’adeguata possibilità di rifornimento di materie prime; cioè un’area di lavoro e un’area di approvvigionamento.

 

La situazione di entrambe può essere reale e virtuale.

 

La reale è l’area della nazione stessa e delle sue colonie; la virtuale è il resto del mondo, nella misura in cui

 

il resto del mondo sia disposto ad accettare lavoro dalla nazione che si considera,o a vendere a questa,

 

in condizioni di equo mercato, le materie prime di cui abbisogna.

 

     Questo problema era già sentito, prima della guerra del '14, da alcuni grandi paesi europei, e soprattutto

 

da quelli meno forniti di colonie.

 

     Non lo potevano avvertire paesi che, come l’Inghilterra, la Francia, l’Olanda, possedevano tali domini coloniali

 

da avere un’area di lavoro e un’area di approvvigionamento infinitamente superiori alle potenzialità delle loro

 

rispettive popolazioni.

 

     Proprio questa, anzi, è la ragione per cui quei tre paesi non avevano un’emigrazione di lavoro nel loro mondo

 

coloniale, bensì una esportazione di capitali. La ragione, anche, per cui essi avevano un supero di materie prime

 

 da vendere ad altre nazioni.

 

     Il problema era invece sentito da paesi che, come la Germania e l’Italia, avevano un alto potenziale demografico

 

e un esiguo mondo coloniale.

 

     La realtà dell’Italia si rifaceva ad una nazione di 40 milioni di abitanti su una superficie di 287.000 Kmq,

 

separati dagli Appennini che riducevano ancor di più la disponibilità di territorio lavorativo.

 

     Nel giro di qualche lustro, la popolazione sarebbe salita a 60 milioni di individui con appena un milione e mezzo

                       

di Kmq di colonia, in gran parte sabbiosi, verso i quali non si sarebbe potuto mai dirigere il più della popolazione.

 

     Quale poteva essere il confronto diretto con le altre grandi nazioni d’Europa?

 

     L’Inghilterra, che, con 47 milioni di abitanti, possedeva un impero coloniale di 55 milioni di Kmq; la Francia,

 

che, con una popolazione di 38 milioni di individui, contava su un impero di 15 milioni di Kmq, per non parlare del

 

Portogallo, dell’Olanda, del Belgio, tutte titolari di possedimenti coloniali di gran lunga superiori a quello italiano.

 

     Con i trattati di pace, la situazione internazionale relegò l’Italia in una posizione secondaria rispetto agli

 

altri stati capitalistici. Infatti, mentre l’Inghilterra acquistò con il Trattato di Versailles 2,6 milioni di Kmq

 

di nuove colonie, con una popolazione di 10,2 milioni di abitanti, e la Francia ne ebbe 676 mila, con quasi 5 milioni

 

e mezzo di abitanti, l’Italia non ebbe che 300 mila Kmq di terreni più o meno sabbiosi, con 140 mila abitanti.

 

     Aumentarono, quindi, le distanze tra l’Italia e gli stati capitalistici sul terreno coloniale; vale a dire che,

 

in senso relativo, si restrinse per noi l’area di lavoro della nostra popolazione.

 

     Ma la situazione venne oltremodo aggravata dalla politica economica adottata dai paesi che davano effettivamente

 

le direttive alla politica economica mondiale.

 

     E precisamente:

 

- restrizioni all’immigrazione da parte dei paesi che tradizionalmente avevano lasciato la “porta aperta” al lavoro

 

  straniero;

 

- l’abbandono del principio della parità per quello della preferenza doganale, da parte dei paesi monopolizzatori

 

  delle colonie, e quindi di gran parte delle materie prime; mentre un sistema di diritto internazionale, imperniato sul-

 

la Società delle Nazioni, pretendeva di immobilizzare i vari paesi nelle posizioni stabilite, venendo così a costituire

 

un diaframma rigido contro l’espansione e quindi contro i diritti della vita dei popoli.

 

     Fintanto che vigeva il principio della “porta aperta” - anche se questa era soltanto socchiusa - applicato anche

 

rispetto al lavoro, noi potevamo contare su una certa “area virtuale” di lavoro: vale a dire che, quella parte di

 

popolazione che non poteva trovare occupazione in Patria o nelle esigue e povere colonie da noi possedute,

 

andava a lavorare in altri paesi.

 

     Era una situazione non lieta, perché molta parte dei risultati del lavoro italiano andava disperso in favore di

                        

altri sistemi economico-politici; era comunque una situazione di cose che bisognava accettare in mancanza di

 

meglio.

 

     La mobilità di lavoro era per noi un mezzo di equilibrio tra il nostro potenziale demografico e le possibilità

 

offerte dalla terra di cui disponevamo.

 

     Invece, opposte delle barriere insormontabili all’immigrazione, dopo la crisi del 1920, venne a restringersi per

 

il lavoro italiano questa area virtuale di produzione, il che fu causa per noi di grave squilibrio. E d’altra parte

 

non si poteva rinunciare ad una politica di incremento demografico, poiché “solo negli uomini è la potenza e la

 

ricchezza delle nazioni”.

 

     Gli stessi ostacoli venivano elevati contro il lavoro conglobato in merci. Due erano, fondamentalmente, i canoni

 

della politica economica internazionale:

 

- il principio della parità

 

- la clausola della nazione più favorita, incondizionata e illimitata.

 

     Questi due punti interagivano tra loro, e la prima grande offesa al primo dei due, venne perpetrata con la

 

negazione del secondo.

 

     Tale negazione fu definita con l’adozione della politica di preferenza, che trionfò con la conferenza di Ottawa.

 

     Già fin da prima della guerra del ‘14 si erano manifestate, in Gran Bretagna, tendenze favorevoli all’adozione di

 

un regime preferenziale per tutti i paesi dell’impero cui facevano capo; ma solo nel 1926 si giunse ad un accordo sul

 

terreno politico, il quale doveva “aprire la porta” a quello sul terreno economico.

 

     A tal fine venne riunita ad Ottawa, dal 21 luglio al 29 agosto 1932, una conferenza imperiale che culminò con la de-

 

finizione sottoscritta di dodici accordi fra la Gran Bretagna da una parte, i Dominions e le Colonie dall’altra.

 

     In tal modo, l’impero inglese venne a costituire una sola unità, presentandosi con un fronte unico rispetto al

 

resto del mondo; e fu inutile avvertire che il regime preferenziale fra le varie parti dell’impero si sarebbe risolto

 

in un regime differenziale per i paesi da esso esclusi.

 

     E’ sufficiente pensare al potere di assorbimento di un mondo che rappresentava più di un quarto della popolazione

 

del globo, per comprendere quale ostacolo, tali accordi, abbiano frapposto all’esportazione degli altri paesi, il nostro

 

compreso.

 

     L’Italia vide,pertanto, ridursi la possibilità di esportare lavoro conglobato in merci in un quarto della terra;

 

 analogamente, il fatto di non poter vendere in condizioni di parità, si tradusse nel fatto di non poter neppure

 

comprare in condizioni di parità, in un mercato detentore di tanta parte delle materie prime del mondo.

 

     Da un lato, quindi, si restrinse, per noi, l’area virtuale di lavoro, dall’altro si ridusse l’area virtuale di

 

approvvigionamento.

 

     Come era possibile la vita ad una nazione ad alto potenziale demografico come l’Italia? Bisognava evidentemente

 

aumentare l’area reale di lavoro e di approvvigionamento.

 

     Bastava porre le cose in questi termini, volutamente schematici e freddamente obiettivi, per convincersi come, la

 

nostra impresa etiopica, fosse una guerra per la vita della nazione.

 

     L’Italia fece dei miracoli per aumentare in Patria le possibilità di lavoro alla sua crescente popolazione:

 

la bonifica integrale e la battaglia del grano, sono tra gli esempi più eclatanti.

 

     Ma si rese necessario allargare l’area di approvvigionamento delle materie prime e l’area di sbocco dei

 

manufatti, dato un mondo sempre più chiuso nei reticolati del protezionismo e delle preferenze: si doveva assicurare

 

 fino al limite del possibile l’indipendenza economica della nazione.

 

     “Poiché il regime della porta aperta è tramontato, così come il regime della parità, proprio ad opera di coloro che

 

ne furono i fautori, non resta altra possibilità per la vita delle Nazioni che costituirsi in grandi unità metropolitano-

 

coloniali, miranti alla più completa autosufficienza”.(**)

 

     Era fatale che al vecchio sistema coloniale del seicento, sfruttatore e monopolistico, si sostituisse un nuovo

 

 sistema basato sulla collaborazione fra la metropoli e le colonie, sull’apprestamento reciproco delle possibilità

                         

di lavoro e sullo scambio dei prodotti di due economie complementari tra loro.

 

 

__________

(*) ASQUINI A., La politica economica dell’Italia in Etiopia

    in “Annali dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona, ed.

    A.Mondadori, 1938-XVI.

 

                                                                                                                 (**) TERUZZI A., Realtà costruttiva dell’Impero in “Annali

                                                                                                                      dell’Africa Italiana”, Vol.III°,Verona, A.Mondadori,

                                                                                                                        1939-XVII.

 

                                                    

                   

     

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