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La Vita Di Winston Churchill

Il grande statista che sconfisse Hitler

   di Silvano Cervelli, insegnante

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BBC Audio Churchill 

1 (traduzione) 2 e 3

Audio W. Churchill:

"This was their finest hour"

 

 

 

 

Prefazione

Capitolo I   IL PICCOLO LEADER

Capitolo II  PASSAGGIO IN INDIA

Capitolo III  ALLA GUERRA DEI BOERI

Capitolo IV  IL LEONCINO DEL PARLAMENTO

Capitolo V  SEBASTOPOLI ALL'OMBRA DELLA GUERRA

Capitolo VI  L'ANTIBOLSCEVICO

Capitolo VII  IL GIORNALISTA

Capitolo VIII  IL FASCISMO IN EUROPA

Capitolo IX  GUARDATO CON SOSPETTO

Capitolo X  GLI EQUIVOCI E LE DITTATURE

Capitolo XI  LA TRAGEDIA MONDIALE

Capitolo XII  LE UMILIAZIONI

Capitolo XIII  DUE DITA COME VITTORIA

Capitolo XIV  LA DIVISIONE ORIENTE-OCCIDENTE

Capitolo XV  IL VECCHIO RUGGISCE ANCORA

APPENDICE - CRONOLOGIA ESSENZIALE - HA DETTO...

 

 

 

 

 

 

PREFAZIONE

 

I modi con cui i diversi storici e biografi hanno definito il protagonista di questo libro sono molteplici e spesso discordi tra loro.

Churchill fu «un indomabile animale da combattimento», oppure «un cocciuto e un testardo che voleva imporre sempre la propria volontà», oppure «sapeva passare da un cavallo all'altro in piena corsa pur di essere sempre vincente», oppure «un uomo politico che fino dalla giovinezza credeva soltanto nella polvere da sparo». Potremmo continuare con queste definizioni per diverse pagine. Winston Churchill, indipendentemente dal giudizio che se ne vuole dare, a seconda che lo si guardi da una angolazione o da un'altra, fu senza dubbio un uomo fuori del comune.

Al di là delle capacità politiche e militari, su cui i posteri per molto tempo continueranno a discutere, visse la sua vita di protagonista del suo tempo sospeso ad alcuni punti di forza (e che qualcuno vide anche come suoi punti di debolezza). Fu di un egocentrismo che nell'Europa dell'epoca era riscontrabile soltanto in Hitler, Stalin e Mussolini. Dotato di un profondo senso dell'immaginazione e dell'estetica pensò e realizzò ogni suo gesto in chiave spettacolare, comportandosi contemporaneamente come attore e come spettatore di se stesso.

Amante degli atteggiamenti eccentrici, tanto da indossare una tuta da ginnastica per un ricevimento diplomatico e da visitare i soldati in prima linea, nel deserto, con un grazioso parasole bianco, persino nei gesti più banali, cercava il tocco che potesse portarlo all'attenzione degli altri: il modo di far salire al cielo le volute di fumo del suo sigaro, il modo di gesticolare durante i discorsi o le conversazioni, l'eleganza ampollosa di certi interventi oratori o di certe sue pagine, persino il gesto delle sue dita atteggiate a V, che avevano un chiaro significato provocatorio per il nemico.

Qualche critico maligno ha scritto che Churchill «avrebbe potuto essere uno stupendo regista per un grande spettacolo di music-hall». Un uomo che aveva certamente bisogno di dimostrare a se stesso e agli altri di essere «diverso», di essere senz'altro il più bravo e quindi degno del bastone di comando. Abituati alle biografie edificanti non possiamo e non vogliamo esprimere giudizi pro o contro i suoi comportamenti di uomo-guida dell'impero britannico negli ultimi anni della sua forza ma anche alla soglia del suo tramonto.

Possiamo dire che insieme al merito di aver rinvigorito e rinsaldato lo spirito inglese contro la minaccia nazista in Europa, convive il demerito di non avere intuito in tutta la sua gravità il pericolo tedesco all'inizio degli anni 30, insieme al merito di essere riuscito a convincere gli Stati Uniti ad affiancare l'Europa nella guerra contro le potenze dell'«Asse», convive il demerito di avere difeso strenuamente la mentalità colonialista dell'Inghilterra.

Va comunque tenuto presente, a sua attenuante, che le sue origini e ascendenze aristocratiche e guerriere lo rendevano sordo ad ogni accenno di autocritica.

Vivendo ogni avvenimento della sua vita, di politico, di combattente, di giornalista, di scrittore, di stratega, di economista, di mediatore, di oratore, come se si trattasse di una sfida sportiva, profuse in ogni suo gesto una generosità e una spontaneità un po' irrazionali che gli valsero, a volte, anche da parte degli avversari più accaniti, commenti benevoli. Qualcuno l'ha definito ambiguo. Certo, alcuni suoi gesti e decisioni non furono privi di ambiguità che finirono per danneggiare l'Europa.

Come dice Chastenet, i grandi amori di Churchill furono «la maestà», «la potenza», «la gloria», «il dominio», che vedeva tutti condensati in una sola figura, che fu l'unica e vera «femmina-serva-padrona» della sua vita: l'Inghilterra.

L'Autore

 

 

Capitolo I

IL PICCOLO LEADER

 

E' il 30 novembre 1874. Nel castello di Blenheim, situato nella contea di Oxford, si tiene un ballo. All'improvviso una donna, un'americana, viene colta dalle doglie e dà alla luce un bambino...

Così potrebbe incominciare una biografia su Winston Churchill, un personaggio che godette di una vitalità straordinaria oltreché di fortuna sfacciata, un uomo che passò indenne tra due guerre mondiali, condizionandone, anzi, la sorte e che visse la propria vita come una perenne lotta.

La bella americana della festa di cui sopra altri non era che sua madre, figlia di un magnate della stampa, proprietario del «New York Times», Leonard Jerome. Il castello di Blenheim era invece eredità paterna, con una sua storia illustre essendo stato dato, per l'omonima vittoria, al duca di Malborough, John Churchill, vissuto dal 1650 al 1722, personaggio famosissimo tanto da entrare nella leggenda.

Anche se il parto è prematuro, il neonato Winston Churchill nasce quindi tra due guanciali dorati. Non si potrebbe immaginare inizio migliore per colui che sarà destinato a reggere per tanto tempo il ruolo di guastafeste o di salvatore della patria, dato che indubbiamente la carriera di Winston Churchill supera ogni confronto sia per la personalità battagliera, non di rado caustica (e per qualche detrattore anche cinica), sia per l'attività frenetica dovuta a quella vitalità straordinaria, cui abbiamo poc'anzi accennato, che lo faceva stare alzato fino a notte inoltrata. Lavorava indefessamente, anche se poi recuperava con il sonnellino pomeridiano, un'abitudine inveterata che non perderà neppure nei più bui giorni di guerra.

Randolph Spencer Churchill, padre di Winston, aveva conosciuto sua moglie nel corso di una regata a Cowes, occasione per la quale era stato dato un ballo a bordo dell'Arianna. Le nozze avvennero il 15 aprile 1874. Qualcuno dovette storcere il naso all'apprendere che il terzogenito del viceré sposava un'americana, ma il matrimonio fu saldissimo. Leonard Jerome, il padre della sposa, era una persona dalle decisioni quanto mai rapide e trasmetterà questa capacità decisionale alla figlia la quale a sua volta finirà per infonderla in Winston. Quanto a Lord Randolph, questi trasmetterà al figlio il gusto per la politica e la rapidità nel fare carriera. È ben vero altresì che nel caso di Lord Randolph le cose non finiranno nel migliore dei modi: anticipiamo qui che, divenuto cancelliere dello scacchiere, la carica più importante dopo quella di primo ministro, farà l'incauta mossa di dimissionare da tutti gli incarichi pur di far votare una sua mozione. Le dimissioni verranno prontamente accettate da Lord Salisbury che era allora a capo del governo. Il vedersi accettare prontamente le dimissioni sarà un colpo da cui non si rimetterà più, finendo per perdervi la ragione e poi la vita in una rapida débacle personale conclusasi a 46 anni quando suo figlio Winston ne aveva solo 21.

Churchill eredita dal nonno materno la passione per i cavalli; il culto per il polo, che rivelerà da giovane, altro non è che retaggio familiare, essendo il già citato Leonard Jerome uno dei padri delle corse ippiche statunitensi. Da questo nonno erediterà anche l'amore per la carta stampata, dato che Churchill esordirà come corrispondente di guerra e amerà sempre il mondo del giornale.

Tre avrebbero potuto essere le strade di un uomo come Churchill: la prima quella politica, che effettivamente seguì; la seconda l'attività di giornalista e scrittore, dato che si dedicò con successo alla pubblicazione di libri, e la terza quella di pittore considerato che con lo pseudonimo di Morin firmò decine e decine di quadri raggiungendo buone quotazioni.

 

L'infanzia di Churchill è quella dorata di tutti coloro che possono vantare simili genitori. Da piccolo ama giocare con i soldatini: ne ha più di duecento. Le fotografie dell'epoca ci mostrano un bambino paffutello dai lunghi boccoli, vestito sempre all'ultima moda.

Discorso diverso va fatto per la scuola; agli inizi il suo curriculum scolastico non lascia affatto intravedere quelle che saranno le future possibilità dell'uomo. Infatti, nonostante segua gli istituti più prestigiosi come Ascot, Brighton e, successivamente, Harrow, il suo comportamento scolastico è piuttosto deludente.

Lo stesso Churchill racconta che a sette anni gli fecero studiare la prima declinazione latina: «Come mai mensa vuol dire anche O tavolo?» chiese un giorno. E il professore rispose che era il vocativo, quando si trattava d'interpellare il tavolo. Churchill ribatté che lui non interpellava mai i tavoli. Il professore, stizzito, minacciò di punire severamente quell'impertinenza. Al che Churchill fa notare: «Fu il mio primo incontro con la lingua latina dei classici dalla cui lettura mi dicono che molti dei nostri grandi uomini hanno tratto istruzione e conforto...».

Era un soggetto ribelle che imparava solo quello che gli andava a genio: «A scuola i miei maestri mi trovavano nel contempo precoce e ritardato mentalmente; leggevo roba da lettori più grandi di me ed ero l'ultimo della classe...» così scriverà lo stesso Churchill.

Quando scriveva alla madre, lo faceva per lamentarsi dei compiti: supplicava di non essere infastidito con quella corvée:

«Cara mamma, mi dicono che il signor Pest sarà il mio precettore per le vacanze. Ora, siccome è qui e mi è molto simpatico» scrive Winston dalla scuola di Brighton nel luglio 1887, «non mi dispiacerà affatto di averlo a una condizione e cioè quella di non fare nessun compito. Rinuncio a tutte le altre condizioni eccetto questa. Durante le vacanze non ho mai fatto alcun compito, quindi non comincerò a farlo ora. Se non mi si imporrà questo e se non mi si infastidirà al riguardo, sarò molto buono. Quando non sto facendo niente non mi importa di studiare un po', ma l'idea di essere costretto a farlo è contraria ai miei principi...».

Ma non erano solo i compiti delle vacanze a infastidirlo, era proprio l'intera istituzione della scuola...

Scrive sempre Churchill:

«Odiando io questa scuola e vivendo nella maggiore ansietà per ben due anni, feci scarsi progressi nelle lezioni e per nulla nel gioco. Contavo le ore e i giorni che mi separavano dalla fine di ogni ciclo, quando dovevo ritornare a casa da questa odiosa schiavitù per poter sistemare i miei soldatini in ordine di battaglia sul pavimento della nursery. Il maggiore piacere che ricevevo in quei giorni era la lettura. Quando ebbi nove anni e mezzo, mio padre mi diede l'Isola del tesoro e ricordo ancora il piacere con il quale lo divorai».

Il 3 novembre 1882, cinque settimane dopo l'inizio delle lezioni, Winston entrò nella scuola di Ascot retta dal rev. H.W. Sneyd-Kynnersley.

C'è una pagella dell'estate 1883 in cui alla voce composizione classica è indicato «assai debole», in matematica si dice che potrebbe fare meglio di quanto non faccia, «molto buono» in storia.

Il 15 settembre dello stesso anno scriveva:

«Cara mamma, spero che stiate bene. Sono andato a pesca, oggi, e ho preso da solo il mio primo pesce: Jack ed io stiamo bene. Con amore e baci il tuo Winston».

L'estate seguente la sua composizione fu classificata «molto debole» anche se si riscontrava qualche progresso in grammatica. È vero che ottenne una menzione di «molto buono» in storia ma, quanto allo scrivere, si dimostrava lento mentre la pronuncia lasciava alquanto a desiderare. Nell'autunno del 1883 ebbe la qualifica di «non buono» in francese, si dimostrò debole in geografia e, quanto al disegno, piuttosto elementare. Alla fine dell'estate 1884 i genitori di Winston decisero di togliere il loro figlio dalla scuola di St. George e di inviarlo in un istituto meno severo, a Brighton.

Racconta lo stesso Churchill che Brighton era una scuola più piccola di quella che aveva lasciato. Era anche più economica e con meno pretese. C'era in più un elemento di gentilezza e simpatia che era mancato nelle sue esperienze precedenti.

«In questa scuola mi si permise di imparare le cose che mi interessavano maggiormente: il francese, la storia, molte poesie a memoria, ma soprattutto il cavalcare e il nuoto. Il ricordo di quegli anni rappresenta un piacevole quadro nella mia mente, in fiero contrasto con i ricordi dei miei precedenti giorni di scuola».

In questo periodo nacque in lui l'hobby della collezione di francobolli per la quale chiedeva continuamente del denaro ai genitori. Nessun dubbio che gli standard educativi a Brighton fossero certo diversi da quelli della scuola di St. George. Churchill era in grado di riportare giudizi assai più favorevoli di quelli ottenuti nella scuola precedente. Era indubbiamente più felice e rispondeva meglio al trattamento ricevuto.

Nel marzo 1886, nonostante il clima mite di Brighton, che aveva anche un effetto corroborante sul suo fisico, mancò poco che morisse per un attacco di polmonite. Il particolare è di notevole interesse perché Churchill soffrirà di debolezza ai polmoni durante e dopo la seconda guerra mondiale. Venne curato dal medico di famiglia, il dottor Robson Roose. Si trattava di un attacco piuttosto violento tanto da indurre il medico a dormire accanto al paziente. Nell'estate del 1886 comunque, superato ogni pericolo, Churchill volle imparare a suonare il violoncello. Ogni tanto bussava a quattrini perché evidentemente ne spendeva non pochi. Cercò di fare sforzi per arricchire il proprio vocabolario, come appare da una lettera scritta a sua madre il 5 ottobre nella quale diceva di aver assistito a una rappresentazione shakespeariana (una lettura dei passi del Giulio Cesare tenuta da Mr. Beaumont).

In una lettera a sua madre del giugno 1887 palesò il desiderio di mettersi a collezionare farfalle: i suoi interessi erano quindi molteplici e il profitto generale tendeva a migliorare.

Il 17 aprile 1888 Winston entrava nella scuola di Harrow e con lui entravano le prime richieste di innovazioni. Pochi giorni dopo il suo arrivo, infatti, il giornalino della scuola «The Harrovian» riportava una lettera firmata dal «Miles Harroviensis» che si lamentava dello stato in cui versava il corpo fucilieri che, secondo l'estensore (non troppo anonimo per la verità), avrebbe dovuto annoverare almeno duecento membri in luogo dei cento insufficienti e inadeguati al compito.

Il 12 marzo 1888 Winston prese parte anche lui a un'esercitazione con simulazione di combattimento e ci prese molto gusto. L'esercitazione si concluse con uno smacco per la fazione di Churchill: si trattava di una sconfitta, ma per inferiorità numerica, precisa Churchill, non certo per mancanza di coraggio. Ciò non toglie che ne fu così entusiasta da inviare alla madre uno schizzo della battaglia.

Nel 1889 Winston scoprì la bicicletta: era un regalo per compensarlo della mancata venuta del padre. Tra gli altri passatempi vi erano naturalmente i soldatini: la sua collezione raggiungeva ormai i 1500 pezzi, tutti inglesi e tutti del medesimo formato. Avendolo un giorno osservato giocare con tanta passione, suo padre gli chiese se non gli sarebbe piaciuto entrare nell'esercito; Winston rispose subito di sì con entusiasmo... Era l'avvio per Sandhurst.

Churchill trovò comunque il modo di collezionare due bocciature prima di potere essere ammesso a Sandhurst, la celebre accademia militare.

Così scrive egli stesso:

«Mio padre mi chiese se volessi intraprendere la carriera delle armi. Trovavo magnifica l'idea di comandare un esercito e pertanto gli dissi subito di sì e venni preso in parola. Per anni fui convinto che mio padre, con la sua grande esperienza e con il suo talento, avesse visto in me senza dubbio un genio strategico. Più tardi mi sentii spiegare che non mi aveva considerato sufficientemente intelligente per fare l'avvocato».

A Sandhurst venne accolto in prima istanza, anche se dovrà sorbirsi delle noiose ripetizioni impartitegli dal capitano James. Riusciva bene in matematica e discretamente nello sport vincendo il campionato d'equitazione e riuscendo ottimamente come fuciliere nelle gare di tiro. Non mancarono gli episodi boccacceschi. Churchill si segnalerà per aver difeso, alla testa di un manipolo di studenti, gli ozi di Venere di un caffè concerto londinese minacciato di chiusura, l'Empire.

Basandosi sulla «prude» moralità vittoriana, una signorina, Ormiston Chant, stava conducendo una campagna per la chiusura del locale, colpevole di ospitare, oltre al culto di Bacco, anche una specie di teatrino - café chantant, ridotto teatrale dove gli studenti di Sandhurst si radunavano il sabato sera. Il locale aveva sede in Leicester Square; in seguito alla campagna moralizzatrice si decise, con tipica pruderie britannica, d'isolare la zona del teatro da quella del caffè con una serie di paraventi.

Ma i cadetti di Sandhurst, alla testa dei quali si pose Winston Churchill che tenne una sorta d'infiammata concione, abbatterono le fragili barriere e ne fecero un rogo nella stessa Leicester Square.

Il periodo trascorso a Sandhurst rappresentò comunque un po' il riscatto di Churchill che ne uscì ottavo su centocinquanta cadetti, venendo poi ammesso come sottotenente al IV Ussari. È difficile spiegare oggi quello che poté rappresentare per un giovane d'allora l'ammissione in questa unità d'élite.

Dice lo stesso Churchill che il contatto con il mondo del IV Ussari fu incredibile. A quel tempo la mensa di un reggimento di cavalleria era uno spettacolo: gli ufficiali con gli alamari d'oro sulla uniforme blu sedevano a una tavola splendente d'argenteria, patrimonio del reggimento tramandato nei decenni, mentre venivano serviti pranzi raffinati al suono della banda reggimentale.

È questo però l'anno in cui morì suo padre: fu per lui una grande perdita, nonostante i rapporti piuttosto freddi che regnavano fra i due, e si accentuò la quasi idolatria nei confronti della madre.

A vent'anni Churchill dimostrò un certo ardore bellicoso e sognava di trovare un campo di battaglia per sfogare la sua aggressività. Per sua sfortuna nel 1895 il mondo britannico attraversava un momento singolare di pace per cui non vi erano guerre dove il giovane scalpitante potesse cimentarsi.

Racconta lo stesso Churchill:

«L'era della guerra tra le nazioni civili era tramontata per sempre. Se fossi nato cent'anni prima, quelli erano tempi! Aver diciannove anni nel 1793, aver davanti a me vent'anni di guerra con Napoleone di fronte...! Ma inutile, quei tempi erano passati.

«Dopo la guerra di Crimea, i soldati inglesi non avevano scambiato un colpo di fucili con un nemico di razza bianca!».

Appassionatissimo della vita e delle opere di Napoleone, sentiva di avere come lui la massima fiducia nella propria stella. L'ambizione però non era quella di comandare un esercito, bensì quella di diventare primo ministro, progetto che paleserà per ben tre volte, una prima a un ufficiale di stanza in India, una seconda in Sudafrica al figlio di un capostazione, la terza a un giornalista americano suo omonimo, nel 1900.

Nell'estate 1895 il IV Ussari fu ritirato dalla brigata di cavalleria di stanza ad Aldershot, questo per dargli modo di prepararsi a un periodo di nove anni di servizio in India. Gli ufficiali poterono godere di cinque mesi di congedo all'anno compreso un periodo ininterrotto di dieci settimane. I subalterni di cavalleria erano incoraggiati a trascorrere l'inverno nella caccia alla volpe.

Churchill, che dal canto suo aveva già speso somme notevoli per i cavalli da polo, si diede da fare per cercare qualcosa di più entusiasmante e di meno costoso.

C'era, defilata all'orizzonte, la guerra di Cuba nella quale poche migliaia di guerriglieri resistevano alle truppe del generale Santos. Veniva già allora usata la tipica tattica della guerriglia con imboscate, assalti proditori e ritirate altrettanto rapide. Obiettivi particolari erano come sempre le caserme e i convogli militari. Churchill aveva spiccatissimo il gusto dell'avventura: quale occasione migliore della guerra ispano-cubana? Questa non fu solo un'avventura in senso stretto ma anche una preziosa raccolta di informazioni. Non per nulla prima di partire ricevette istruzioni dall'allora comandante dei servizi informativi, generale E.F. Chapman (in particolare si volevano sapere gli effetti di una nuova pallottola).

E qui a Cuba, dove si fece mandare grazie a una vecchia conoscenza paterna, l'ambasciatore britannico a Madrid, Churchill riceverà il battesimo del fuoco!

Churchill e un suo commilitone, Barnes, partirono da Liverpool con il vapore Etruria della Cunard. La nave era diretta a New York dove i due trovarono alloggio presso un celebre avvocato, e di lì, dopo aver trascorso qualche giorno, presero il treno per Key West in Florida. Si trattava di un viaggio di trentasei ore. A Key West si imbarcarono sul vapore Olivette e arrivarono al porto dell'Avana il 20 novembre. Quello stesso giorno, dopo aver preso una camera al Grand Hotel dell'Inghilterra, Churchill scrisse alla madre dicendole che l'indomani mattina sarebbe partito per il fronte via Matanzas e Cienfuegos. Il viaggio era lungo, circa dodici ore di treno, con il pericolo di imboscate da parte dei ribelli. Non per nulla ogni convoglio era scortato da 40 a 50 fucilieri. Quando però arrivarono a Tuna, dove avrebbero dovuto prendere un secondo treno che li avrebbe portati nella zona dei ribelli, scoprirono che il convoglio era già partito con mezz'ora di anticipo. Poco dopo giunse la notizia che gli insorti avevano gettato una bomba sul treno stesso.

Il mattino seguente furono in grado di recarsi a Santo Spirito, un luogo abbandonato da Dio dove regnava la febbre gialla. Il 29 novembre ci fu la novità che una banda di circa quattromila insorti, agli ordini di Maximo Gomez, era accampata a pochi chilometri a est d'Iguara.

Fu qui, proprio il giorno del suo ventunesimo compleanno, che Churchill ricevette il battesimo del fuoco.

«Per la prima volta nella mia vita» scriverà, «ho udito fischiare le pallottole nell'aria».

Nel pomeriggio del 1° dicembre scriveva al giornale:

«... la giornata era torrida ed io e il mio compagno persuademmo una coppia di ufficiali di carriera a venire con noi e a bagnarci nel fiume. L'acqua era deliziosa, calda e limpida e il luogo era bellissimo. Stavamo svestendoci sulla riva, quando improvvisamente udimmo un colpo di fucile seguito subito da molti altri fino a convertirsi in una raffica. Una sentinella, che se ne stava appollaiata su un albero, balzò giù e prese a sparare contro il nemico il quale si trovava ormai a meno di duecento metri. Ci vestimmo alla meglio e uno degli ufficiali, semisvestito, radunò una cinquantina di uomini che stavano costruendo dei ricoveri per la notte... Si rispose al fuoco, poi ci ritirammo lungo il fiume per rientrare al quartier generale». Mettendosi dalla parte degli spagnoli, il cui governo sull'isola era da considerarsi corrotto e inefficiente, Churchill forse vide giusto. Un governo formato da ribelli avrebbe portato un caos maggiore e una peggiore corruzione più di quanto già non vi fosse. D'altronde la guerra che si conduceva a Cuba era una ben strana guerra, dato che i morti da ambo le parti erano pochi pur facendosi grande spreco di munizioni. È ciò che Churchill dirà nelle interviste rilasciate alla stampa una volta rientrato a New York. Era pur vero che la domanda di indipendenza era unanime: gli insorti, capitanati da Antonio Maceo, non avrebbero fatto che ridurre la perla delle Antille e la più ricca isola del mondo in rovina.

Da notare che le tesi di Churchill contrastavano con quelle del corrispondente del «Times», Hubert Howard, che si trovava dalla parte dei ribelli.

A Cuba Churchill fece anche il corrispondente di un giornale: il «Daily Graphic» di cui aveva ottenuto l'appoggio grazie alle amicizie materne. Si hanno così già in luce gli elementi su cui farà leva il Churchill di domani: la corrispondenza, il reportage giornalistico da un lato e l'avventura dall'altro.

Ovviamente a Cuba Churchill non militava dalla parte dei ribelli bensì degli spagnoli la cui stanca guerra contro le aspirazioni dei cubani all'indipendenza si trascinava giorno per giorno. Non era quindi quello cubano un clima così esaltante quale il giovane Winston auspicava. A Cuba imparò infatti il valore quasi mitico della siesta pomeridiana e soprattutto ad apprezzare i celebri sigari che saranno un tratto inconfondibile della sua fisionomia. Quanto alla scaramuccia nella quale egli venne coinvolto, si trattò di una scarica di fucileria in un'imboscata di ribelli con un proiettile che gli passò a trenta centimetri dal capo per andare ad uccidere un cavallo.

C'era già comunque in lui il gusto dell'exploit, dell'illecito. Prima di tutto un tenentino dell'esercito di sua Maestà non avrebbe potuto aggregarsi come corrispondente di guerra a una formazione di un altro esercito regolare, secondariamente Churchill vi partecipò armato (il che era addirittura inammissibile), terzo tutta la sua posizione era irregolare; ma di questo non c'è da stupirsi perché negli anni a venire Churchill agirà sempre così, ai limiti del lecito, sia nelle spedizioni in India, sia nella lotta contro i dervisci, sia nella guerra anglo-boera dove raggiungerà il culmine delle irregolarità vivendo addirittura l'intera vicenda come un romanzo d'avventura che rechi sempre sull'ultima pagina la scritta «continua».

L'ultimo episodio della guerra cubana cui Churchill assistette fu un nutrito scambio di fucileria fra i ribelli, che erano usciti allo scoperto, e i soldati del generale Valdez, scambio al quale Churchill prese parte standosene tranquillamente in sella. I ribelli dopo la fucileria si rintanarono nuovamente nella giungla e i soldati spagnoli si guardarono bene dall'andare a stanarli.

Finita per Churchill e per il suo commilitone Barnes la pagina cubana, ci fu il rientro in patria con la prima decorazione: l'ordine spagnolo al valor militare.

Le corrispondenze per il «Daily Graphic» gli avevano fatto guadagnare 25 ghinee per cinque articoli e aveva speso questa somma in modo piuttosto singolare, acquistando cioè l'edizione rara di un libro nelle aste di Sotheby. Un amore, questo per i libri rari, che non verrà coltivato in seguito, anche se continuerà ad acquistarne di meno preziosi per aumentare le sue cognizioni.

È a questo punto che ricevette il consiglio da Bourke Cockran di dedicarsi agli studi di sociologia e di politica economica.

Tutte le case londinesi erano aperte per lui, sia quelle dei vecchi amici di suo padre sia quelle delle conoscenze di sua madre. Si aprirono anche le porte della casa Rotschild.

Nell'intervallo di tempo che lo separò dal viaggio in India, ebbe modo di frequentare i salotti più esclusivi e far tesoro di queste conoscenze. Soprattutto ne ricavò appoggi che gli sarebbero serviti in futuro.

Per il momento nel suo orizzonte c'era solo il IV Ussari destinato a trascorrere in India diversi anni. E mentre Churchill aveva un occhio rivolto al suo reggimento, con il cervello pensava al modo di far quattrini.

Le sue ambizioni erano infatti quelle di poter un giorno entrare a far parte della Camera dei Comuni. Il perché necessitavano i soldi per far parte della Camera dei Comuni era presto detto: i membri della stessa non ricevevano stipendio alcuno e sarà solo a partire dal 1911 che si parlerà di uno stipendio, un qualcosa di misero tuttavia perché si tratterà di sole quattrocento sterline l'anno.

Per recarsi in India viaggiò sul piroscafo Britannia passando il suo tempo a giocare a scacchi e a interminabili partite di picchetto in buona compagnia perché vi erano circa quattrocento ufficiali imbarcati.

All'approdo in India, Churchill ebbe però un incidente quasi banale ma destinato ad avere ripercussioni per tutta la sua vita.

Ecco come lo stesso Churchill raccontò il suo incidente:

«Dopo circa un quarto d'ora, noi giungemmo a un lungo muro di pietra con gradini sdrucciolevoli e anelli di ferro per appiglio. La barca oscillò sui marosi quattro o cinque volte. Io allungai la mano e mi aggrappai all'anello. Ma prima che potessi mettere il piede sul gradino, la barca oscillò causandomi un violento strappo alla spalla destra...».

Per tutta la vita risentirà le conseguenze di questo incidente finendo per giocare a polo con l'avambraccio legato strettamente al torace. E dovette moderarsi più tardi anche nelle gestualità durante le concioni alla Camera dei Comuni. Ma in seguito ringrazierà il destino per questo incidente e precisamente nella battaglia di Omdurman allorché sarà obbligato a sostituire la sciabola con una più moderna pistola Mauser.

In India si occupò della collezione di farfalle. Malauguratamente dopo essere riuscito a raccoglierne 65 specie tra le più rare, un topo, introdottosi nel suo gabinetto da lavoro, gli guastò ogni cosa.

Si interessò anche di giardinaggio e chiese al fratello Jack, che si trovava in Gran Bretagna, di inviargli semi di tulipani e altre specie che non si trovavano in India, per vedere se vi fosse la possibilità di farli attecchire. Fu in questo periodo che incontrò il primo amore della sua vita, Pamela Plowden. Era una donna molto bella e intelligente, tanto più se comparata alle bellezze locali che a Churchill parevano semplicemente «immonde».

 

 

Capitolo II

PASSAGGIO IN INDIA

 

Verso la fine del febbraio 1898 Churchill si recò a Meerut per la gara di polo tra il IV Ussari e il V dei dragoni della guardia. Una gara vinta dal IV che sarà però a sua volta battuto dal reggimento di fanteria leggera Durham.

Ma l'attenzione di Winston era altrove, era alla frontiera del nord, nella zona di Tirah dove c'erano delle agitazioni.

Ebbe a questo proposito un abboccamento con Sir Bindon Blood e concepì il progetto di recarsi a Peshawar in ferrovia e di lì a Tirah per vedere se non avesse potuto avere un impiego nei locali quadri dell'esercito. Nei suoi progetti ebbe un insperato aiuto dal capitano Haldane il quale a quel tempo serviva, con quel grado, nei Gordon Highlanders, ma aveva in effetti una grandissima influenza. Inoltre egli poteva contare sull'appoggio del generale Hamilton che aveva appena assunto il comando della 3a brigata del corpo di spedizione di Tirah e che Churchill definiva come suo grande amico in una lettera che scrisse alla madre il 25 febbraio 1898.

Poi, con i suoi camerati, Churchill venne posto di stanza a Bangalore. Qui trascorrerà un periodo di intense letture. Durante il suo soggiorno in India leggerà i 12 volumi di Macaulay, tutto Gibbon per oltre 4.000 pagine, una lettura che aveva già cominciato in Gran Bretagna, le memorie dello stesso Gibbon, la Repubblica di Platone nella traduzione dello Jowett, e via dicendo, ivi comprese le lettere di Pascal.

Dopo quasi un anno di letture alternate al gioco, tutto permeato di atmosfera indiana dal sapore vagamente kiplinghiano, ottenne una licenza, di tre mesi, da trascorrersi in Gran Bretagna. Durante la traversata che doveva ricondurlo in patria, Churchill rinnovò la conoscenza del colonnello Jan Hamilton il quale lo informò che tra i turchi e i greci i rapporti erano tesissimi.

Winston, che non vedeva l'ora di poter partecipare a una nuova guerra, si fece subito attento e si informò con visibile interesse. Per sua sfortuna però, una volta che la nave arrivò a Porto Said, apprese che le ostilità erano già terminate. Decise allora di fare il turista e si recò in Italia dove ebbe modo di visitare Pompei e Roma. Di qui proseguì in treno per la Gran Bretagna. Sul campo di corse di Goodwood gli giunsero, da uno strillone di giornali, le notizie riguardanti lo scoppio delle rivolte alla frontiera con l'Afghanistan. Si precipitò allora a telegrafare al generale Sir Bindon Blood (da lui conosciuto in casa di Lord William Beresford), al quale era stato dato l'incarico di ristabilire l'ordine.

Senza neppure attendere la risposta al suo telegramma, si imbarcò a Calais, attraversò Francia e Italia, e dal porto di Brindisi prese il primo piroscafo per l'India.

A Bombay trovò ad attenderlo la risposta: non c'era bisogno di un ufficiale ma piuttosto di un corrispondente di guerra.

Sempre attraverso le conoscenze materne, ottenne l'incarico dal «Daily Telegraph» di fare una serie di corrispondenze con il compenso di cinque sterline per colonna. Si aggregò così al corpo di spedizione del Malakand e questo sempre grazie all'appoggio di Sir Bindon Blood che comandava quel corpo destinato a riportare la pace nelle zone del Pamir ai confini con l'Afghanistan. Riuscì poi ad ottenere l'incarico di corrispondente anche dal «Pioneer» di Allahabad.

Sotto una calura intensa fece quindi il suo viaggio verso il passo di Malakand.

Dice lo stesso Churchill:

«Non eravamo giunti fin lassù e non avevamo affrontato il caldo tremendo e i disagi per assistere da lontano agli interminabili conversari tra i nostri politici e quegli assassini di montagna!...».

Questo a significare il suo ardore bellico e la sua volontà di non limitarsi a fare il corrispondente.

Arrivati al posto di Malakand, Churchill scoprì che venivano messi all'asta l'uniforme e l'equipaggiamento di due o tre ufficiali che erano stati appena uccisi e si ritrovò bardato da capo a piedi con le spoglie di un morto.

Essendo stato attaccato il campo britannico, il generale aveva deciso di lanciare in ciascuna delle vallate una spedizione punitiva. La giornata riserbò però delle sorprese. La colonna in cui era Churchill venne letteralmente sommersa da nugoli di ribelli; Churchill stesso si trovò isolato nella retroguardia, dovette raccogliere un fucile e sparare per assicurare l'evacuazione dei feriti. Fu in quell'occasione che abbatté, a revolverate questa volta, un indiano. È lui stesso a dirci di aver provato un preciso impulso a uccidere. Dopo lo scontro, il corrispondente del «Pioneer» e del «Daily Telegraph» venne destinato al 31° di fanteria del Punyab. E qui ci fu una nota comica, dovendo il sottotenente Churchill impartire gli ordini a gesti a truppe coloniali che non capivano l'inglese!

Un giorno però, mentre si trovava al nord di Peshawar in alta montagna, il colonnello del IV Ussari gli fece pervenire l'ordine di raggiungerlo al più presto a Mysore. Invano egli chiese di poter ritornare sul campo.

Riuscì a farsi ricevere dal viceré delle Indie a Calcutta durante una breve licenza per Natale, ma non ottenne il cambiamento voluto. Si consolò allora scrivendo la Storia del corpo di spedizione del Malakand, un volume scritto di getto in poco più di due mesi e che in patria diverrà quasi un bestseller (da notare che il giornale di Allahabad era quello che aveva pubblicato per primo Kipling).

Quindi non soltanto Churchill ricevette gli omaggi per il suo coraggio e gli elogi per la risoluzione, non solo diede a vedere di godere di una fortuna quasi sfacciata (occorre rammentare che è soprattutto nelle operazioni contro i Mamund e gli Afridi che gli inglesi subirono le più scottanti perdite) ma il suo libro, che criticava tra l'altro i comandi militari, godrà di notevolissimo successo. In esso si narrava del corpo di spedizione al passo di Malakand, delle tribù ribelli, soprattutto dei Mamund ribellatisi sotto il peso e l'influenza del fachiro di Ipi, e di tante altre avventure (perché non è il caso di definirle altrimenti).

Quando una coppia delle bozze del libro sulla spedizione di Malakand arriverà a Peshawar, Churchill scriverà indignato alla madre per il considerevole numero di refusi, molti dei quali assai grossolani, in esso contenuti.

«Nella speranza di fermarne la pubblicazione» scriverà, «ho telegrafato alla Longmans, ma temo che sia ormai troppo tardi».

«Non biasimo nessuno fuorché me stesso» scriverà ancora, «ma il risultato è tale da guastare ogni gioia, vedendo il libro, e permane solo la vergogna che una tale sconcezza possa venir presentata al pubblico... un esempio di quella che mio padre avrebbe chiamato sciatteria...».

In effetti in quelle bozze c'era di tutto, ivi compresi dei nomi che l'autore aveva scritto in maiuscolo per migliorare la comprensione della grafia e che erano stati puntualmente riportati in maiuscolo; vi saranno stati almeno 200 tra refusi, errori e sbagli. Comunque, nonostante tutto, le pagine sulla spedizione al passo di Malakand incontrarono un successo straordinario.

Nello stesso periodo in cui diede alle stampe il libro, Churchill redasse anche un romanzo, Savrola, di cui sconsiglierà sempre la lettura agli amici. Curioso aspetto questo del Churchill giovanile che non disdegnava il feuilleton.

Giovane senza pace, non appena finita la pagina indiana, Churchill già si guardava intorno per cercare un nuovo terreno di scontri e di battaglie. Il successo delle sue corrispondenze gli aveva fatto pensare per un attimo di darsi al giornalismo militante o comunque di dedicarsi all'attività di scrittore.

Le condizioni favorevoli per il gioco che intendeva fare Churchill erano nel Sudan. Nel Sudan il figlio di un falegname, Muhammad Ahmad, un uomo straordinario che a dodici anni leggeva già il Corano sapendolo commentare, si era ritirato come anacoreta su un isolotto sul Nilo, isolotto divenuto presto meta di pellegrinaggi di giovani sudanesi che chiedevano all'uomo di intervenire per risolvere i gravi problemi in cui versava il paese.

Muhammad Ahmad si nominò allora profeta (Mahdi) per infiammare con la parola islamica tutto il Sudan che divampò come una torcia e fu perduto per l'Egitto. Il Mahdi e la setta dei Dervisci avevano quindi creato uno stato teocratico rettosi fino alla morte del Mahdi, nel 1885. Per gli inglesi si era trattato di una bruciante sconfitta che adesso era il caso di rovesciare, da qui la campagna mossa dal generale Kitchener, comandante in capo dell'esercito anglo-egiziano, contro i Dervisci e la loro capitale Omdurman.

Churchill aveva chiesto regolarmente, ma senza alcun esito, tramite il War Office, la possibilità di far parte dell'armata d'Egitto. Non rimaneva che ricorrere ancora una volta a sua madre, la quale scrisse a Sir Herbert Kitchener che però non aveva voluto saperne. Anzi aveva risposto che non aveva affatto bisogno della collaborazione del giovane Winston. A questo punto la madre ricorse più semplicemente al primo ministro. Lord Salisbury aveva letto il libro sugli avvenimenti di Malakand e aveva pregato l'autore di recarsi da lui, dopodiché aveva scritto a... Sir Herbert Kitchener il quale aveva ripetuto il suo diniego! Allora Churchill decise di partire ugualmente. Sua madre lo accompagnò fino a Marsiglia; qui si imbarcò insieme a un contingente di truppe di rinforzo durante la sosta della nave nel porto francese. In tasca aveva la lettera con le credenziali del «Morning Post».

Così compì la traversata fino al Cairo e qui ebbe un lampo di genio: per potersi far aggregare come volontario, cioè senza paga, era ricorso a uno stratagemma, quello di far capo all'aiutante di campo generale della spedizione, Sir Evely Wood, che si lamentava delle continue interferenze di Kitchener nelle sue specifiche attribuzioni. Ora la nomina di Churchill non dipendeva forse da Wood? Certamente sì.

E fu così che Winston poté arruolarsi al Cairo venendo aggregato al 21° lancieri, corpo formato da volontari. Partecipò quindi alle operazioni che culminarono nella battaglia di Omdurman e alla carica di cavalleria della stessa battaglia (2 settembre 1898).

Più che di una battaglia si trattò di una crudele carneficina: i Dervisci vennero decimati dalle mitragliatrici Maxim, impiegate per la prima volta, e dal fuoco delle cannoniere che avevano risalito il corso del Nilo.

Ma vediamo in dettaglio come si svolsero gli avvenimenti.

Il 2 agosto 1898, nelle nuove uniformi color kaki, con caschi coloniali, ghette, cinturoni e revolver, si imbarcarono gli uomini delle baracche di Abbasiya (Cairo) sul treno. Si trattava di un lungo convoglio composto di carri bestiame per i cavalli dei reparti di cavalleria, e di vagoni per la truppa.

Soprattutto difficoltoso si rivelò l'imbarco dei cavalli sui carri bestiame.

L'equipaggiamento era quanto di più moderno si potesse avere a quel tempo: caschi coloniali, occhiali da campo, zaini, borracce, carabine dell'ultimo modello, ecc. Il mattino del 16, presto, quando ancora si vedevano le stelle nel cielo, il convoglio e la sua scorta partirono.

Churchill rimase indietro nei dintorni di Atbara, trattenendosi più del previsto. La colonna, alla quale avrebbe dovuto congiungersi, era ormai più di quindici miglia lontano.

Con il traghetto a vapore si fece portare sulla riva occidentale del Nilo. Apparentemente non vi erano difficoltà, ma in realtà, a causa del cielo nuvoloso, mancava di riferimenti. Per cui fu costretto a passare la notte all'addiaccio accanto a una pietra con il cavallo che mostrava segni di sete e di irrequietezza.

Circa verso le tre e mezzo del mattino le nuvole si diradarono e lasciarono intravedere la costellazione dell'Orione.

Per fortuna, dopo due o tre ore di cavalcata, si cominciarono a vedere i primi cespugli che, a mano a mano che il corso del Nilo si faceva vicino, diventavano sempre più densi. Nel frattempo cominciò ad albeggiare e si intravidero i primi palmizi. Ed ecco, miracolosamente il Nilo. Subito il cavallo si buttò a corpo morto dentro quell'acqua mentre lo stesso Churchill, immerso fino alle ginocchia, si dissetava.

Rimaneva da scoprire dove fosse andata la colonna. Il vecchio accampamento era ormai deserto. Per poter chiedere notizie agli abitanti del luogo, che ovviamente non capivano una parola di inglese, Churchill non trovò di meglio che disegnare con la sciabola sul muro di una casupola di fango l'immagine di un cavaliere.

Era giunto infatti ad un piccolo villaggio, e a gesti gli abitanti gli fecero capire che al mattino presto i cavalieri erano passati per di là. Aggiunsero anche la parola Omdurman, la direzione presa.

A questo punto non rimase a Churchill che forzare l'andatura del cavallo per raggiungere finalmente i suoi.

Il 30 agosto 1898 corse voce che i Dervisci avevano fatto la loro apparizione. All'alba del 31 agosto si scorse infatti all'orizzonte il loro esercito. A recare la notizia al comandante fu il sottotenente Churchill. Sir Herbert Kitchener avanzava a cavallo alla testa del suo stato maggiore, seguito da due portabandiera. Per fortuna di Churchill, Kitchener non gli chiese il nome anche se gli fece qualche domanda.

All'alba del giorno seguente Churchill venne di nuovo inviato in ricognizione. Nella luce del mattino vide una marea sterminata di Dervisci: circa settantamila. La battaglia di Omdurman stava per incominciare.

Dall'alto della collina di Merreh, si poteva vedere l'armata del Nilo con i suoi cannoni, le masse di fanteria e d'artiglieria, i soldati a cavallo e il corpo cammellato formato da coloniali.

Questa visione sarà ben presto cancellata da un'altra raccontata nel libro La guerra sul fiume1.

1 Sul libro The River War, La guerra sul fiume, il «Daily Mail» del 7 novembre 1899 scriveva un elogio fuori d'ogni discussione. L'unico appunto che si sarebbe potuto fare riguardava la sua lunghezza; un po' troppo prolisso, insomma. Il libro veniva comunque descritto come imparziale; lo stile era qualche volta paragonato a quello di Gibbon, con l'ultima parte scritta nello stile classico del corrispondente di guerra. Era comunque un successo editoriale per cui, esauritasi ben presto la tiratura di 2000 copie furono necessarie altre due ristampe per complessive 1000 copie.

Dall'alto della collina di Surgham, dove Churchill si era posto come osservatore, si poteva vedere uno spettacolo straordinario: l'armata dei Dervisci si profilava come una serie di macchie scure sul bruno della pianura. Verso est era invece visibile l'armata anglo-egiziana. Le due forze erano divise tra loro da cinque miglia.

Churchill guardava alternativamente i due schieramenti contrapposti. Per Kitchener non si poteva trovare migliore terreno di battaglia. Era molto calmo, non lo preoccupava l'avanzata del nemico che procedeva svelto, tanto che adesso era a sole quattro miglia dallo schieramento inglese.

Gli inglesi avevano alle loro spalle il fiume con alcune cannoniere a basso pescaggio. Il fronte del nemico era composto da una grande massa d'armati con grande quantità di riserve sui fianchi e nella retroguardia.

Così si presentava il quadro della battaglia di Omdurman.

Stando così le cose, rimase l'opportunità di far effettuare una carica di cavalleria contro un nemico così numeroso. Ma poco mancò che la carica si tramutasse in un disastro per quei 300 britannici buttati nella mischia in tre minuti di combattimento.

Vediamone la cronaca.

Erano le 8,40 del 2 settembre 1898. Gli uomini del 21° lancieri si dirigevano adagio verso le file dervisce passando al trotto, incolonnati di fronte a loro, da destra a sinistra.

In quel preciso istante i Dervisci si misero in ginocchio e aprirono il fuoco: violentissimo.

«La distanza», scrive Churchill, «era troppo esigua perché il tiro risultasse senza conseguenze e io mi resi conto che rimanevano solo due alternative: conversione a sinistra in linea e via al galoppo per tornare a riprendere i feriti: una cosa sconveniente; oppure conversione a destra in linea e alla carica».

La tromba non fece comunque in tempo a suonare che tutti erano già al galoppo di carica sotto un fuoco troppo intenso per consentire qualunque manovra di squadrone.

«Di fronte a me», scrive sempre Churchill, «vi erano quattro file. Ma vennero tutti scaraventati al suolo e passammo oltre senza difficoltà. Uno dei miei uomini cadde. Venne fatto a pezzi. Cinque o sei cavalli rimasero feriti da colpi da tergo, ma tutti gli altri erano indenni. Venimmo poi a trovarci in una zona di uomini sparsi e di combattimenti individuali. Lo schieramento si disperse e scomparve...».

La cosa tuttavia non fu così semplice come Churchill ha cercato di descriverla.

Prima di tutto le forze affidategli furono presto disperse e si sbandarono; l'ufficiale che sostituiva Churchill al comando venne ucciso; per due volte lo stesso Churchill fu sul punto di venir disarcionato e fatto a pezzi; per due volte uccise a colpi di pistola l'avversario.

E oserà scrivere che l'esperienza di una carica di cavalleria non era stata affatto eccitante e non gli era sembrata un pericolo...

E poi vi furono le perdite: ben ventuno i morti e quaranta i feriti.

Della guerra derviscia Churchill farà un resoconto nel già citato libro La guerra sul fiume, altro bestseller da cui abbiamo tratto la pagina riguardante la carica. Resoconto di una guerra in cui non mancarono le pagine macabre: perfino la tomba del Mahdi venne profanata dai britannici che ne prelevarono le spoglie gettandole nel Nilo, mentre il cranio fu preso dallo stesso Kitchener e messo in una latta di petrolio.

Omdurman rappresentò l'ultima grande battaglia d'epoca coloniale e l'ultima carica di cavalleria delle guerre britanniche prima dell'avvento e della generalizzazione dell'impiego della mitragliatrice.

Dopo la battaglia Churchill scriverà così alla madre:

«Cara mamma (...) sono stato sotto il fuoco tutto il giorno e ho cavalcato nel bel mezzo della carica. Tu conosci la mia fortuna in queste cose. Credo d'esser stato l'unico ufficiale che non abbia ricevuto colpi sui finimenti o ai vestiti o al cavallo. Ho sparato dieci colpi con la mia pistola, tutti necessari, e siamo giunti dall'altra parte dopo esserci creato un passaggio tra la calca. Non ho mai provato il benché minimo nervosismo e sono stato calmo come lo sono ora scrivendoti (...) Mi dispiace di avere colpito di sicuro cinque uomini e altri due quasi sicuramente. La pistola era la migliore al mondo».

Eppure non fu una cosa facile: Grenfell, suo amico carissimo, morì; lo stesso dicasi per Hubert Howard. Altri accusarono gravi ferite come Dick Molyneux e Jack Brinton. Lo stesso colonnello Rhodes rimase ferito; le perdite furono di cinque ufficiali, più di settanta uomini e un centinaio di cavalli. Il tutto in 120 secondi.

Churchill si dichiarò molto lieto di aver aggiunto all'esperienza militare quella di una carica di cavalleria senza averla trovata né particolarmente eccitante né considerevolmente pericolosa. Di certo non vide uomini migliori del 21° lancieri, ammirandone l'addestramento e la disciplina.

Ma non ci sono solo i resoconti militari: in una lettera scritta il 16 settembre 1898 al colonnello Jan Hamilton, disse di essere praticamente in disgrazia presso le autorità, vale a dire presso Kitchener, il quale sarebbe stato addirittura furibondo nei confronti di Sir Wood che l'aveva inviato al fronte...

 

Spentisi gli echi della battaglia e dei Dervisci, nel novembre 1898 Winston Churchill decise di darsi alla politica e chiese alla direzione del partito conservatore l'assegnazione di un collegio elettorale. Robert Ascroft invitò Winston a partecipare alle elezioni, ma, prima che potesse dar vita al progetto, mori.

Come semplice oratore Churchill partecipò a un comizio a Bath dove ebbe la gradita sorpresa di vedere che il pubblico lo applaudiva diverse volte. Era quello per lui un momento favorevole: si presentò al seggio di Oldham dove ebbe la ventura di fare politica con un personaggio curioso: James Mawdsley, un tipo approdato dalle file dell'operaismo a quelle del conservatorismo.

Ebbe per avversari un industriale e il figlio dell'armatore Runciman; naturalmente tutto il comizio di Churchill si fondò sull'autoincensamento di partecipante di fatto alle guerre coloniali e ai successi conseguiti (quasi che fossero tutti opera sua...).

Alla fine però perdette la battaglia, forse per il connubio male assortito con l'operaio-conservatore Mawdsley (il quale, sia detto per inciso, farà una brutta fine morendo in strane circostanze nella vasca da bagno).

Le elezioni furono infatti vinte dall'industriale Emmott e Churchill venne battuto ai voti anche da Runciman.

Tornato a Londra, si abboccò con i principali proprietari di giornali dell'epoca: così poté pranzare accanto a Moberly Bell, il proprietario del «Times», e al figlio del direttore del «Morning Post».

Si trattò di amicizie che gli risulteranno preziose quant'altre mai e che gli permetteranno di passare indenne attraverso le polemiche seguite all'episodio di Omdurman, dove sulla «Westminster Gazette» erano apparsi giudizi negativi sull'operato degli inglesi che non avevano voluto fare prigionieri, seguendo in ciò le direttive di Kitchener, ma legittimando la pratica di uccidere i feriti.

 

 

Capitolo III

ALLA GUERRA DEI BOERI

 

Churchill si apprestava a diventare l'uomo preconizzato da G.W. Stevens, uno dei giornalisti più quotati del momento, che per il «Daily Mail» aveva scritto un articolo destinato a rimaner famoso dal titolo «Il più giovane personaggio d'Europa».

In quest'ultimo Stevens definiva Churchill ancora un ragazzo ma già un uomo per adeguamento dei mezzi ai fini, uomo dalle ambizioni ben definite anche se poco modesto, demagogo nato, mezzo aristocratico, mezzo uomo da strada... «Seguendo sempre per filo e per segno quel ritmo, Churchill potrebbe trovare piccola la Gran Bretagna, dato che per il momento si tratta di un prodigio...».

Parole profetiche dette in un momento in cui su Churchill c'era ancora chi non era disposto a scommettere un soldo su quello che appariva come un super protetto rompiscatole...

Ci fu qualcuno, come il suo avversario politico Runciman, che lo definì spaccone, facendone il ritratto di un avventuriero: Churchill ebbe facile destro nel replicare che Runciman aveva combattuto soltanto nelle battaglie civili, che non aveva mai visto scorrere il sangue e non era mai stato in combattimento.

E gli elettori, anche se non gli diedero la palma, pure si mostrarono sensibili alle sue argomentazioni.

E Winston ne ricavò, se non altro, l'appellativo di Winnie che lo accompagnerà tutta la vita. Per meglio chiarire il clima di quei giorni, basterà citare l'organo «Morning Post» che in un suo editoriale scrisse che gli onori della giornata sarebbero andati soprattutto al signor Churchill se..., beninteso se, il destino non avesse disposto altrimenti.

Certo non erano in molti a prevedere il successo churchilliano in un momento in cui era celebre la frase pronunciata alla fine della carica di cavalleria, quando Churchill s'era rivolto a un commilitone per chiedergli se gli fosse piaciuta...

 

Un'altra guerra era alle porte e due settimane dopo il suo scoppio, alla fine d'ottobre del 1899, Winston Churchill s'imbarcò come corrispondente del «Morning Post»: destinazione l'Africa del Sud.

Intendeva essere spettatore (e non solo quello) del conflitto anglo-boero.

Churchill s'era già occupato del problema dei boeri alla fine del 1896.

«Presto o tardi», aveva scritto, «per la salvezza del nostro impero o per la salvezza del nostro onore, dovremo combattere i boeri».

Non ci dovevano essere mezze misure. Le forze impiegate avrebbero dovuto essere forti a sufficienza per annullare ogni opposizione e al tempo stesso per intimidire tutti i simpatizzanti. E ribadiva:

«Presto o tardi», doveva concludere Churchill, «con l'approvazione dell'Europa, noi dovremo batterci con i boeri».

Churchill era profondamente convinto che vi sarebbe stata una guerra, essendo in questo d'accordo con una larga fascia dell'opinione pubblica.

Ora la pagina che vede opposti i due popoli, la piccola nazione boera e il potente leone britannico, è di quelle che fanno riflettere.

Vediamo da vicino come andarono effettivamente le cose.

 

«Dal 1890 in poi», racconta lo stesso Churchill, «gli avvenimenti in Sudafrica stavano muovendosi verso una svolta decisiva. Già da un pezzo esistevano controversie tra i boeri e gli inglesi per il dominio di questa regione».

I boeri, discendenti prevalentemente da coloni di origine fiamminga, scesi in Africa (all'estremo sud del paese) agli albori del secolo diciassettesimo, «avevano formato la loro repubblica all'interno della regione del Transvaal», dice ancora Churchill, «mentre gli inglesi padroni della colonia del Capo e del Natal dominavano le coste meridionali e occidentali. In pochi anni lo sviluppo delle miniere d'oro a grande profondità aveva conferito a una città, Johannesburg, nel Transvaal, una rilevanza economica mondiale.

«Lo stato degli agricoltori boeri, che fino a quel momento si erano accontentati di condurre una vita pastorale nelle regioni semideserte dell'interno in cui erano immigrati i loro avi, si trovava adesso a gestire una fiorente città moderna con una popolazione in rapido aumento. Nella capitale boera di Pretoria, che si trovava a sessantacinque chilometri a nord di Johannesburg, si era insediato un governo forte, capace e con mire d'espansione, che si trasformò presto in un miraggio per gli olandesi di tutto il Sudafrica. Il governo era sostenuto dalla forza di cinquanta o sessantamila agricoltori boeri assai fieri, fedeli alla loro causa, bravi soprattutto nell'andare a cavallo tanto da essere considerati i migliori guerrieri a cavallo dal tempo dei mongoli. Il governo era poi rafforzato dalla tassa sull'oro che veniva estratto in quantità sempre più grandi e riceveva appoggi da Olanda e Germania».

Ovvio che la presenza di queste miniere d'oro avesse attirato l'interesse di molti avventurieri soprattutto britannici che finirono per domandare il diritto di voto che fu loro negato dai boeri.

Erano stati chiamati Outlanders. Racconta ancora Churchill che in quegli anni il governo britannico si fece paladino della causa degli Outlanders.

«(...) I boeri avevano buone ragioni dalla loro parte. (...) Improvvisamente, ai primi d'ottobre, gli uomini coraggiosi che dirigevano la politica estera boera decisero di risolvere la questione».

«Le grandi contese nascono spesso da piccoli spunti (...) Gli avvenimenti che precedettero lo scoppio della guerra in Sudafrica vennero seguiti dagli inglesi e direi da tutto il mondo con minuziosa attenzione. La lunga vicenda delle contese con i boeri (...) era una materia familiare al pubblico. Il paese seguiva con attenzione ogni tappa dei negoziati e ogni fase delle contese che si svolsero nel 1899. Ogni particolare fu discusso in una atmosfera assai tesa tra opposizione e governo alla Camera dei Comuni».

Tra l'estate e l'autunno l'opinione pubblica era divisa in due settori: «Da un lato c'erano quelli che credevano inevitabile la guerra, dall'altro c'erano quelli che auspicavano l'impegno di ogni risorsa politica e morale per tentare di impedirla. Fu un'estate difficile; giorno per giorno l'atmosfera si faceva più tesa: si sentiva avvicinare la tempesta. (...)

«Il Transvaal aveva incominciato ad armarsi seriamente. Una polizia ben armata teneva sotto controllo tutti gli Outlanders (...) Dei tecnici fatti venire dalla Germania stavano lavorando a una fortezza che permetteva di dominare dall'alto con le sue artiglierie Johannesburg. Cannoni, munizioni, fucili, giungevano dall'Olanda in numerosa quantità per armare tutti gli abitanti delle repubbliche boere e un numero anche maggiore di boeri sparsi sul territorio della colonia».

Invano i boeri avevano chiesto che venissero allontanate dalla frontiera con il Transvaal le truppe britanniche che da tempo erano state fatte affluire lungo quel confine.

Per cui alla fine i boeri si decisero a inviare un ultimatum che concedeva alla Gran Bretagna tre giorni di tempo per sguarnire la frontiera.

Era la guerra. Non era neppure passata un'ora dall'ultimatum dei boeri che subito venne affidato a Churchill l'incarico di corrispondente di guerra del «Morning Post». Si trattava di un successo. A Churchill erano state promesse 250 sterline al mese con tutte le spese pagate e la libertà assoluta di scrivere quello che a lui piacesse con l'impegno di far durare la collaborazione per almeno quattro mesi.

Erano le migliori condizioni mai fatte a un giornalista britannico, soprattutto in considerazione dell'età del corrispondente: 24 anni.

Churchill prenotò subito il passaggio sul primo piroscafo che fosse diretto verso il Sudafrica. Era il Dunottar Castle.

L'unità salpò da Southampton l'11 ottobre: era il giorno in cui scadeva l'ultimatum boero. A bordo della nave c'era il generale Sir Redvers Buller con il suo stato maggiore e parte del corpo d'armata destinato a portare aiuto al Sudafrica britannico.

Stando alle parole di Churchill, Buller era una di quelle tipiche personalità che parlano poco e si fanno capire ancora di meno. Non era certo di quelli che sanno spiegare le cose, né cercò mai di farlo. Non appena la conversazione si faceva seria, emetteva dei brontolii facendo ogni tanto un cenno col capo. Soprattutto non affrontava mai i problemi militari. Era uno di quegli uomini destinati a passare di errore in errore, di disastro in disastro, senza per questo perdere il suo valore o la stima del paese. Aveva poi il consenso dei soldati perché si preoccupava molto del loro nutrimento.

A quel tempo non esisteva la radio, e una volta imbarcati si perdeva il contatto con il resto del mondo.

Approdata la nave a Madera, si venne a sapere che i negoziati anglo-boeri erano stati interrotti e che le truppe erano in movimento da ambo le parti.

Si proseguì col viaggio finché non venne intravisto un piroscafo diretto alla parte opposta. Da un messaggio scritto sulla lavagna da un marinaio di quel piroscafo, vennero a sapere che i boeri avevano subito una sconfitta e che vi erano già state tre battaglie in una delle quali era morto il comandante Penn Symonds.

Dopo un certo lasso di tempo, giunsero a Città del Capo quando ormai si era già fatto buio e le luci della località illuminavano le rive.

Purtroppo le notizie apprese sbarcando non erano delle più confortanti. Il 31 ottobre era avvenuto un disastro nei pressi di Ladysmith: 1200 soldati inglesi si erano arresi e gli altri erano stati respinti all'interno della città trasformata in un campo trincerato. Per di più la linea ferroviaria era stata interrotta, il che faceva presagire che l'assedio sarebbe stato duro a sostenersi.

Churchill era smanioso e voleva a tutti i costi raggiungere Ladysmith, ma la cosa non era possibile e non poté procedere se non fino a una piccola borgata con poche centinaia di abitanti: Estcourt.

«I boeri», racconta ancora Churchill, «avevano occupato le stazioni successive e il ponte della ferrovia e, per disgrazia degli inglesi, c'erano a disposizione solo un battaglione, alcuni squadroni di cavalleria, due compagnie di fanteria leggera e un treno blindato».

Il 3 novembre 1899 Churchill scriveva alla madre di avere sottostimato la forza militare e lo spirito dei boeri:

«Ho seri dubbi che un solo corpo armato possa essere sufficiente per venire a capo della loro opposizione».

Di fronte agli inglesi c'era una fiera resistenza. Comunque il 14 novembre il capitano Aylmer Haldane ricevette dal suo colonnello istruzioni verbali per assumere la direzione del treno blindato.

Osserva Churchill:

«Non c'è nulla che dia l'impressione di potenza e di invulnerabilità come un treno blindato; in realtà non esiste al mondo cosa più fragile e inefficace. È sufficiente fare saltare un ponte o anche le rotaie perché il poderoso mostro venga bloccato lontano dalla sua base e sia in preda al nemico. Evidentemente il colonnello non ci aveva pensato. Decise di impacchettare una compagnia della fanteria leggera di Durban e una dei fucilieri di Dublino nel treno formato da sei carri, aggiungerci un cannoncino da marina, che era stato appena sbarcato dalla corazzata Terrible, e spedire il tutto (...) sulla linea che in teoria portava a Colenso. Haldane me ne parlò il 14 novembre sera. La spedizione doveva partire l'indomani mattina all'alba. Non mi nascose la sua preoccupazione, capiva perfettamente che si trattava di un'impresa idiota. Ma come tutti all'inizio di quella guerra, sognava di buttarsi in un'azione a tu per tu con l'avversario. Mi chiese se volessi partire con lui. Certamente che volevo partire, anch'io avrei voluto trovarmi nei pasticci e poi era compito di corrispondente del "Morning Post" vedere tutto quello che potessi osservare. Questo episodio del treno blindato è stato discusso a dritto e a rovescio. Partì all'alba e percorse 22 chilometri senza alcun disturbo, anzi senza che scorgessimo segno di vita sulla campagna ondulata che attraversavamo. Facemmo una sosta a Chieveley: il tempo di segnalare per telegrafo al generale che non c'era niente da comunicare.

Quel treno era così composto: carro merci aperto con a bordo un cannone navale con un distaccamento, poi un carro blindato con a bordo i tre quarti di una compagnia del secondo fucilieri di Dublino; veniva poi la locomotiva e il tender seguiti da due carri blindati con a bordo una seconda compagnia dei fucilieri di Dublino e in più una compagnia di fanteria leggera Durban; chiudeva il convoglio un carro soccorso con relativo personale.

Avevano appena spedito il messaggio, che successe l'imprevedibile: un deragliamento in piena regola.

Il deragliamento dei carri di testa venne provocato dai boeri con un masso attraverso le rotaie, masso che non fu notato dal personale a bordo del treno, tutto impegnato nelle operazioni e nel rispondere al fuoco del nemico che si era fatto vivo all'improvviso.

Ma i boeri non disponevano solo di fucileria, ma anche di artiglieria.

Quanto a Winston Churchill, corrispondente del «Morning Post» si trovava sul treno a titolo abusivo trattandosi di un'operazione strettamente militare.

Con Churchill venne posto in azione il cannone da marina che però dopo pochi colpi venne messo fuori uso da una granata.

La cabina della locomotiva fu ben presto piena di feriti, inoltre alcuni colpi boeri l'avevano danneggiata soprattutto nel condotto dell'alimentazione dell'acqua.

Considerando che il fuoco nemico non si allentava, due soldati inglesi alzarono il fazzoletto bianco in segno di resa. Così alle 8,50 venne catturata una cinquantina di uomini, questo mentre la locomotiva faceva precipitosamente macchina indietro con il suo carico di feriti raggiungendo le linee inglesi a Estcourt.

Particolarmente interessante fu il comportamento del telegrafista che rimase sempre imperturbabile malgrado le pallottole che gli fischiavano attorno, ed encomiabile quello del guidatore della locomotiva che, nonostante fosse stato ferito, volle rimanere al suo posto. Il tutto sotto una pioggia battente. Fra i prigionieri, come si è detto, vi fu anche Winston Churchill.

Scrive lo stesso Churchill:

«Ero ritornato sui miei passi per circa 200 yarde, quando al posto di trovarvi Haldane e la sua compagnia vidi apparire due figure in abiti borghesi sulla linea: "Operai", pensai sul momento, poi con un soprassalto di lucidità mi dissi: "Boeri!" La mia mente conserva ancora l'impressione di queste alte figure, piene d'energia, abbigliate in abiti flosci e scuri, con larghi cappelli dalla tesa abbassata, che puntavano i loro fucili un centinaio di yarde più in là. Mi volsi di nuovo e corsi verso la locomotiva mentre i due boeri facevano fuoco e io correvo fra i carri deragliati; le loro pallottole mi sfioravano a destra e a sinistra, sembravano mancarmi per pochi pollici. Eravamo in un piccolo avvallamento con pendici di circa sei piedi sui due lati. Io mi schiacciai contro il lieve pendio. Ma non offriva protezione alcuna. Un'altra occhiata alle due figure: una di esse stava prendendo la mira in ginocchio. Il muoversi sembrava l'unica risorsa. Ancora una volta schizzai via; ancora due sibili si udirono nell'aria, ma niente mi colpì. Questo non poteva durare. Dovetti venir fuori da quella specie di corridoio. Mi buttai sulla sinistra e mi arrampicai sul bordo; la terra si sollevò accanto a me... Invano».

Churchill tentò di raggiungere un luogo più sicuro, ma ecco scorgere una figura a cavallo che galoppava verso di lui. Cercò la sua Mauser che aveva dimenticato sulla locomotiva: non c'era neppure quella. L'unica cosa da farsi era di arrendersi ed è ciò che fece.

Per il codice internazionale di guerra, Churchill era passibile di essere fucilato seduta stante: venne, infatti, trovato in possesso di un caricatore per pistola, segno indubbio che il «borghese» corrispondente di guerra non era alieno dal far fuoco.

Ai boeri dirà di aver appena raccolto il caricatore. Alla richiesta di essere lasciato in libertà, i boeri gli risposero che non capitava tutti i giorni di metter le mani sul figlio di un Lord.

Così Churchill venne trasportato, insieme ad altri e sotto buona scorta, a Pretoria e rinchiuso in una scuola trasformata in carcere.

Subito architettò piani rocamboleschi come quello di una fuga in massa dalla scuola e dall'ippodromo dove era stata confinata la truppa.

Di questi progetti mise al corrente il decano del campo il quale gli proibì di pensarvi un solo minuto di più.

Churchill decise allora di fare da sé. E con due commilitoni architettò un complicato piano di fuga. Si trattava di scavalcare il muro di cinta dell'edificio scolastico e di mescolarsi con la folla di Pretoria e prendere poi il treno...

Detto e fatto: mentre i due commilitoni rimandavano il tentativo, Winston scavalcò il filo spinato e si calò in strada proprio mentre la sentinella boera guardava dall'altra parte. Per tutto viatico aveva con sé alcune tavolette di cioccolata. I viveri erano rimasti infatti agli altri due unitamente alla bussola. Per di più Churchill non conosceva una sola parola di afrikaans.

Ma la sua stella aveva qualche cosa di soprannaturale e, senza volerlo, appena fuggito prese la direzione giusta.

Lo fece a bordo di un convoglio ferroviario che trasportava carbone e che a un certo punto si arrestò in una zona mineraria desolata e squallida. Balzato giù dal treno, temendo di essere portato lontano dalla frontiera portoghese sua meta, si trovò a dover girovagare in una zona completamente sconosciuta.

Sempre fidando nella sua buona stella, bussò all'unica casetta abitata da un inglese che si trovava in mezzo ad altre abitate da boeri. Il proprietario era l'amministratore di una miniera il quale fece nascondere Churchill in un pozzo abbandonato.

La cosa ha del paradossale perché Churchill trovò pronte le mani soccorritrici di alcuni scozzesi che lo presero in consegna e lo affidarono successivamente a un treno la cui direzione era, guarda caso, proprio la frontiera portoghese.

Come racconta lo stesso Churchill, i suoi amici gli avevano dato una pistola, due polli arrosto, qualche fetta di pane, un po' di carne, un melone e tre bottiglie di tè freddo. Questo perché il viaggio avrebbe potuto prendere più di sedici ore.

Dopo essere arrivato alla frontiera portoghese nascosto in balle di lana, Churchill balzò in piedi brandendo il revolver (sic!) e facendo fuoco in aria in segno di trionfo!

Spedì poi diversi telegrammi fra i quali uno al governo boero e l'altro a un importante quotidiano di Johannesburg, roccaforte boera. Questo per irridere alla taglia di venticinque sterline che i boeri avevano messo sul suo capo, vivo o morto!

Era fantastico, davvero stupefacente che un uomo potesse attraversare impunemente il veldt senza riportare neppure un graffio e senza esser visto da un solo boero!

Tutti i giornali si occuparono del caso Churchill e ci furono manifestazioni di giubilo tra la folla. Egli poté così imbarcarsi su una nave diretta a Durban dove venne accolto da un tripudio generale. Ebbe gli onori di una banda musicale e fu portato in trionfo fino alla sede del municipio.

Per il corrispondente del «Morning Post» era più che un trionfo, era l'apoteosi. Tanto più che il suo caso era stato glorificato come un'epopea da quasi tutta la stampa britannica.

 

Le corrispondenze sul «Morning Post» erano le più lette in quel periodo. In esse Churchill non aveva perso l'abitudine di far le pulci all'esercito e ai suoi capi spiegando ai lettori come la guerra boera fosse guerra di movimento, più guerriglia che guerra e che come tale andava affrontata.

Da qui il suo propugnare le formazioni di irregolari da affiancare ai militari di professione.

A questo punto il comandante delle truppe inglesi, Sir Redvers Buller, si mise a sua disposizione. Fu così che Churchill venne nominato tenente volontario della cavalleria leggera. (Era un contravvenire alla regola che non si poteva essere corrispondenti di guerra e al tempo stesso ricoprire incarichi nell'esercito).

Si istituì anche un corpo di volontari agli ordini del generale Roberts. Questi vestivano la divisa kaki, il colore del veldt, vanificando così il cecchinaggio boero.

Con il corpo di cavalleria Churchill prese parte alla liberazione di Ladysmith assediata dai boeri. Era il 3 marzo 1900: fece il suo ingresso nella cittadina, dalle casette con i tetti in lamiera, abitate da gente malconcia che stendeva le mani all'arrivo dei soccorritori.

Fu un momento di emozione, come narra lo stesso Churchill.

Egli prese poi parte alle due campagne dell'Orange e del Transvaal. Da osservare che anche suo fratello minore, John, partecipò alle operazioni rimanendo ferito a un fianco.

Quanto a Winston, dopo aver fatto parte dei collegamenti del quartier generale di Warren, il suo comandante (e in tale veste fu spettatore impotente della carneficina di Spion Kop, zona montuosa in cui le forze inglesi vennero sopraffatte dai boeri), si stancò presto di quella guerra non appena si accorse che stava volgendo in favore degli inglesi e tornò in patria in tempo per presentarsi al collegio di Oldham e vincere l'elezione per un pugno di voti contro il rivale Runciman.

Il partito conservatore stravinse in queste elezioni dell'autunno del 1900, anche se poi non seppe sottrarsi al diluvio di critiche che gli piovvero sul capo per la condotta stessa della guerra (su 60.000 boeri deportati del 1901, ben 7.000 moriranno di stenti e il totale delle perdite infantili sarà del 50%).

È chiaro che le notizie che giungevano dal Sudafrica non erano fatte per confortare l'opinione pubblica britannica che, questa volta, chiese più equità nel trattamento dei boeri ai quali venivano sistematicamente distrutte le fattorie, unico loro bene.

A nulla servì il viaggio compiuto in Europa dal presidente del Transvaal, Krùger, per sollecitare aiuti in funzione antinglese.

Nello stesso anno 1901, in gennaio, quando morì la regina Vittoria, Churchill si trovava negli Stati Uniti per tenere un ciclo di conferenze, a cinquanta dollari l'una, sulla guerra angloboera.

Dalla lotta armata a quella senz'armi, dal campo di battaglia alle battaglie parlamentari: l'iter di Churchill era già tracciato. E nelle battaglie parlamentari, quest'uomo darà il meglio di sé (nonostante un difetto di pronuncia: incespicava sulle «s»).

 

Già nel suo secondo discorso pronunciato all'età di ventisei anni, dimostrò di essere un politico di razza. Era quello un discorso che prendeva le mosse da una mozione presentata in favore dell'aumento delle spese militari e dell'allestimento di uno speciale corpo di fanteria.

Là dove suo padre era caduto scivolando sulla buccia delle riduzioni degli armamenti, Churchill stravinse convincendo il Parlamento a rimandare il progetto presentato dal segretario alla guerra, St. John Brodrick, di creare tre corpi d'armata permanenti, un progetto destinato a gravare parecchio sulle finanze dello stato.

Contemporaneamente esaltò il ruolo della flotta, dicendo che l'avvenire bellico della Gran Bretagna era nelle sue navi destinate a solcare tutti i mari, difendendo gli interessi britannici ovunque essi si trovassero minacciati.

La lezione delle cannoniere che avevano risalito il corso del Nilo nella guerra del Sudan non era stata dimenticata.

Tre corpi d'armata, ricordò Churchill, si sarebbero rivelati pochi in caso di guerra tra stati, guerra che non avrebbe potuto non essere coinvolgente a un massimo grado causando la rovina totale del vinto, ma anche il disastro economico per il vincitore, e sarebbero risultati troppi in caso di guerra coloniale.

Il discorso del deputato di Oldham fu tale che il progetto di Brodrick fu messo da parte e lo stesso Brodrick lasciò il ministero della guerra.

Che successo maggiore di questo avrebbe potuto volere Winston Churchill?

Con una sola mossa aveva riscattato la memoria paterna e sbaragliato il suo avversario politico del momento. Potenza dell'oratoria o magia e fascino personali? Probabilmente tutte e tre le cose insieme. Basti pensare al tono quasi messianico del suo messaggio:

«Un conflitto europeo altro non sarebbe che una lotta portata avanti senza pietà; una lotta che, se mai dovessimo ottenere gli amari frutti della vittoria, necessiterebbe forse per molti anni di tutti gli uomini validi del paese, il fermo totale dell'industria di pace e la concentrazione verso uno scopo unico di tutte le energie vitali della comunità».

Per concludere poi con la frase già sintetizzata che una guerra europea sarebbe potuta finire solo con la completa rovina del vinto e il collasso commerciale da parte del vincitore.

Non dimentichiamo la data del discorso: 12 maggio 1901.

Si trattava, come abbiamo visto, della ripresa della polemica paterna, ma non solo di questo; da un punto di vista politico, il discorso era un piccolo capolavoro.

La prima mossa del neo deputato, il dissidio beninteso con il suo partito, era da manuale. Churchill maestro dunque del tatticismo politico? L'accusa gli verrà mossa più tardi dai deputati conservatori molti dei quali arriveranno a definirlo un voltagabbana.

Nel suo discorso d'esordio ai Comuni, aveva già scandalizzato l'uditorio difendendo il punto di vista dei boeri («se fossi un boero sarei sul campo di battaglia» aveva esclamato); in questo secondo discorso intese rifarsi alla politica paterna e lo disse a chiare lettere affermando di «levare di nuovo la bandiera abbandonata su un campo devastato».

 

 

Capitolo IV

IL LEONCINO DEL PARLAMENTO

 

Winston Spencer Churchill sei anni dopo la morte del padre si accinse a scriverne la biografia. A poco a poco si instaurò una sorta di identità tra il biografo e il suo soggetto tanto che il discorso alla Camera dei Comuni sulla bandiera lacerata era diretto proprio alla figura paterna di cui il figlio voleva prenderne il retaggio.

Fu per questo che i nemici di suo padre divennero tutti nemici suoi. Un simile atteggiamento non era fatto certo per conciliare gli animi e nonostante Churchill nei primi tempi pronunciasse solo due discorsi al mese, i suoi erano discorsi mirati, con obiettivi ben precisi. Non per nulla ognuno di essi gli prendeva almeno un paio di settimane di preparazione, alcune volte anche sei.

Si rivelava per quello che era, un uomo che amava la provocazione politica sia pure fatta in punta di penna; i suoi discorsi d'altra parte erano tutti imparati a memoria. Lo aiutò in questo la sua incredibile capacità mnemonica.

I conservatori erano divisi sulla questione delle tariffe e del protezionismo. Nel dicembre 1905 aveva dato le dimissioni Arthur Balfour, impossibilitato a ottenere la coesione del partito conservatore. Un liberale, Sir Campbell-Bannermann, era stato chiamato dal re. Il gruppo presentato dal nuovo leader comprendeva anche due giovani: Lloyd George e Winston Churchill, segretario parlamentare per le Colonie.

Nelle elezioni la vittoria dei liberali fu schiacciante: furono loro assegnati 377 seggi, gli irlandesi ne ebbero 83 e i laburisti 53. Da parte loro i conservatori raggranellarono 157 deputati divisi in tre tendenze.

Churchill ottenne un'enorme maggioranza, non più a Oldham ma a Manchester. Come sottosegretario alle Colonie, membro dei Comuni, aveva l'incarico di rappresentare alla Camera Bassa il suo ministro, Lord Elgin membro della Camera Alta.

La guerra boera era costata oltre ventunomila morti e ventitremila feriti più 250 milioni di sterline. Non soltanto il Transvaal non aveva pagato le spese ma anzi aveva ricevuto un indennizzo di tre milioni di sterline a titolo di risarcimento per le devastazioni che il paese aveva subito. Per di più il Transvaal avrebbe avuto un governo indipendente.

Come sottosegretario alle Colonie, Winston Churchill poteva così difendere a spada tratta l'indipendenza dei boeri vinti. Per i conservatori era il massimo dei ripensamenti che avrebbe potuto avere Churchill.

In quel periodo passava tutti i suoi week-end nel castello ducale di Blenheim. È l'epoca dei suoi infiammati discorsi puntanti sul sociale, lui che di socialista non aveva proprio niente.

Quando Herbert H. Asquith venne a ricoprire la carica di primo ministro, Churchill fu nominato ministro del commercio. Nel frattempo aveva trovato il modo di sposarsi.

Era il settembre 1908.

Churchill, sempre conservatore nell'animo, scelse una fanciulla di antica famiglia scozzese, Clementine Hozier, figlia del colonnello Sir Henry Hozier e nipote della contessa di Airlie. Clementine aveva ventitré anni, era stata educata alla Sorbona. Era una ragazza dai molteplici interessi che si occupava anche lei di politica. Winston l'aveva chiesta in moglie passeggiando nei giardini di Blenheim.

Il loro matrimonio, nell'esclusiva chiesa di St. Margaret, a Westminster, fu un avvenimento mondano al quale il «Times» dedicò due colonne. Il testimone fu un Lord, Hug Cecil, mentre Balfour e Chamberlain inviarono regali come segno che il matrimonio incontrava il favore dei conservatori.

La Hozier darà a Churchill cinque figli.

Il matrimonio si svolse in una cornice fastosissima, con la polizia a disciplinare la folla che s'assiepava all'ingresso della chiesa.

Il «Times» parlò di un entusiasmo che raramente era possibile vedere ai matrimoni celebrati in St. Margaret.

Molti dei convenuti avevano percorso ampie distanze pur di essere presenti. La chiesa stessa era gremita assai prima che giungessero gli sposi. L'altare, il coro e gli scranni erano vere siepi di bianchi crisantemi e gigli; l'inno di ingresso fu la marcia del Tanhàuser. Il «Times» si soffermò poi a lungo sulle toilettes dei partecipanti, soprattutto delle signore, descrivendo minuziosamente gli abiti di ciascuna, in particolare della madre della sposa che giunse scortata da Lord Redesdale.

Come scrive Alan Moorehead, «i primi anni di matrimonio non furono facili per la signora Churchill».

Sebbene di tanto in tanto Churchill andasse a Blenheim a trovare un cugino, la maggior parte delle altre case erano chiuse per loro.

Winston era apertamente considerato «traditore della sua classe» e si pensava dovesse «cuocere nel suo brodo» tra i maniaci e i radicali della sinistra liberale.

Tuttavia c'era una quantità d'altri amici pronti ad accogliere a braccia aperte i Churchill, ed è sullo sfondo di una famiglia fortunata ed unita più di quanto solitamente accada, che si devono considerare i nove anni seguenti, anni che portarono Winston in un «crescendo» di popolarità al primo dei punti più alti della sua carriera.

Fu proprio con il primo ministro Campbell-Bannermann che gli venne affidato il ministero del commercio e un seggio nel gabinetto.

Lloyd George era ministro del tesoro nello stesso gabinetto.

Scrive sempre il Moorehead:

«L'amicizia fra Churchill e Lloyd George sembra sia nata da un'immediata stima reciproca, ispirata forse da una certa somiglianza che essi ritrovavano nell'educazione che avevano ricevuto, negli ambienti che frequentavano e anche nella loro stessa personalità. Comunque sia da questo momento procedono insieme nella loro rapida carriera politica come se per istinto sapessero di essere destinati al successo...

«Lloyd George, di undici anni più vecchio, è il maestro e Churchill è l'alunno volonteroso».

Non rimane allora che parlare dell'atteggiamento tenuto da Churchill nei confronti delle classi meno abbienti.

Facendo parte del gabinetto liberale, era giocoforza partecipare anche alle tematiche liberali. In tutta sincerità Churchill non era mai stato vicino alla classe lavoratrice anche se certi comizi recavano degli indirizzi alla stessa.

Quando era al IV Ussari, aveva sposato la tesi secondo la quale la religione era utile alle classi più modeste per aiutarle a sopportare condizioni di vita spesso al limite del sopportabile. «Niente può dare loro felicità su questa terra, ma li rende felici pensare che troveranno felicità in una vita futura».

Più avanti aveva sposato le tesi paterne («Amo il lavoratore inglese come l'amava mio padre»).

Viceversa numerosi saranno i suoi scontri con le suffragette, guidate dall'irriducibile Christabel Pankhrst, tanto da arrivare a dichiarare che «... nulla potrebbe indurmi a votare per concedere alle donne il diritto di voto. Non ho nessuna intenzione di farmi togliere i calzoni in una questione così importante».

Quando passerà dal ministero del commercio a quello degli interni nel 1910, sarà pronto a mandare corpi di polizia in occasione degli scioperi nelle miniere del Galles, nei porti e nelle ferrovie. È vero che le «autorità locali avevano sollecitato l'aiuto al ministero degli interni e fu evitato lo spargimento di sangue, tuttavia molti trovarono l'azione un po' precipitosa. La polizia affrontò gli scioperanti dove probabilmente non ce ne sarebbe stato bisogno».

Tuttavia, come ministro del commercio, ebbe modo di attuare dei provvedimenti a favore delle classi lavoratrici: Churchill partecipò all'istituzione delle pensioni per la vecchiaia, dell'assicurazione contro le malattie, alla costituzione di uffici di collocamento e di commissioni interne che stabilissero salari e condizioni di lavoro più equi. Ma dove i suoi discorsi toccavano sul vivo le classi abbienti era nell'approvazione del bilancio preventivo del 1909, bilancio fatto approvare da Lloyd George che unì la sua voce a quella di Churchill nei discorsi piuttosto provocatori indirizzati contro le classi al potere.

Per tutto questo tempo la camera dei Lords aveva fatto da freno, utilizzando il diritto di veto per tutte quelle proposte che non incontravano il favore delle classi più abbienti.

Lloyd George chiamava scherzosamente la Camera dei Lords il «barboncino di Mister Balfour» e si riprometteva di far cambiare presto d'avviso gli oppositori in maniera che non facessero più ostruzionismo ai progetti liberali.

Per far questo occorreva ricorrere alle elezioni generali. Due di queste, che si tennero nel 1910, stabilirono chiaramente che i liberali non potevano essere rovesciati. Come dice il Moorehead:

«Asquith si sentì abbastanza forte per mettere le carte in tavola. Comunicò a Balfour, capo dell'opposizione conservatrice, che era pronto, per il consenso del re, a schiacciare la Camera dei Lord creando 400 nuovi pari di idee liberali; e di fronte a questo, i Lords si arresero. Fu esaminato un progetto di legge che limitava il loro diritto di veto».

Churchill era uno degli obiettivi delle ire furibonde dell'opposizione ma tuttavia non era completamente d'accordo con Lloyd George; sentiva fortemente dei limiti nell'accentuare i toni anticonservatori e, per quanto seguisse le direttive politiche del gabinetto di cui faceva parte, questo seguirlo era pur sempre condizionato da tutta una serie di remore che non venivano mai palesate e che trovavano compiuta espressione nella prassi politica.

Quello che abbiamo testé anticipato parlando della sua opera come ministro dell'interno è sufficientemente rappresentativo.

L'atteggiamento di Churchill era sostanzialmente ambivalente, andando separata la parte che rappresentava nei comizi da quella che interpretava veramente la sua indole.

Churchill in sostanza era e rimaneva un conservatore che era passato ai liberali per calcolo politico ma che un giorno sarebbe dovuto tornare a sedersi fra i banchi conservatori, una volta compiuto il declino del partito liberale.

Aveva poi troppo rispetto per le tradizioni e, anche se qualche suo discorso di quegli anni non dispiacerebbe neppure a un laburista dei giorni nostri, tuttavia basta osservare la sua vita nel tempo per rendersi conto del suo effettivo sentire.

 

 

Capitolo V

SEBASTOPOLI ALL'OMBRA DELLA GUERRA

 

Un mattino del 1911 Churchill stava meditando nella vasca da bagno, quando fu avvertito che era chiamato d'urgenza al telefono. Coperto solo da un asciugamano allacciato attorno alla vita, si precipitò all'apparecchio. Lo avvertivano che degli anarchici si erano barricati in Sidney Street al numero 100; c'era un assedio in piena regola, c'era già stata una vittima e si chiedevano istruzioni.

Dopo aver impartito le necessarie disposizioni, Churchill si vestì e si fece condurre al proprio ufficio. Poi, sospinto dalla curiosità, si recò di persona in quello squallido quartiere dell'East End.

Come scrive l'Allary:

«La folla si era ammassata nelle strade vicine, una folla ansiosa e furente. Essa fece un'accoglienza poco benevola al visitatore dal viso rotondo, un poco infantile, col cappello a cilindro che veniva da un mondo sconosciuto. Gli agenti avevano i fucili. Una pallottola sibilò, poi un'altra, e poi fu una sparatoria generale.

L'uomo col cappello a cilindro cominciò a chiedersi se non avrebbe fatto meglio a starsene nel suo ufficio. Poiché si trovava là, il ministro doveva pure avere qualche idea. Ordinò che gli assalitori si proteggessero dietro alcune lastre d'acciaio che erano in un cortile e che assalissero la casa al riparo di quegli scudi improvvisati.

«Il movimento si svolgeva già, quando un fil di fumo cominciò a uscire dalla casa accerchiata. Un incendio era scoppiato. Come per miracolo i pompieri erano già sul posto. La loro missione consisteva nello spegnere il fuoco e volevano compierla. La polizia tentava di impedire loro l'accesso alla casa: si stava per sparare contro di loro a bruciapelo. Essi non avevano che un dovere: spegnere il fuoco. L'uomo dal cappello a cilindro intervenne nuovamente e nella sua qualità di membro del governo di Sua Maestà, li esonerò temporaneamente dal loro dovere. Si vide dunque lo spettacolo sorprendente di pompieri immobili che guardavano bruciare la costruzione che avrebbero dovuto salvare.

«Da un istante all'altro gli anarchici sarebbero usciti; tutte le pistole, tutti i fucili erano puntati verso le porte. Ma l'incendio cresceva e nessuno si mostrava. Era allora evidente che gli assediati erano morti. Si entrò nel fortino e si trovarono effettivamente due corpi già carbonizzati».

Poco dopo questo episodio Lord Balfour dirà:

«I giornali illustrati hanno pubblicato le fotografie del ministro degli interni nella zona del pericolo. Capisco che ci fosse bisogno di un fotografo, ma non di un ministro».

Indipendentemente dall'importanza degli avvenimenti interni, è nel campo internazionale che la Gran Bretagna si era messa con la più grande decisione su vie nuove. Lord Salisbury era stato l'ultimo campione dell'isolamento britannico e, confidando nella potenza della flotta, riteneva che l'Inghilterra non avesse da temere nessuna seria minaccia.

In realtà all'orizzonte si profilava il pericolo tedesco.

La Germania non nascondeva la sua ambizione di diventare una grande potenza marittima e, quando nel maggio del 1903 re Edoardo VII era stato acclamato dai parigini, tutto il mondo aveva capito che qualche cosa stava cambiando negli equilibri europei.

Sir Campbell - Bannermann, in un discorso all'Albert Hall tenuto nel 1905, aveva detto che all'esterno le prospettive erano confortanti. Gli ascoltatori avevano applaudito. Il suo ottimismo era giustificato dal fatto che il re gli aveva appena affidato la successione al governo conservatore di Balfour.

In realtà l'orizzonte non era così limpido: nel gennaio-aprile 1906 c'era stata la conferenza di Algeciras, nella Spagna meridionale, conferenza internazionale delle grandi potenze che aveva visto partecipare la Germania, la Gran Bretagna, la Francia e dove i tedeschi speravano di battere i francesi minando al tempo stesso le intese tra Francia e Gran Bretagna.

Otto giorni prima della riunione d'apertura, l'ambasciatore francese si era recato dal ministro britannico degli affari esteri e aveva ricevuto da Sir Edward Grey l'assicurazione che il gabinetto liberale sarebbe rimasto fedele alla lettera e allo spirito degli accordi presi dal gabinetto conservatore.

L'«intesa cordiale», come verrà definita, non era per questo divenuta un'alleanza: l'entrata in guerra di uno dei due paesi, nel caso che l'altro fosse stato attaccato, non era prevista come automatica ma le posizioni erano prese.

Winston Churchill non aveva per il momento attribuito nessun interesse particolare a questa evoluzione. Come deputato conservatore, aveva combattuto i progetti di riforma dell'esercito e aveva preso posizione in favore della marina. Una volta ministro si era più preoccupato di risparmiare le finanze dello stato che non di accrescere senza misura il numero delle corazzate.

Le ragioni di questo atteggiamento andavano cercate nell'amicizia che aveva per Lloyd George e nell'influenza che questi aveva su di lui. Ma i fulmini dovevano ancora scoppiare.

Nell'estate del 1911 sulle coste del Marocco, la cannoniera tedesca Panther era entrata in Agadir. Era una palese violazione della firma apposta all'atto di Algeciras che sanciva come Francia e Spagna potessero esercitare il controllo di polizia sul Marocco rispettando contestualmente l'autorità del sultano del Marocco.

Il dipanarsi degli avvenimenti era stato piuttosto banale; nel 1911 il sultano Abdel-Azizi era stato bloccato a Fez da tribù ribelli e aveva chiesto aiuto al governo francese che aveva mandato un corpo di spedizione a occupare la città.

C'era stata immediata la reazione tedesca che aveva minacciato di considerare decaduti gli accordi presi ad Algeciras e di riprendere la propria libertà d'azione.

Il governo francese, forte dei suoi diritti, non aveva ceduto. Da qui l'invio della cannoniera da parte del Kaiser, una mossa che aveva suscitato in Europa enorme scalpore.

Lloyd George aveva allora detto che la Gran Bretagna non avrebbe tollerato l'umiliazione di una pace a tutti i costi.

Il discorso di chi era considerato un pacifista fu recepito in Germania come monito di tutta la nazione inglese. Il governo del Kaiser dovette venire a patti con la Francia. Il 4 novembre 1911 riconobbe il protettorato francese sul Marocco; in cambio otteneva dei compensi in Congo.

Churchill dal canto suo stava scoprendo la vocazione per la politica estera. Herbert Asquith doveva essere l'uomo che avrebbe proiettato Churchill sulla scena internazionale.

Winston Churchill divenne ministro della marina. Naturalmente c'era stata una preparazione: Winston entrò dapprima a far parte delle riunioni collegiali ristrette, cui partecipavano Sir Edward Grey, Lord Haldane e Lloyd George.

Per queste riunioni ristrette aveva preparato una serie di memoriali, compreso uno sul riarmo della Germania, uno sull'eventuale ritardo russo nell'intervento in guerra e infine uno sulla lentezza della Francia a reagire a un attacco tedesco. Memoriale che lo stato maggiore aveva definito ridicolo. Churchill viveva in quel periodo in uno stato di quasi esaltazione. Così in ottobre Asquith l'invitò a passare qualche giorno in Scozia e all'indomani del suo arrivo, mentre i due uomini tornavano da una passeggiata sul Firth of Forth, Churchill ricevette la proposta di diventare primo Lord dell'Ammiragliato.

In sostanza se il problema era la flotta, ci voleva un entusiasta convinto assertore delle ragioni della marina che rimettesse in moto la macchina del riarmo navale. Era pane per i denti di Churchill.

Agadir era ormai dimenticata, ma la situazione rimaneva pur sempre tesa. Il comitato di difesa imperiale aveva lamentato che mentre il ministro della guerra aveva preparato e messo in atto i piani per una collaborazione con l'esercito francese, l'ammiragliato non aveva previsto dei trasporti di truppe sul continente, ma solo una serie di incursioni sulla Germania.

Occorreva trovare qualche cosa di meglio. Lord Haldane, la persona cui si doveva la riorganizzazione dell'esercito, aveva l'incarico di consigliare e guidare il suo collega.

Come ministro della marina, Churchill stupirà comunque tutti lavorando fino a 15 ore al giorno e rivelandosi un vero ciclone.

Si preoccupava dell'organizzazione di uno stato maggiore, acquistò una partecipazione in una società petrolifera, sempre per conto della marina, annodò contatti con lo stato maggiore francese lasciando che quest'ultimo si occupasse della difesa del Mediterraneo in maniera da avere sempre la disponibilità della flotta.

Quando non era in ufficio, Churchill era a bordo dello yacht dell'ammiragliato a compiere ispezioni. Ma fu soprattutto sul piano internazionale che Churchill giocò le sue carte. Il ministro della guerra, Lord Haldane, aveva incominciato la riorganizzazione dell'esercito britannico prevedendo anche un corpo di pronto impiego da avviarsi sul continente al minimo segno di pericolo.

Una missione di Lord Haldane in Germania, con il compito di far recedere i tedeschi dal riarmo navale in cambio di qualche promessa territoriale, si concluse con uno scacco; lo stesso Lord Haldane fu troppo filotedesco per impuntarsi a fondo sul problema.

Era facile prevedere che la nomina di un ministro come Churchill alla marina non sarebbe stata accolta senza qualche malumore.

Tempo addietro Churchill era divenuto amico di Lord Fisher, primo membro dell'ammiragliato a riposo, un uomo dal carattere impossibile che però era un vero specialista del ramo. Sua era l'idea di sostituire il carbone con il petrolio, la propulsione a vapore con quella a nafta. Sua era stata anche l'idea dell'accordo che Churchill stipulò con la Oil Company anglo-iraniana per cui, come disse il Moorehead, «il governo ottenne, contro due milioni di sterline, una partecipazione dominante e la precedenza sul petrolio in caso di guerra. Fisher voleva navi più veloci e più solide. Churchill, che non era un apostolo della riduzione delle spese, costrinse il gabinetto a cedere il denaro.

«Fisher voleva Jellicol al comando della grande flotta e Churchill ve lo mise mantenendo come suo segretario David Beatty, il più giovane ammiraglio della marina».

Nel mezzo dei suoi incarichi, il ministro trovò il tempo di sostenere alcune cose che lo interessavano personalmente.

Avendo preso la passione per il volo, istituì il Royal Navy Flying Corps, e un anno più tardi diede istruzioni per la costruzione di un veicolo blindato in grado di superare le trincee.

Quando, tempo dopo, una mattina, alla parata delle guardie a cavalli, ci fu l'esibizione di uno strano congegno a cingoli, Churchill, preso d'entusiasmo, ordinò subito diciotto di queste «navi terrestri» pagando 70.000 sterline in più di quelle che rappresentavano il fondo per la marina.

Il principio era quello del carro armato, che passava come la «follia di Winston». Poi, colto quasi da un presentimento, al principio del 1914, in luogo delle manovre navali, ordinò la mobilitazione sperimentale della flotta...

Tutte cose che non potevano dispiacere a Lord Fisher.

Churchill era andato personalmente a cercarlo nel suo ritiro. Dei due uomini il primo aveva quasi il doppio dell'età dell'altro ma il cuore era uguale.

Le dimissioni si succedevano tra i malcontenti. Venivano quasi tutte accettate.

Sir John Jellicol venne scelto come comandante in seconda della Home Fleet, mentre Churchill si sceglieva come segretario particolare un ufficiale che aveva incontrato a Omdurman dove comandava un'unità sul Nilo. Il suo nome? David Beatty.

Tutto andò per il meglio tra la cosiddetta «eminenza grigia» e il primo Lord dell'Ammiragliato, fino al giorno in cui Churchill non si mise in testa di fare alcune nomine che il barone Fisher di Kilverstone non approvava assolutamente. Anzi Fisher accusò Churchill di avere tradito la marina, dopodiché partì per Napoli.

Tuttavia nemmeno lì la sua pace doveva essere garantita, perché venne bombardato da una serie di lettere scrittegli da Churchill finché non venne contattato addirittura di persona, quando lo stesso Churchill, accompagnato dal primo ministro, si imbarcò sullo yacht del primo Lord dell'Ammiragliato e andò a trovare il vecchio e irascibile Fisher. Fisher cominciò con il non volerlo ascoltare, poi, una domenica mattina, udì nel corso del sermone il predicatore che diceva la testuale frase:

«Colui che ha la capacità di servire il proprio paese non ha diritto di abbandonarsi al riposo...».

A buon intenditor poche parole e Churchill poté così rivedere a Londra l'intrattabile Fisher. Anzi si suppone che la mano di Churchill non sia stata estranea al sermone stesso...

Così poté riprendere la collaborazione tra i due, collaborazione quanto mai fruttuosa e utile alla marina in particolar modo, oltreché a Churchill stesso. Il potenziamento della flotta britannica, uno dei pallini di Churchill, non doveva essere senza conseguenze per la Germania che continuava il riarmo della sua flotta affilando le armi in vista del conflitto.

Dalle rive della Clyde il ministro, rivolgendosi alla Germania, giurava e spergiurava che la Gran Bretagna non avrebbe mai rinunciato al dominio sui mari.

«Per noi», soleva dire, «la flotta non è che un bisogno, per i tedeschi essa è sotto certi aspetti un lusso».

Era così cominciata la corsa agli armamenti.

Berlino non rispose nemmeno all'offerta di tregua proposta da Londra. Nessuna moratoria ebbe luogo. E all'Ammiragliato si rimisero al lavoro.

Certo, data la piega assunta dagli avvenimenti internazionali, il tempo era veramente scarso. Si profilava all'orizzonte l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo il 25 giugno 1914, la scintilla che avrebbe fatto divampare la catastrofica prima guerra mondiale con i suoi milioni di morti, le sequele di lutti, gli inverni in trincea, i problemi infiniti che si trascinerà e che daranno luogo al secondo conflitto mondiale, eventi tutti ai quali Churchill parteciperà da protagonista. Basta prendere in mano una sua lettera, quella scritta alla moglie il 31 di luglio 1914: «All'orizzonte si addensano nuvole sempre più nere(...) Cerchiamo di rabbonire la Russia, ma la verità è che ciascuno si sta rapidamente preparando per la guerra che può scoppiare da un momento all'altro. Noi siamo già pronti. Non posso raccontarti tutte le cose che si sono dette o tutte le responsabilità che mi sono assunto in questi ultimi giorni; ma tutto sta andando per il meglio(...) Quanto alla City essa sta piombando nel caos. Tutto il sistema di credito mondiale è praticamente sospeso. I valori di borsa e i titoli non possono essere negoziati e ben presto diverrà perfino difficile incassare un assegno; i prezzi delle merci stanno salendo alle stelle. I debiti della povera gente sono sull'orlo della bancarotta...».

Churchill era una di quelle personalità che risultano sempre meglio informate delle altre. Ciò era dovuto non solo al suo fiuto ma anche e soprattutto alle sue amicizie e relazioni. Il frequentare gli ambienti più esclusivi e in particolare l'essere a conoscenza delle decisioni prese dai comandanti delle diverse forze, faceva sì che egli possedesse sempre il termometro della situazione. Non c'era, si può dire, un piccolo particolare che gli sfuggisse. Basti come solo esempio il tipo di rapporti che instaurò con il War Office. I rapporti con la marina erano poi suo privilegio. Non per nulla il 17 e il 18 di luglio aveva ordinato una rivista navale a Spithead.

Per quanto riguarda il War Office i rapporti erano ancora di più vecchia data.

Quando Churchill era stato al War Office si era trovato tra amici. Il capo del personale, Sir William Nicholson, era un suo vecchio conoscente. Jan Hamilton era una vera miniera di informazioni e aveva redatto, su richiesta di Haldane, un lungo memorandum sul servizio militare obbligatorio. Ma l'uomo, che per Churchill avrebbe finito per rappresentare una vera e propria chiave d'ingresso nello scrigno dei segreti militari, era il generale Henry Wilson, direttore delle operazioni militari. Wilson era più vecchio di dieci anni rispetto a Churchill il quale ammirava soprattutto in lui la saldezza delle sue convinzioni; in altre parole Wilson credeva in quello che diceva. Erano i giorni in cui i militari francesi nutrivano ambiziosi programmi in vista di un eventuale conflitto che avrebbe interessato l'Alsazia e la Lorena.

I rapporti tra le due potenze, la Francia e l'Inghilterra, subivano delle oscillazioni. Per esempio, nel 1906, proprio durante una campagna elettorale britannica, Paul Cambon, l'ambasciatore francese, aveva chiesto a un'alta personalità britannica (Grey) quale sarebbe stata la posizione inglese di fronte a un conflitto tra la Francia e la Germania. Quando Grey aveva replicato che non poteva garantire una posizione diversa da una benevola neutralità, Cambon aveva allora ripetuto la domanda in termini diversi e aveva chiesto se non fosse possibile autorizzare delle conversazioni non ufficiali tra i diversi comandi militari nell'ipotesi futura di un'eventuale alleanza.

Grey si era dimostrato molto imbarazzato sulla risposta da dare; il nuovo governo si stava in quei giorni pronunciando per una parola di pace e, con un programma pacifista in atto, la firma di una convenzione militare tra la Gran Bretagna e la Francia avrebbe significato un inizio ben singolare. C'era il pericolo del boicottaggio del piano o della sua messa in minoranza da parte dei parlamentari.

Grey, comunque, si era messo in contatto con Haldane e insieme erano giunti alla conclusione che le conversazioni avrebbero avuto un carattere estremamente tecnico senza impegnare in alcun modo i diversi governi. Il 31 gennaio del 1906 Cambon aveva ricevuto una risposta in questo senso da Grey. Così, proprio all'indomani dell'insediamento di un governo liberale, si veniva a creare un rapporto continuativo tra i due stati, naturalmente senza che vi fosse un qualche trattato o anche più semplicemente una convenzione militare; ciò non toglie che tra Downing Street e il Quai d'Orsai venissero stabiliti dei rapporti non solo all'insaputa del pubblico, ma anche tenendo all'oscuro gli stessi membri del governo.

Le relative operazioni militari, quelle tra la Francia e la Germania, presentavano già delle anomalie prima ancora che scoppiassero gli inizi delle ostilità. Uno dei due eserciti era in grado di mobilitare 2,2 milioni di soldati, l'altro una cifra di poco inferiore (1,7 milioni). Le differenze numeriche contavano poco tranne nel caso che uno dei contendenti non avesse voluto iniziare per primo le ostilità. La migliore organizzazione dell'esercito tedesco faceva prevedere, da parte francese, una tattica difensiva più che non offensiva. In quest'ottica Churchill aveva presentato un memorandum nel quale, oltre alle altre cose, venivano esaminate le diverse possibilità dei due paesi. Da queste pagine emerge chiaramente che, nell'ipotesi di un attacco dal Belgio, l'inferiorità francese avrebbe obbligato le truppe di Francia ad attestarsi su una linea difensiva tra i forti sull'Asse tra Verdun e Belfort. E quand'anche i tedeschi si fossero messi a loro volta in posizione difensiva, l'esercito francese non sarebbe stato in grado di controbattere efficacemente e di rovesciare a suo favore la situazione. Per il primo periodo delle ostilità sarebbero state necessarie sei divisioni britanniche, divisioni sulle quali si contava molto per risollevare soprattutto il morale delle truppe francesi. La loro importanza andava quindi molto al di là d'ogni considerazione numerica.

Sull'altro piatto della bilancia c'erano le diverse divisioni tedesche; quand'anche fossero riuscite ad avanzare attraverso il Belgio e a raggiungere addirittura Parigi, sarebbero state vulnerabili sia in funzione dell'apporto logistico sia in funzione delle perdite subite nel corso dell'offensiva. C'erano poi i problemi di controllo e di mantenimento di una così vasta area. Da parte inglese si sarebbe dovuto agire soprattutto nel primo periodo, calcolato grosso modo sui quaranta giorni. Il memorandum di Churchill comunque concludeva caldeggiando un aumento delle forze militari britanniche: «Durante il procedere delle operazioni ci sarebbero voluti almeno dodici mesi per consolidare o stabilire gli interessi britannici al di fuori dell'Europa, anche se attraverso il disgregamento degli alleati o il loro collasso si fosse dovuta continuare la guerra da soli; nessun altro provvedimento sarebbe stato adeguato al procedere degli avvenimenti».

Il 31 luglio 1914 Churchill così scriveva al re in un rapporto definito segreto:

«Sua Maestà è già stata informata sotto il profilo diplomatico, così io mi limiterò al quadro militare. La prima flotta è adesso in acque internazionali. La seconda flotta si riunirà domani a Portland. Tutte le misure precauzionali sono già state adottate. I giornali si stanno comportando da tempo in maniera ammirevole. Le quattro anziane navi da battaglia raggiungeranno domani l'Humber. Tutte le flottiglie hanno raggiunto le loro posizioni (...) Mi sono preso la responsabilità d'impedire la partenza della nave turca Osman (già Rio) con l'approvazione del primo ministro. Se verrà la guerra, verrà chiamata — sempre che sua Maestà l'approvi — Agincourt. In caso che scoppi la guerra, io segnalerò a sua Maestà il nome di Sir John Jellicol per il comando supremo. Sono giunto con dispiacere alla conclusione che Sir George Callaghan non è adatto allo sforzo che comporta il comando in capo. Abbiamo bisogno di un uomo più giovane».

Che la flotta, oggetto adesso di tante cure, fosse stata negletta negli anni precedenti lo si desume da un programma del 1909 che stabiliva che si dovessero costruire solo quattro nuove navi. Allora Churchill aveva detto che aveva condotto un'analisi minuziosa sul carattere e la composizione del naviglio britannico e tedesco e sulle prospettive che si profilavano di fronte a loro.

«Non potevo essere d'accordo con l'Ammiragliato sul fatto che una crisi sarebbe intervenuta nel 1912; trovai anzi che le cifre fornite in proposito fossero esagerate; non credevo al fatto che i tedeschi costruissero di nascosto navi da battaglia in numero superiore a quello stabilito dalle disposizioni riguardanti la flotta».

Anche se nel 1909 era stato stabilito che venissero messe in cantiere quattro unità e altre dovessero essere impostate per il 1910, si trattava pur sempre di poca cosa di fronte alla necessità di un'eventuale guerra sul mare. E a questo proposito c'erano state delle discussioni tra l'Ammiragliato e il governo, tanto che quest'ultimo sarà indotto a preventivare un totale di otto navi nel biennio 1909-1910. Per smuovere la situazione di stallo, si sarebbe mosso Churchill il quale ebbe a scrivere un giorno: «Avevo alcune idee su quello che avrei dovuto fare e quindi ero stato mandato all'Ammiragliato per metterle in pratica. Intendevo prepararmi per un attacco dalla Germania come se esso dovesse capitare da un istante all'altro».

In ciò non v'era nessuna esagerazione. Al muro del suo ufficio c'era una grande carta marittima sulla quale venivano indicate giorno dopo giorno le posizioni delle diverse unità tedesche.

E dirà ancora Churchill stesso: «Mi ero dato la regola di guardare quella carta non appena entravo in quella sala».

Quando alla vigilia del secondo conflitto mondiale tornerà in quella sede dell'Ammiragliato, troverà tutto come prima. «A pochi passi da me, quando mi sedetti sulla mia vecchia sedia, c'era il pannello sul quale avevo fissato nel 1911 la mappa riguardante il Mar del Nord. La perfetta disciplina, il contegno, il cerimoniale, nulla era cambiato. Ma una generazione completamente differente indossava le uniformi e occupava i ranghi. La maggior parte delle navi era ancora al posto che aveva al momento del mio incarico. Nessuna di loro era nuova. Era una strana esperienza come se ci si trovasse davanti a una reincarnazione. Mi sembrava di essere il solo sopravvissuto nella posizione che prima occupavo». E citando Tommaso Moro aveva soggiunto:

«Mi pareva di essere come uno di quelli che camminino da soli attraverso una sala da banchetti abbandonata, le cui luci si fossero spente, i suoi serti fioriti appassiti e dove tutti tranne lui fossero defunti».

Questo per non parlare del 1901 quando (allora s'era appena candidato per Oldham) aveva detto alla Camera dei Comuni con tono di sfida: «L'Ammiragliato è il solo ufficio abbastanza forte da proteggere l'impero britannico. La sola arma con la quale noi ci aspettiamo di cooperare con le grandi nazioni è la marina. Confesso che ho fiducia solo nella marina».

Così domenica 2 agosto 1914, con un'iniziativa personale, farà andare le navi al posto di combattimento nel Mar del Nord. E, come esempio probante dell'efficienza organizzativa, un intero corpo di spedizione britannico sarà trasportato in Francia senza la perdita di un solo uomo. Era lo stesso Churchill che il 2 agosto aveva scritto anche a Lord Cecil:

«Caro Cecil, sono spiacente di dirvi che da quando vi ho scritto abbiamo appreso ufficialmente che la Germania ha dichiarato guerra alla Russia. Non posso pensare che la rottura con la Francia tardi molto a venire. E il corso degli eventi sarà piuttosto serio...».

Ogni cosa sarebbe successa il giorno successivo...

Erano lontani i tempi — eppure si trattava solo della primavera del 1914 — allorché nel corso di una partita di polo svoltasi a Madrid re Alfonso XIII aveva chiesto bruscamente a Churchill:

«Signore, credete voi nello scoppio di una guerra europea?».

«Sire» aveva risposto Churchill, «qualche volta ci credo anche se altre volte no».

La risposta aveva però messo l'accento più sul sì che sul no. Segno indubbio che Churchill considerava la guerra come imminente, dato che già allora le turbolenze della politica europea avevano gettato nell'allarme più vivo tutti coloro che seguivano certi avvenimenti da vicino.

Al tempo della crisi del 1914 Churchill si muoveva come un pesce nell'acqua. Quando, nel settembre dello stesso anno, venne rimesso Fisher al posto di primo membro dell'Ammiragliato, la flotta si trovò sotto la direzione più animosa che avesse conosciuto dai tempi di Nelson. Per chiunque seguire l'andazzo frenetico della politica di Churchill diveniva un problema improbo.

Su Churchill pareva sempre valido il giudizio formulato da Gardiner quando Winston non aveva ancora compiuto trentaquattro anni.

«Egli di fronte al paese è la più interessante figura in politica, la sua vita una serie di azioni drammatiche, il suo coraggio alto, le sue visioni senza nebulosità, i ponti tagliati alle spalle. Più di qualunque altro personaggio del tempo suo egli si avvicina all'esito positivo senza nutrire riserve mentali e motivi oscuri. Non è paralizzato dal timore delle conseguenze e neppure teme di vedere dei grandi cambiamenti. Egli sostiene che calcolare in termini di milioni è semplice come calcolare in soldini...».

Poche settimane dopo l'inizio delle ostilità, Churchill si trovò a Dunkerque per partecipare personalmente a un'azione che avrebbe interessato il fianco sinistro dell'esercito che sta avanzando...

Quanto a ciò che succedeva nella madrepatria è presto detto. Il ricorso al riarmo stava impensierendo i più responsabili tra i cittadini, e il bilancio di cinquanta milioni di sterline oro fu tale da impensierire molti. Le critiche vennero mosse a Churchill soprattutto dall'entourage liberale che stavolta, a buon diritto, sconfessò l'operato del proprio membro del partito. Lloyd George, spazientito, protestò: Winston non era un vero liberale e non comprendeva le reazioni liberali.

Fu l'inizio della frattura tra i due uomini che si stavano allontanando sempre di più l'uno dall'altro. Ci fu invece un problema che vide Churchill impegnato assieme ai liberali e fu sulla questione irlandese. Churchill appoggiò le richieste di autonomia dell'Irlanda e volle affrontare anche la questione dell'Ulster la cui maggioranza economica, protestante quanto a religione, accumulava armi per difendere, se necessario con la forza, la propria unione con la madrepatria avversata in questo dalla parte cattolica più povera e più autonomista.

Era la chiara dimostrazione che certe questioni hanno radici antiche e che le politiche che i diversi stati svolgono, sono spesso, il frutto di problemi da tempo non risolti o che si è rifiutato di risolvere.

Come si può capire nihil sub sole novi...

Churchill urlò allora che i problemi irlandesi fossero trattati non alla stregua di quelli di una repubblica messicana.

Per difendere l'autonomia richiesta dai cattolici, era disposto a inviare truppe sul suolo irlandese mentre il riarmo protestante si intensificava. Era il preludio a una guerra civile che faceva pensare a coloro che guidavano le sorti politiche sul continente e più particolarmente agli imperi centrali che l'Inghilterra avesse troppi problemi interni per rappresentare un pericolo per l'egemonia in Europa.

Sul problema incombeva l'ombra della già citata Sarajevo che al momento apparve come un piccolo incidente di percorso, tanto l'attenzione era concentrata sul problema irlandese.

Lo studente Gavrilo Princip, assassino dell'arciduca Francesco Ferdinando e della duchessa di Hohenberg, aveva innescato invece la miccia che avrebbe condotto alla prima guerra mondiale, ma il pubblico per il momento non lo sapeva.

A far da doccia fredda sugli ultimi assertori della pace intervenne l'ultimatum austriaco alla Serbia, un ultimatum gravosissimo e inaccettabile, dato che l'Austria chiedeva al governo di Belgrado di eliminare dall'esercito e dall'amministrazione tutti i cittadini indicati dal governo austriaco e precisando che in mancanza dell'accettazione l'Austria avrebbe mosso guerra alla Serbia entro quarantott'ore.

Era il 28 luglio 1914 quando l'Austria, nonostante la Serbia avesse accettato molte delle condizioni poste dall'ultimatum, dichiarò guerra.

Il 1 ° agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia. Era l'inizio della fine per la pace mondiale. Gli avvenimenti sono noti: si profilava una probabile aggressione del Belgio da parte della Germania con aggiramento della linea Maginot e coinvolgimento della Francia nella guerra. Francia accanto alla quale si schierò la Gran Bretagna. Era la mezzanotte del 4 agosto. L'unico a non essersi fatto sorprendere dagli avvenimenti fu Churchill il quale poté dare ordini alle navi di iniziare le ostilità contro gli imperi centrali. E sarà Lord Kitchener a dire del suo allievo di ieri:

«Bisogna dar merito a Churchill se la flotta è pronta».

Tuttavia Churchill commise un errore, o meglio le «sue» navi lo commisero: si lasciò sfuggire due incrociatori, la nave da battaglia Goeben e l'incrociatore leggero Breslau che al momento delle ostilità si trovavano in Adriatico. Le due navi riuscirono a passare lo stretto dei Dardanelli e vennero acquistate fittiziamente dalla Turchia che si schierò così a fianco degli imperi centrali.

Per la mancata cattura delle due modernissime navi, la stessa guerra venne modificata. Senza le due navi non ci sarebbe stato l'allineamento della Turchia sulla posizione degli imperi centrali. Al limite, le comunicazioni con la Russia non sarebbero state tagliate dall'ingresso della Turchia stessa nella guerra e probabilmente non vi sarebbe stata nemmeno la rivoluzione bolscevica: quando si dice che il particolare più insignificante ha avuto peso nella vicenda bellica...

Infatti la mancata intercettazione delle due unità fu un punto di forza per i detrattori dell'operato di Churchill. Quanto alla flotta francese, essa era troppo occupata a supportare i trasporti di truppe tra Francia ed Algeria per poter intervenire.

Comunque il 1° novembre la Turchia si schierò a fianco della Germania e dell'Austria-Ungheria: ciò avrebbe significato almeno quattro anni di guerra.

Non basta: c'era la minacciata occupazione di Anversa da parte delle truppe tedesche le quali avevano cominciato l'intenso cannoneggiamento delle fortificazioni che le facevano da cintura.

Churchill decise di intervenire personalmente dato che l'intero governo belga era riunito in permanenza nella città. E vi giunse con l'uniforme di fratello della Trinità. I Fratelli della Casa della Trinità erano membri di un'istituzione inizialmente religiosa, divenuta in pratica il servizio dei fari e dei segnali marittimi, per cui la tenuta in cui Churchill si era calato era pari a quella di un ammiraglio.

Ad Anversa annunciò che novemila fucilieri di marina sarebbero arrivati in giornata e che sarebbero seguite due divisioni britanniche purché si sospendesse l'evacuazione. Egli stesso giunse a capo di un'unità di riservisti della marina. Poi partì per la prima linea ispezionando ogni cosa e cercando di infondere ottimismo alle truppe.

I ministri belgi si lasciarono convincere: l'evacuazione fu sospesa per tre giorni in attesa di rinforzi. A nulla però servirono le ragioni dell'eloquenza vibrante di Churchill di fronte ai cannoni tedeschi, e Anversa fu evacuata ugualmente.

Per Churchill fu questo un grosso smacco. Tanto più che era arrivato al punto di chiedere al primo ministro di essere nominato generale e di dirigere le forze alleate in Anversa. Domanda alla quale ovviamente si rispose picche. In fondo per l'esercito egli era ancora un sottotenente. Il 1° ottobre l'ultimo forte a difesa di Anversa cedette sotto i colpi delle artiglierie tedesche.

Era vero che erano stati guadagnati cinque giorni preziosissimi che avevano permesso di congelare forze tedesche sul passo di Calais e tener così sgombra la costa francese dalla penetrazione nemica, ma al pubblico cinque giorni sembrarono poca cosa di fronte alle promesse e allo sfogo di energia mostrato da Churchill.

In Gran Bretagna era intanto partita la campagna per gli arruolamenti volontari e in quello stesso ottobre vennero arruolati trecentomila giovani.

Per Churchill le preoccupazioni erano tutt'altro che finite: venne silurata la corazzata Audacious poco distante dalla costa scozzese, mentre al largo delle coste cilene furono affondati il Good Hope e il Monmouth, mentre Churchill richiamò nella carica di primo Lord del mare l'ammiraglio Fisher.

Si trattava di un'amicizia destinata a incrinarsi di lì a poco a causa di contrasti insanabili sulla condotta della guerra.

I fatti sembravano dar ragione al primo Lord del mare. È la pagina meglio nota come il mancato forzamento dei Dardanelli, dato che è qui che Churchill avrebbe voluto combattere la sua battaglia mentre Fisher avrebbe voluto che si guerreggiasse nel Baltico andando a stanare nei loro rifugi le unità della flotta tedesca.

Churchill comunque ottenne la partecipazione della flotta francese con la consistenza di una divisione agli ordini del contrammiraglio Guépratte.

Il 19 febbraio 1915 il gabinetto di guerra accettò che venissero inviate truppe ai Dardanelli. C'è anche una fotografia che ritrae Churchill a Blandford, nel Dorset, dove il re Giorgio V ispezionò la divisione navale prima che salpasse per i Dardanelli.

Il suo intento era quello di persuadere la Turchia alla resa e convincere gli stati balcanici (la Bulgaria, la Grecia e la Romania) a diventare alleati degli inglesi. Anche suo fratello salpò il 13 marzo del 1915 facendo parte del comando in capo di Sir Jan Hamilton.

Sempre il 19 febbraio 1915 le navi iniziarono il bombardamento contro i quattro fortini che formavano la cintura esterna della difesa dello stretto. Il 2 marzo i fortini non erano che un cumulo di rovine. Ma il più restava ancora da compiere.

Si trattava infatti di penetrare nell'interno e superare i tratti di mare minati dal nemico. Occorreva quindi anche il concorso delle truppe di terra, ma l'attesa fu lunga.

Gran bevitore di brandy (Churchill lo metteva in primo piano facendogli seguire il gin e infine, al terzo posto, il whisky), il nostro personaggio affrontò la crisi con la consueta filosofia, non dimenticando il rituale sonnellino pomeridiano.

Solo nel caso del diverbio con Fisher ricorse — come lui stesso disse — a parole forti.

Sarebbe assurdo non vedere l'importanza di questo diverbio nel caso di un episodio come quello di Gallipoli. Churchill non era mai stato un entusiasta dell'intervento di truppe terrestri su Gallipoli, cosa che invece trovava favorevole Kitchener; fu lui a smistare le truppe australiane e neozelandesi arrivate in Egitto verso il luogo dell'azione insieme alla 29a divisione britannica. E per comandarle scelse il generale Jan Hamilton.

Hamilton era uno studioso, come dice il Moorehead, uno della lunga successione di poeti-generali inglesi, un uomo pieno di esperienza ma al quale mancava il necessario dinamismo.

Hamilton ricevette l'ordine di effettuare uno sbarco in grande stile sulla piazzaforte nemica. Per farlo attraversò in treno tutta la Francia, quindi si imbarcò e raggiunse la zona delle operazioni.

Il 18 marzo 14 navi britanniche e 4 francesi mossero all'attacco: obiettivo il forzamento di Scianak.

Dopo il 18 marzo i turchi cominciarono a fortificare la penisola facendo arrivare dalle officine Skoda dei cannoni.

Appostarono 60.000 uomini nelle trincee protette dai reticolati e munite di mitragliatrici con mirino, affidando il tutto al comando di Liman von Sanders, un generale tedesco che, come riferisce sempre il Moorehead, era provvisto di coraggio ed energia eccezionali.

Subito Liman von Sanders si mise al lavoro irrobustendo e integrando le difese. Le notizie che giungevano da Costantinopoli avrebbero fatto impensierire chiunque, ma ormai la decisione di andare avanti era stata presa e la destinazione del nuovo esercito britannico era anch'essa un segreto di Pulcinella.

Scrive il Moorehead:

«L'opinione di Churchill attraverso tutti questi avvenimenti straordinari era più chiara di quella di tutti gli altri. Egli non era mai stato un entusiasta di un'operazione sulla terraferma. Era sempre convinto che la marina avrebbe potuto svolgere tutto il lavoro da sola, almeno da principio. Ma ora, con questo nuovo entusiasmo di Kitchener, tutto gli sfuggiva dalle mani».

 

Un intervallo di quindici giorni, quanti ne erano passati dalla decisione di impiegare la flotta alla messa in operazioni del forzamento dello stretto di Scianak, fu troppo grande, per cui i turchi ebbero tutto il tempo per riorganizzarsi e le perdite navali furono ingenti: due navi da battaglia affondate più una corazzata francese. Il combattimento venne quindi interrotto in attesa che le forze terrestri fossero dispiegate.

Queste sbarcarono sulla penisola di Gallipoli il 15 aprile e si scontrarono con l'accanita resistenza turca per cui la predisposta invasione si trasformò in una guerra di trincea.

Era la disfatta, l'interruzione del sogno di forzamento dello stretto.

Questo fatto costò a Churchill l'ostilità garantita di tutti i conservatori che non nascosero il loro atteggiamento critico nei confronti di quel politico quarantenne che pretendeva di saperne di più degli ammiragli.

Per il comandante in capo francese e per tutti i generali dell'esercito inglese, l'unico modo di vincere la guerra era quello di logorare i tedeschi in Francia.

Per i francesi, Gallipoli non era che un'inutile e pericolosa diversione. Scrive ancora il Moorehead:

«Alla fine, un po' per volta, furono mandati in battaglia mezzo milione di uomini i quali furono sempre destinati a vedere che la vittoria sfuggiva quando stavano per afferrarla. Detto questo, si può dire che il resto di questa storia è straordinario...».

Vediamo nei particolari che cosa realmente accadde.

La notte del 24 aprile 1915, con il monte Athos e le isole greche sullo sfondo, le navi sbarcarono il contingente in tre punti della costa. Gli uomini si buttarono a capofitto nel fuoco delle mitragliatrici e le loro perdite furono molto superiori a quelle che si sarebbero avute in Normandia trent'anni più tardi.

La magra consolazione del generale Hamilton era quella che non era stato ancora ributtato in mare, anche se si era trovato a un soffio dalla vittoria. Eppure i contingenti alleati erano stati a un pelo dal crearsi un varco e raggiungere le alture. Ma alla metà di maggio risultava evidente che ogni possibilità di riuscita nell'intento era definitivamente sfumata.

Quando in Gran Bretagna giungeranno queste notizie, Fisher darà ordine perché la Queen Elizabeth abbandoni risolutamente la zona delle operazioni.

In conseguenza di questo fatto si ebbe una violenta discussione con Kitchener, dopo di che Fisher si dimise dall'incarico.

Le dimissioni misero a rumore l'intero Parlamento britannico. Soprattutto furenti erano i conservatori i quali erano disposti a partecipare a un rimpasto governativo a condizione però che Churchill sgomberasse il campo e questo anche se appariva evidente che non aveva alcuna responsabilità per quanto stava accadendo a Gallipoli.

La sola responsabilità era se mai quella di Kitchener unitamente ai membri del gabinetto di guerra.

Churchill si rivolse allora al capo dell'opposizione conservatrice, Andrew Bonar Law, per riceverne il consiglio che la cosa migliore da farsi era quella di abbandonare la carica e di assumere il ministero delle Colonie. Si vedrà costretto ad accettare invece la sinecura del ducato di Lancaster, mantenendo un seggio al comitato dei Dardanelli.

Secondo la descrizione del corrispondente di guerra Ashmead Bartlett, le condizioni di Churchill in quei momenti erano semplicemente pietose; c'era stato un pranzo in casa di sua madre e, dopo una violenta discussione, i due stavano tornando a casa.

Era mezzanotte e le strade erano quasi deserte.

«Arrivammo al palazzo del ministero», riporta il Moorehead citando l'Ashmead-Bartlett, «dove egli rimase su richiesta di Mr. Balfour fino a quando non fu pronta la sua casa di città, ed egli mi fece entrare da una stretta porta secondaria. Le stanze dove aveva trascorso tanti giorni, erano adesso vuote. C'era un solo guardiano di servizio che Churchill insultò aspramente perché non aveva aperto subito. Vagava per quelle stanze dove adesso era solo tollerato, con il capo reclino, il viso accaldato, le mani dietro la schiena. Raccoglieva un libro qua, una lettera là, dava loro un'occhiata e poi li buttava da parte incapace di concentrarsi su qualcosa di diverso dai Dardanelli. Le stanze decorate e gli incartamenti ufficiali sembravano deriderlo: la sala che poco prima era piena di adulatori, di ammiratori, di gente alla ricerca di una carica, adesso, vuota, riecheggiava solo del suono della sua voce. Egli era la perfetta rappresentazione del ministro caduto. E ancora una volta egli gridò nella notte silenziosa: "Non hanno combattuto fino in fondo. Non hanno mai provato a seguire onestamente i miei piani"».

Churchill era nell'ambigua situazione di colui che veniva incolpato di una sconfitta senza esserne il diretto responsabile.

Il 31 ottobre il sostituto del generale Hamilton, generale Munro, mandò un telegramma per chiedere che la penisola di Gallipoli venisse evacuata e la campagna completamente abbandonata. Fu calcolato che le perdite erano di quarantamila uomini.

Nonostante la sorveglianza dei turchi, il ritiro fu portato a termine in modo perfetto. I soldati vennero evacuati senza incidenti e i turchi trovarono sulla spiaggia solo cataste di munizioni che bruciavano.

L'avventura di Gallipoli era virtualmente conclusa.

 

Churchill, per consolarsi, si dedicò alla pittura impugnando prima la tavolozza degli acquerelli poi quella dei colori ad olio. E si buttò con la foga consueta, anche se si trattava di una realtà completamente nuova per lui. E da quel momento non abbandonò più i pennelli, sfogo principale di tutte le crisi che dovette affrontare.

Churchill, come scrive il Ragionieri, «aveva assolto con grande impegno il compito che gli era stato affidato di mettere la flotta in stato d'immediata allerta». Però anche lui commise degli errori.

«La prima guerra mondiale», è sempre il parere del Ragionieri, «non presentò nessuna delle caratteristiche auspicate da Churchill. La flotta inglese, quella flotta cui aveva dedicato tante cure, non fu in grado di distruggere totalmente quella tedesca».

Il conflitto finì per essere un conflitto esclusivamente terrestre. Così per Churchill riuscirono di un qualche interesse due operazioni il cui esito finale fu però disastroso: la prima fu l'evacuazione di Anversa, la seconda, il già ricordato episodio dei Dardanelli.

Inutile sottolineare che Churchill fu protagonista di entrambe ed inutile anche evidenziarne il dato fallimentare.

«Se la costruzione strategica», scrive sempre il Ragionieri, «era limpida, altrettanto confusa e contraddittoria ne fu l'esecuzione».

E questi mancamenti nell'esecuzione non rappresentavano le sole critiche che Churchill si vedeva costretto ad affrontare.

La «sua» Inghilterra usciva, sì, vittoriosa dal primo conflitto mondiale, ma aveva anche «suscitato problemi immensi».

Incominciamo con il dire che la rivoluzione in Russia faceva da catalizzatore per quei partiti o correnti di pensiero che in quasi tutti i paesi guardavano con interesse al profondo rivolgimento che si andava attuando all'Est. Secondariamente il malcontento delle classi lavoratrici aveva un pericoloso esempio cui ispirarsi. Churchill era perfettamente conscio di tutto ciò. Non per nulla cercò di procrastinare al massimo la partenza dei corpi di spedizione decisa nell'estate del 1919.

In quest'ottica vanno viste certe simpatie che ebbe per il fascismo al suo sorgere e per quelle forme di governo che i suoi detrattori chiamavano «reazionarie».

Sul carattere di Churchill reazionario molto verrà scritto e detto tanto da farne in certi settori l'esempio più tipico della grande conservazione.

 

Il fronte si sarebbe spostato adesso in Francia, con tutte le dolorosissime conseguenze del caso. Incominciava la serie degli interrogativi sulla sfortunata spedizione con tutti i «j'accuse» d'obbligo.

Soprattutto ci si chiedeva come mai non vi era stata un'operazione congiunta con lo sbarco di truppe contemporaneo al bombardamento navale.

Quando nel gennaio 1916 si vedranno i resti di quella che era stata la spedizione di Gallipoli, si scorgerà solo un cumulo di rovine, di attrezzature in disarmo, di carriaggi abbandonati lungo la riva, di moli artificiali destinati ad andare ben presto in rovina anch'essi. Uno spettacolo di rovina e di morte con le sue quarantaduemila vittime.

Il 18 settembre 1915 Churchill parlava di fronte ai lavoratori dell'industria bellica:

«Non possiamo investigare le insondabili ragioni che ci hanno condotto in questa situazione e ci hanno portato verso una catastrofe incommensurabile nel suo orrore, ma noi sappiamo che in questo tempo di crisi dobbiamo fare il nostro lavoro e fare tutto quello che umanamente si può fare...».

In novembre scriveva a Lord Asquith:

«Ho chiara la coscienza che mi mette in grado di prendermi ogni responsabilità per gli eventi successi con la dovuta calma. Il tempo mi darà ragione della mia condotta nell'Ammiragliato e mi concederà il vanto delle dovute operazioni nella vasta serie di azioni che ci hanno portato al comando dei mari».

Il cruccio di Churchill era quello di non essere riuscito a raggiungere Costantinopoli, ma per farlo sarebbe stata necessaria l'uscita di scena di Fisher e di Kitchener. Sarà forse per questo che dirà a Lord Riddell di essere un uomo finito. Riddell aveva risposto:

«Non certo a quarant'anni», ma Churchill insisteva dicendo di essere vittima di un raggiro politico. Diede allora le dimissioni dal cancellierato del ducato di Lancaster e partì tra l'indifferenza altrui per il fronte francese. Qualche giorno più tardi, sotto una fredda pioggia di novembre, il maggiore Churchill si presentò al colonnello comandante il reggimento granatieri del re, il reggimento nel quale sarebbe rimasto per un mese.

Scrive il Moorehead:

«Come politicante di vedute anticonservatrici e in più come l'uomo ritenuto responsabile dell'impresa di Gallipoli, Churchill non faceva una bella figura in quel luogo e in quel momento. E infatti fu ignorato per una buona mezz'ora. Alla fine il colonnello si sentì autorizzato a fare un'osservazione: "Credo di dovervi dire", egli disse, "che noi non siamo affatto stati consultati per quanto concerne la vostra venuta fra noi"».

Churchill dovette passare sei mesi nelle trincee francesi prima con il grado di maggiore e come soprannumerario in un battaglione della guardia, poi, con la promozione a tenente colonnello, ricevette il comando di un battaglione: il 6° di fanteria scozzese.

Churchill rimase con il battaglione sino al giungo del 1916 senza che però vedesse l'ombra di un impiego strategico notevole.

E ciò nella zona delle Fiandre, dove operava.

A questo punto Churchill decise di lasciare il servizio attivo e di riprendere il suo posto alla Camera dei Comuni. Si sentì un uomo messo da parte, bandito dall'azione. Non aveva più modo di far valere il proprio talento organizzativo, le sue capacità, tanto più che lo stato maggiore gli aveva negato il privilegio di indossare un giorno di più la divisa.

Intanto sui fronti d'Europa si ammucchiavano i cadaveri; la guerra di trincea si rivelava onerosissima, era una carneficina che non risparmiava nessuno.

Il 9 settembre del 1916 Churchill parlava a Chelmsford di fronte a una folla notevole: parlava dei dominions che si erano rapidamente allineati alla condotta della madrepatria, pur essendo passati attraverso prove terribili, con perdite di vite umane, disastri ed eventi amari.

E fece piovere dei memorandum, descrivendo le cose disastrose, come certe offensive intraprese, memorandum che lasciavano però il tempo che trovavano.

Intanto fece la sua comparsa sul fronte il carro armato, impiegato per la prima volta dai britannici e Thiepval, dopo che erano state collaudate delle autoblindo la cui costruzione Churchill aveva caldeggiato. Era una piccola soddisfazione per il giovane leader, incontro al quale si mosse, come già in passato, Lloyd George.

Lloyd George promise a Churchill un posto nel ministero non appena fosse stata fatta piena luce sulla spedizione dei Dardanelli.

Quando sarà pubblicata la relazione in questione, si vedrà che le responsabilità non erano del solo Churchill il quale intanto aveva pronunciato alla Camera dei Comuni, riunita in seduta segreta, un memorabile discorso a favore dell'aiuto americano nel conflitto contro le offensive indiscriminate.

E Churchill si guadagnò il posto al ministero delle munizioni recentemente creato. Per un anno si occupò della produzione di cannoni, carri armati e munizioni. Si diede da fare a corpo morto spingendo la produzione dei carri cingolati, un amore di vecchia data considerando la novità del mezzo.

Il 21 ottobre del 1917 scrisse che ove si trovasse il modo di far proseguire un'avanzata con mezzi meccanici oltre le trincee, si sarebbe portato agli avversari un colpo decisivo.

Lavorava quindici ore al giorno, non riposava mai e il pomeriggio di solito prendeva l'aereo e volava in Francia. Nel 1918 ciò voleva dire rischiare giorno per giorno la propria vita; infatti una volta gli capitò che l'aereo prendesse fuoco sulla Manica, la seconda si capovolse al decollo e una terza gli si guastò la leva di comando ed egli precipitò sull'aeroporto di Croydon da un'altezza di trenta metri. Uscì dai rottami, come nota il Moorehead, e due ore più tardi teneva alla Camera un discorso. E questo all'età di quasi cinquant'anni.

Era pronto ad assistere alla fine della guerra, guerra che costò alla Gran Bretagna 740.000 caduti, contro 1.364.000 caduti francesi.

Alla fine della guerra due erano le preoccupazioni che avvertiva Churchill: una, l'assetto nuovo dell'Europa centrale, l'altra, il pericolo che le idee comuniste, prodottesi con la rivoluzione bolscevica, penetrassero anche in Gran Bretagna.

Churchill non voleva, adesso che l'Inghilterra era uscita vittoriosa dal conflitto, la rovina totale della Germania. Credeva che bastasse distruggere la marina perché la tigre di ieri, disgregata nei singoli stati pervasi dal vento dell'autonomia, perdesse ogni velleità aggressiva.

D'altro canto la Germania versava nel caos come la Russia, a proposito della quale Churchill fu pronto a dire che se la rivoluzione francese aveva avuto i suoi meriti, le sue personalità, non altrettanto si poteva dire di quella bolscevica i cui capi avevano fatto morire individui a migliaia e altre migliaia avevano ridotto alla fame.

 

 

Capitolo VI

L'ANTIBOLSCEVICO

 

Il bolscevismo fu per Churchill come l'Anticristo. Tuttavia se non transigeva a proposito della Russia1, [1 Il 1° gennaio del 1919 Churchill diventò segretario di stato per la guerra; un mese più tardi, il 14 febbraio, partecipò con il capo dell'Imperial general staff alla conferenza di Parigi nell'intento di creare un blocco di potenze in funzione antibolscevica.] si mostrò però più malleabile nei confronti della Germania.

In un suo discorso per il seggio elettorale di Dundee gridò perché la Germania pagasse tutto quello che c'era da pagare pur di conquistarsi l'elettorato, politica che però sconfessò nei colloqui a tu per tu.

Poco dopo diventò, nell'ennesimo rimpasto ministeriale, ministro della guerra e dell'aria; in altre parole, oltre che dello sviluppo dell'aviazione egli doveva occuparsi della smobilitazione dei contingenti arruolati e rimpatriati.

Tre milioni e mezzo di uomini dovevano essere restituiti alla vita civile. C'era già un piano che prevedeva che coloro i quali avevano occupato posti chiave nell'industria, fossero reintegrati per primi, provvedimento che suscitò malcontento generale. Si trattava infatti di persone che erano state mobilitate anche per ultime, da qui l'ostilità dei veterani al provvedimento.

Disordini scoppiarono un po' dovunque, incidenti a catena.

Particolarmente vivi furono gli scontri in Irlanda dove soffiava il vento dell'autonomia.

Churchill fu allora costretto a modificare il piano dell'azione scaglionando i congedi in base all'anzianità di servizio.

Come si vede fu pronto a trovare una soluzione diametralmente opposta a quella che aveva adottato agli inizi.

L'11 aprile del 1919 si scagliò contro il nemico di sempre, lo spettro bolscevico (come allora veniva definito). Disse che il bolscevismo era la più spaventosa, distruttiva e degradante di tutte le tirannie. Era da insensati pensare che fosse un pericolo minore del militarismo tedesco; non era una dottrina politica, ma un'infezione...

Così scrisse a questo proposito:

«Nonostante tutte le brutture della rivoluzione francese, una luce brillantissima ne illumina tuttora le scene e gli attori. La personalità di Robespierre e di Danton, perfino quella di Marat, brillano ancora come illuminate da una sorta di raggio. Ma la bassezza e la sordidezza dei capi bolscevichi non è neppure controbilanciata dall'estensione dei loro delitti. Hanno un bel far perire migliaia di individui e farne piombare nella miseria dozzine di migliaia, le generazioni future non avranno che sdegno per le loro grossolane fisionomie e per i loro nomi singolari...».

 

Nella primavera del 1920 esclamò che la sua politica dopo l'armistizio era stata quella di voler la pace con il popolo germanico e la lotta contro il dispotismo sovietico. La Russia, esclamò, era allo sbando e il poco che rimaneva era preda di mostri implacabili.

Ma la Germania poteva ancora essere salvata. Se necessario, la Gran Bretagna doveva muoversi con piena autonomia. Si dichiarò disposto a inviare rinforzi ai russi bianchi purché recedessero da posizioni troppo rigidamente zariste e fossero disposti, in caso di vittoria, a instaurare un governo democratico.

L'opposizione del ministro crebbe in proporzione alla sua germanofilia. Così nel gennaio del 1921 Churchill fu di fatto trasferito al ministero delle Colonie, il settimo dipartimento affidatogli a partire dal 1908. Aveva quasi 46 anni. Appena nominato, subito s'infervorò e ribollì d'attivismo. Corse immediatamente al Cairo. Al Cairo c'era Lawrence d'Arabia il leggendario comandante delle forze di guerriglia arabe in funzione anti turca.

Insieme i due stabilirono la nascita della Transgiordania e dell'Iraq come stati indipendenti.

Per Churchill, Lawrence d'Arabia era uno dei più grandi uomini dei nostri tempi, «e non vedo nessuno che possa stargli alla pari. Temo che non ne troveremo un altro neppure se ne avremo bisogno».

Giudicherà poi la sua morte, avvenuta nel 1935 in seguito a un incidente di motocicletta, un danno per la nazione.

 

Il 28 marzo 1921 informò l'emiro Abdullah, che stava per diventare re della Transgiordania, che la Palestina sarebbe rimasta sotto il controllo britannico, aperta all'insediamento dei nuclei ebraici.

La famiglia husseinita era destinata a porre due suoi membri reggitori di due stati: l'emiro Feisal e il di lui fratello, Abdullah, signore quest'ultimo della Transgiordania.

Come ministro dell'aria, Churchill aveva poi adottato un provvedimento che farà scalpore presso i comandi militari: aveva sostituito le forze terrestri di stanza in Iraq con squadriglie di aerei, facendo così risparmiare al governo britannico all'incirca 35.000.000 di sterline.

Nel maggio del 1920 scoppiò uno scandalo chiamato l'affare Golvin, uno scandalo che mancò poco travolgesse anche Churchill.

Era stato portato a Londra, da una delegazione laburista, un documento che recava la data del 6 maggio 1919. In questo foglio, vero o falso che fosse, veniva denunciato un colloquio che Churchill avrebbe avuto con il colonnello Golvin, un esponente in vista dei russi bianchi, gli avversari dei cosiddetti bolscevichi.

Il foglio rivelava come Churchill avesse promesso di far rimanere di stanza in Russia per un periodo da prolungarsi a piacere, il contingente britannico che era già stato a suo tempo inviato; veniva inoltre promesso l'arrivo di altri 12.500 uomini in appoggio agli eserciti bianchi.

Quando il documento fu fatto conoscere al Parlamento, successe il finimondo: i conservatori tacevano, mentre laburisti e liberali lanciavano una sequela di ingiurie.

In questo periodo la politica churchilliana si rivelò a più facce. Churchill aveva infatti chiesto al Parlamento una maggiore clemenza nei confronti della Germania; l'opposizione alla richiesta venne questa volta dallo stesso Lloyd George il quale ribadì il principio di fare applicare le riparazioni di guerra che avrebbero ben presto portato la Germania al collasso economico e favorito l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti.

In questi mesi si andava profilando una vera recrudescenza della questione irlandese. L'Irlanda era una terra che scottava. Sempre più spesso venivano trovati agenti di polizia rimasti vittime di assassinii perpetrati dai ribelli irlandesi.

Lo stesso capo di stato maggiore, il maresciallo Henry Wilson, era stato vittima di un attentato mentre rientrava da una cerimonia commemorativa per i caduti in guerra. L'emozione in Gran Bretagna era stata profonda e fu subito aperto un dibattito in Parlamento. Si arrivò alla conclusione che bisognava trattare con quelli che venivano considerati i capi dell'insurrezione.

Il problema era grave: 30.000 uomini, a tanto infatti ammontava il contingente britannico inviato sull'isola, non erano riusciti ad avere la meglio sui 3.000 uomini del Sinn Fein.

Churchill, parlando con Michael Collins, rappresentante degli insorti, il quale protestava perché gli inglesi avevano posto sul suo capo una taglia di 5.000 sterline, fece notare serafico che sul suo capo era stata messa una taglia analoga ma di importo alquanto inferiore.

Disse infatti Churchill:

«Anche su di me una volta era stata messa una taglia. Ma per voi, noi offriamo 5.000 sterline. Sa che cosa davano della mia? I boeri non l'avrebbero pagata che 25 sterline. Avrebbe preferito un trattamento simile?».

E Collins si mise allora a ridere.

Ma tutti gli sforzi che Churchill faceva per una composizione pacifica della vertenza, dovevano risultare vanificati.

La creazione di un nuovo stato irlandese era ormai questione di mesi se non proprio di giorni.

Quello stesso Michael Collins che Churchill aveva incontrato arriverà a impossessarsi del palazzo di giustizia, un fatto clamoroso che avrebbe determinato lo spostarsi dei piatti della bilancia. (Da notare che Collins morirà un mese dopo questo episodio).

L'11 dicembre 1921 si ebbe il raggiungimento dell'intesa che portava l'Irlanda all'indipendenza come dominion, tranne l'Ulster che rimase strettamente unito alla corona britannica, anche se nel suo seno si sarebbero verificati dei dissidi tra protestanti filoinglesi e cattolici filoirlandesi, dissidio che perdura tuttora.

Accanto al problema irlandese il ministero degli esteri doveva affrontare anche quello della disintegrazione dell'impero ottomano. Le popolazioni arabe di questo vecchio impero cercavano in tutti i modi di raggiungere l'indipendenza e su questo stato di conflittualità permanente facevano leva gli inglesi; e tra i migliori agenti britannici vi era quel Lawrence d'Arabia, l'autore dei Sette pilastri della saggezza.

Con l'avvento nel 1922 di Mustafà Kemal, si assistette a un tentativo di rovesciare la situazione; dapprima i turchi si rivolsero contro un nemico atavico e cioè il governo greco, poi cercarono di muoversi contro gli alleati che avevano vinto la prima guerra mondiale.

Il 17 settembre comparve la notizia che due stati, la Jugoslavia e la Romania, erano invitati a fornire truppe per impedire l'avanzata delle unità kemaliste.

Approfittando dell'assenza del ministro degli esteri, Churchill fece la mossa di emanare un comunicato nel quale veniva detto che il governo di Sua Maestà britannica aveva l'intenzione di rinforzare il corpo d'occupazione di Costantinopoli. Questa mossa sarà giudicata da molti storici alquanto avventata. Ebbe comunque l'effetto di intimidire Mustafà Kemal.

Tutte queste questioni erano malviste dall'elettorato e dall'uomo della strada che avvertivano una sorta di repulsione al solo sentir parlare di azioni militari.

Per fortuna gli avvenimenti dovevano rivelarsi una bolla di sapone quando si venne a sapere che né la Jugoslavia né la Romania avevano la minima intenzione di inviare un solo soldato a combattere contro i kemalisti. In altre parole Mustafà Kemal capì l'antifona e cercò di evitare di fare un passo falso. E, come venne scritto dai giornali, l'inglese medio che aveva giudicato il tutto con occhio estremamente negativo, si prese un bello spavento ma ogni cosa finì lì.

I cocci invece ci furono per Churchill che venne giudicato da qualcuno «persona nella quale non si poteva riporre alcuna fiducia».

In questi giorni la politica era appannaggio quasi esclusivo del partito conservatore, anche se la direzione del governo era liberale. Stavano però mutando le condizioni politiche.

La tradizione parlamentare britannica avrebbe voluto che si tornasse all'alternanza dei due partiti, il liberale e il conservatore. Ma all'orizzonte era apparsa la bandiera dei socialisti le cui file andavano ingrossandosi sempre di più.

Questa volta una seduta plenaria doveva decidere le sorti del governo. A difendere le tesi di Churchill c'era Austen Chamberlain che aveva fatto del suo meglio per aiutarlo.

Come Lady Randolph faceva nelle grandi occasioni, egli invitò a pranzo gli indecisi per meglio convincerli. Tra gli invitati c'era anche il segretario agli affari esteri, Lord Curzon. Questa riunione si tenne al Carlton Club il giorno 19 ottobre e con 187 voti contro 87 i conservatori decisero che i ministri del loro partito avrebbero dovuto ritirarsi dal gabinetto.

Questo significava in pratica la fine del governo di coalizione.

In questi giorni l'Inghilterra viveva un momento delicato: c'era grande disoccupazione (nel marzo del 1921 si era calcolato che vi erano 1.300.000 disoccupati).

Anche l'orizzonte politico era oscuro. C'era stato lo scandalo delle onorificenze, cioè dei titoli di nobiltà messi all'incanto dal primo ministro per finanziare le casse del partito. I conservatori perciò trionfarono e ritornarono a quel potere che avevano perduto nel 1905. Per Churchill, che si trovava spiazzato, fu un momentaneo tracollo politico.

Operato di recente di appendicite, si presentò al collegio di Dundee solo due giorni prima delle elezioni; fu accolto da un vero uragano di invettive fra le quali c'era l'accusa di non essersi occupato della sorte degli operai. Ciò significava che veniva considerato un virtuale nemico dei socialisti, un avversario del programma sociale.

Churchill fece dell'ironia su questi fatti, dicendo che aveva perso tutto, appendice compresa. E, come sempre faceva durante le crisi, si dedicò alla pittura.

Il momentaneo tracollo politico significò l'assenza di Churchill dal Parlamento per circa un biennio. Alla già citata consolazione della pittura (in un'asta parigina quattro dei suoi quadri erano stati pagati più di 3.000 franchi l'uno), si aggiungeva quella dello storico.

Recatosi a Cannes con la consorte più una cameriera e un segretario, mise in cantiere quattro volumi sulla guerra mondiale, il primo dei quali apparirà nella primavera del 1923.

Grazie ai diritti di questi volumi, riuscirà ad acquistare nella contea di Kent una residenza di campagna, Chartweel Manor, e in questo luogo tranquillo mediterà sul come poter tornare nell'agone politico.

 

 

Capitolo VII

IL GIORNALISTA

 

Le elezioni del 1923 vanno annoverate fra le più significative della politica britannica. In esse, infatti, si palesò la forza laburista. La ripartizione dei seggi fu la seguente: 255 andarono ai conservatori, 191 ai laburisti e 158 ai liberali.

Così i laburisti divennero gli arbitri della nuova situazione.

Per la prima volta nella storia essi andarono al governo e il sovrano fu costretto a consegnare le chiavi a un esponente socialista e precisamente a Ramsay MacDonald, personaggio singolare attratto dal bel mondo e non portato allo scontro di classe.

Per Churchill vedere i liberali dare il proprio appoggio a un governo laburista fu un colpo dal quale fu difficile rimettersi. E dirà precisamente in proposito:

«Le varie fasi della lotta ci stanno spingendo verso acque pericolose. L'insediamento al potere di un governo socialista costituisce una grave sciagura nazionale come quella che toccherebbe a uno stato all'indomani di una sua disfatta in guerra».

Era il 17 gennaio 1924. Ma le parole di Churchill, dette con tono profetico, non si fermeranno qui. Egli infatti aggiunse:

«I giorni di prosperità tarderanno a venire; vi sarà un periodo di crescente confusione e di perturbamenti nella vita politica: i due partiti, il liberale e il laburista, assumeranno una posizione completamente erronea. Il partito liberale finisce con il dare il suo appoggio a quegli stessi socialisti contro i quali ha appena finito di lottare e che sicuramente lo combatteranno ancora, mirando a sconfiggerlo definitivamente.

«I socialisti potranno curare i mali del nostro tempo alla sola condizione che non si servano di nessuno dei rimedi da loro propugnati, in cui essi credono; e su di loro peserà la minaccia che vengano allontanati dal potere una volta ricorsi a questi metodi. Ciò significa una permanenza al governo penosa: se saranno violenti, ne saranno estromessi, e se saranno moderati, correranno il rischio di dividersi fra di loro».

Quasi a confermare le parole del parlamentare, il governo laburista non avrà vita lunga: le Camere verranno sciolte allorché il governo si rifiuterà di perseguire un giornale a tendenze comuniste.

Questo periodo fu contrassegnato dalle più strane alleanze o concordanze di vedute tra liberali e conservatori. Asquith si riconciliò con Lloyd George. Per Churchill il problema era di sapere fino a quando sarebbe stato tenuto fuori della mischia. Occorreva trovare l'occasione per poter rientrare nell'agone politico.

Nella circoscrizione londinese di Westminster c'era un seggio libero e Churchill si ripresentò candidato vestendo i panni del costituzionalista, con dei discorsi che però lo avvicinavano sempre di più ai conservatori. Fu dunque battuto, ma con uno scarto di soli 43 voti su 22.000 schede.

La riscossa venne con le elezioni successive del 1924.

Nell'ottobre di quell'anno troviamo infatti Churchill a Epping dove pronuncia un discorso. Era presente al suo fianco la moglie. Qui Winston tenne uno dei più infiammati discorsi e rivelò l'esistenza di una lettera, vera o falsa che fosse, in cui il russo Zinoviev, presidente della Terza Internazionale, chiedeva ai comunisti britannici di fomentare un'insurrezione tra i marinai, i soldati e i disoccupati.

Tutta la Gran Bretagna fu in subbuglio e si verificò un vero trionfo da parte dei conservatori, trionfo che comportò le dimissioni del governo MacDonald e il richiamo di Baldwin.

Per Churchill c'era in serbo una carica prestigiosa, quella di cancelliere dello scacchiere e cioè ministro delle finanze, ruolo più importante di quello di primo ministro, perché reggeva le finanze dello stato.

Il perché di questa scelta non si è mai saputo. Per l'opposizione era come allevare una serpe nel proprio seno, essendo le vedute di Baldwin alquanto diverse da quelle di Churchill. Comunque la novità della decisione fu tale che sulle prime lo stesso Churchill pensò che gli venisse affidato il ruolo puramente onorifico di cancelliere del ducato di Lancaster e non certo quello di cancelliere dello scacchiere che comportava enormi responsabilità. Esso verrà ricoperto da Churchill fino al 1929.

Dopo la parentesi liberale, che complessivamente era durata un ventennio, si apriva per Churchill un periodo di politica nettamente conservatrice, tanto che agli inizi del 1925 fu fatta votare dal Parlamento una dottrina (quella della parità aurea), che era caldeggiata dai circoli della City ma osteggiata dai maggiori rappresentanti dell'economia: fra di loro, il più grande economista di quel tempo, Keynes, che redigerà un opuscolo intitolato Le conseguenze economiche del signor Churchill. In esso venivano denunciate le penalizzazioni alle esportazioni, senza contare le conseguenze sociali per l'impoverimento delle classi meno abbienti che vedevano le loro paghe ridotte in pratica di almeno il 20%.

Il prodotto inglese maggiormente esportato era il carbone il cui prezzo veniva determinato esclusivamente dai salari pagati ai minatori. Come conseguenza della parità aurea, i minatori avrebbero ricevuto un salario inferiore anche se, in teoria, il potere d'acquisto sarebbe rimasto sempre il medesimo. In realtà i prezzi interni non sarebbero diminuiti se non in un tempo relativamente lungo e quand'anche fossero diminuiti, cosa quanto mai improbabile, ci sarebbe stata la necessità di sovvenzionare pubblicamente gli impianti deficitari; era un onere estremamente gravoso per lo stato: si calcolò che in meno di un anno ci sarebbe stato un aggravio di 20 milioni di sterline.

La crisi diveniva quindi inevitabile. Dal canto loro i minatori sostenevano la tesi del «non un penny di salario in meno, non un minuto di lavoro in più». Da qui l'implicita accusa per Churchill di essere un nemico della classe operaia e di avere un orecchio troppo attento ai desideri della City.

Churchill stesso doveva toccare con mano le conseguenze dell'annuncio — dopo la seduta del 28 aprile al numero 10 di Downing Street — che la Gran Bretagna sarebbe tornata alla parità aurea, per meglio dire al Gold Standard.

Specificare esattamente le responsabilità di Churchill come cancelliere dello scacchiere, richiederebbe una disamina alquanto accurata e comunque un buon numero di pagine.

Qui diremo che la sua politica di deflazione era destinata a scontentare molti.

Innanzitutto gli imprenditori stabilirono di non rinnovare più i contratti in vigore e invano intervenne il ministro Baldwin per invitare tutti alla moderazione.

Il 28 aprile del 1925 fu presentato alla Camera dei Comuni il primo bilancio; subito le merci britanniche subirono un deprezzamento di circa il 10%, tenendo conto che la grande maggioranza di esse non era destinata al consumo interno, bensì all'esportazione.

Invano Baldwin invitò all'accordo agitando la sua pipa. La finanza, si sa, è una macchina piuttosto delicata e lo scranno di cancelliere dello scacchiere era il meno comodo. Inoltre a Churchill difettava una profonda conoscenza dell'economia, il che gli faceva delegare agli altri i compiti più ostici. Per questo nel ristabilire il Gold Standard aveva fatto assegnamento soprattutto sulla City.

La guerra era finita da un pezzo ma i suoi guasti erano ancora visibili un po' dappertutto e le sue conclusioni erano ben lungi dal rivelarsi soddisfacenti.

Alcuni dei provvedimenti adottati da Churchill sembrarono contraddittori; in particolare l'istituzione di un'imposta sulle scommesse ippiche fece scendere in sciopero, strana cosa, anche i bookmakers. Un laburista, che nei banchi di opposizione lanciava continuamente frecciate ai conservatori, quando sentì parlare di tasse sulle corse ippiche andò su tutte le furie dicendo che il gioco delle scommesse era un vizio e il riconoscerlo sarebbe stato come una sorta di opposizione all'onestà, come se cioè si volesse imporlo.

Philip Snodwen, questo il suo nome, riscosse una serie di applausi.

Dovendo sempre pensare al modo di attingere denaro, Churchill arrivò a prelevare i fondi dal cosiddetto patrimonio stradale, cioè la cassa comune che era destinata alla manutenzione delle strade e delle vie di comunicazione.

Il 4 maggio 1926 ebbe luogo uno sciopero generale.

Fu durante questo sciopero che Churchill per la prima volta nella sua vita si improvvisò editore e direttore di un giornale. Questo perché, oltre ai tipografi e ai giornalisti, lo sciopero interessava anche la rete di distribuzione.

Al momento della sua proclamazione, il direttore del «Morning Post», H.A. Gwinne, s'era subito messo in contatto con Baldwin mettendo a disposizione del governo gli impianti, l'edificio e i locali della redazione. Poco dopo Churchill faceva il suo ingresso nell'edificio del «Morning Post» disertato dagli scioperanti, per stampare un foglio intitolato «British Gazette». Per poterlo far uscire, aveva messo insieme la redazione più eterogenea che vi fosse. C'erano alcuni giornalisti «crumiri» che indossavano delle tute da operaio e il capoturno di notte del giornale «Daily Express».

Vi erano poi alcuni volontari che si erano occupati di creare una rete di distribuzione, e poi dei marinai e alcuni membri della guardia irlandese per proteggere coloro che non avevano aderito allo sciopero stesso.

Scrive il Brennand:

«La seconda sera, da quando c'era il giornale, Winston si recò nella sala macchine per vedere se tutto fosse a posto. Le presse stavano lavorando a pieno ritmo; (...) la circolazione della "British Gazette" raggiunse ben presto le cinquecentomila copie. Nuovi volontari si presentarono per dare una mano alla distribuzione delle copie (...) molti membri della redazione vennero attaccati per le strade e fu sabotata una macchina che Churchill mandò a riparare ai cantieri navali di Chatham. (...) non si permise a nessuno di entrare nella sede del giornale, non venne lasciato passare neppure un vecchio amico di Churchill, Lord Birkenhead...».

Il tono del giornale di Churchill era quanto di più conservatore si potesse scrivere in quei momenti. Sembrava che ogni accento liberale udito nei suoi comizi precedenti fosse scomparso o addirittura capovolto. Questa fu la massima crisi nel periodo che Churchill passò come cancelliere dello scacchiere.

Certo per quello sciopero fu un reale protagonista, dimostrando anche qui una notevolissima capacità organizzativa. C'erano già tutti i presupposti per un rientro nel partito conservatore.

Churchill aveva visto lo sciopero come un dramma personale, quasi come offesa diretta alla sua persona. In altre parole vedeva in esso un piano accuratamente studiato, con una regia che sapeva di tattica militare avente come fine esplicito la caduta del governo.

La sua «British Gazette» ebbe un contraltare nel giornale pubblicato dagli scioperanti, il «British Worker». Oggi, rileggendo a tanti anni di distanza quei fogli, non si può fare a meno di sorridere, vuoi per l'aristocratica intransigenza della prima, vuoi per l'ingenua replica del secondo. Resta comunque una frase celebre, detta da Churchill a proposito del suo ruolo nella vicenda: «Declino apertamente di dimostrarmi imparziale tra una squadra di pompieri e un incendio».

In tutta questa situazione non si può non vedere il tramonto del partito liberale il quale aveva gestito le sorti della Gran Bretagna per circa un ventennio.

Tale partito subì, nel volgere di pochi mesi, un vero e proprio tracollo, finì per avere in Westminster solo una quarantina di seggi.

In realtà con l'avvento dei laburisti, i liberali avevano perso quell'influenza che faceva vedere in loro dei campioni della tolleranza sociale. Secondariamente avevano perso l'appoggio dei borghesi meno illuminati che si stavano spostando verso il partito dei conservatori. In altri termini nell'inglese medio persisteva ancora il rispetto dei Lords.

Il 20 gennaio del 1927 ai giornalisti presenti nell'ambasciata britannica a Roma, Churchill (che dopo il discorso andò a tavola con il principe Poniatowski) disse:

«È del tutto assurdo dire che il governo italiano non poggia su una base democratica. Se fossi stato italiano sono sicuro che sarei stato con voi (Mussolini) dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa. Il movimento da voi capeggiato ha giovato al mondo intero. L'Italia ha dimostrato che esiste un modo per combattere le forze sovversive: ed è quello di chiedere a tutto il popolo una cooperazione leale con lo stato. L'Italia ha dimostrato che, difendendo l'onore e la stabilità della società civile, essa crea l'antidoto necessario al veleno rosso».

L'ossessione di sempre fa perfino applaudire il democratico Churchill al fascismo italiano. Si trattava pur sempre dello stesso Churchill che aveva avuto come consigliere della prima guerra mondiale l'israelita Bernard Baruch, della persona che cioè non aveva mai dimostrato nella propria condotta pubblica eccessivo entusiasmo per le dittature.

Più che i fulmini di guerra egli sembrava apprezzare i piaceri della pace. Quando si era recato negli Stati Uniti, si era fatto portare una piccola scorta di bottiglie di whisky e di cognac facendole disporre in modo che potessero essere viste stando a letto.

E ancora meno l'adesione, sia pure verbale, alle teorie del fascismo poteva conciliarsi con i suoi atteggiamenti da retore e da parlamentare.

Quello di Roma, in sostanza, non era lo stesso Churchill che girellava per la stanza da bagno con un asciugamano legato davanti, dettando contemporaneamente alla sua segretaria il testo dei propri discorsi.

C'era in questa immagine forse una reminiscenza napoleonica ma anche il desiderio di apparire il più familiare possibile.

Racconterà alcuni anni più tardi la sua segretaria Phyllis Moir:

«Ogni tanto mi chiamava a voce alta, ordinandomi di scrivere sotto dettatura dietro la porta socchiusa. Appariva all'improvviso, un asciugamano avvolto alla propria persona, recitando con la sua voce sonora gli ultimi paragrafi di un discorso che avrebbe fatto la sera.

«Questa abitudine aveva portato scompiglio in molte case di campagna inglesi, dove timide camerierine morivano quasi di paura alla vista di un signore corpulento... che girava per i corridoi, drappeggiato in un asciugamano».

 

 

Capitolo VIII

IL FASCISMO IN EUROPA

 

Molti ricorderanno, per il suo freddo e la sua neve, l'inverno 1927-1928. Randolph Churchill ne approfittò per compiere lunghi percorsi in pattini da ghiaccio in compagnia della madre. Tra i vari quadretti familiari non manca quello di un Churchill che dà gli ultimi tocchi a un pupazzo di neve, così come non mancano immagini di Chartweel — la residenza della famiglia Churchill — semisepolta sotto la neve.

Sempre nell'anno 1927 successe un fatto che ebbe una conseguenza favorevole per Churchill: vennero trovati documenti compromettenti e denuncianti un'attività spionistica nei locali della delegazione commerciale sovietica. In seguito, la stessa sede della delegazione commerciale venne chiusa per circa tre anni.

Tranne questo incidente che fu abilmente sfruttato dal partito conservatore, anche nell'aria si avvertiva già una certa stanchezza del binomio Churchill-Baldwin. Solo una malattia del sovrano Giorgio V impedì che venisse nuovamente sciolto il Parlamento. Si dovette attendere sino al maggio 1929 perché il sovrano potesse ratificare la convocazione delle elezioni per il 31 del mese.

Per quella data era anche concesso di votare alle donne che avessero più di 21 anni, il che significò cinque milioni di elettori in più. Di fronte a un problema quale quello della disoccupazione che perdurava massiccia, i voti non potevano non andare ai laburisti. Winston, che si era presentato nella circoscrizione di Epping, se la cavò per il rotto della cuffia.

Baldwin presentò, infatti, le proprie dimissioni e così, anche se fu rieletto, Churchill non ne trasse alcun giovamento.

Per di più Baldwin dichiarò in privato che non avrebbe mai più fatto rientrare Churchill in un gabinetto conservatore.

Churchill era ridiventato un semplice deputato; ma un deputato con degli hobby, quali la pittura in primo luogo e poi, ultima tra le preferenze, la cazzuola da muratore!

La fine del gabinetto laburista era stata causata da una situazione economica insostenibile, era anzi stata tanto grave da richiedere un governo di unione nazionale. Si trattava, in altri termini, di promuovere un'iniziativa pari a quella che aveva portato alla formazione del gabinetto durante le crude giornate della guerra.

Scrive l'Allary:

«Era con un governo di coalizione, sotto la guida di Lloyd George, che l'Inghilterra aveva condotto vittoriosamente la guerra contro la Germania e Winston Churchill, la cui carriera politica si era successivamente colorita di tante sfumature, non era, per principio, ostile a una formula di sintesi. Avrebbe però accettato un portafoglio nel nuovo gabinetto?».

In quel gabinetto c'era Ramsay Mac Donald, tempra di socialista moderato. Ed era stata proprio questa moderazione a favorire la fiducia che il sovrano gli aveva dato. I primi laburisti non erano alieni dal seguire le spinte rivoluzionarie che venivano dall'Unione Sovietica.

C'era poi il fatto che a dirigere il gioco era uno stretto conservatore come Stanley Baldwin, proprio lo Stanley Baldwin che aveva nominato Churchill cancelliere dello scacchiere.

Ma Churchill a volte non era fatto per guadagnarsi le simpatie. Tant'è vero che alla Camera dei Comuni aveva detto: «Mi rammento di quando ero bambino; i miei genitori mi avevano condotto a vedere il circo Barnum che, fra le altre cose, presentava anche un certo numero di uomini-fenomeno e di mostri. Quello che io desideravo vedere era soprattutto un singolare individuo denominato l'"Uomo serpente". I miei genitori ritennero lo spettacolo troppo ributtante per i miei occhi infantili, ho quindi dovuto aspettare cinquant'anni per vedere l'Uomo serpente al banco del governo».

Dove avvenne la frattura più clamorosa fu nel giudicare la condotta di Gandhi in particolare e il problema dell'India in generale.

Churchill non aveva nessuna intenzione di vedere l'India ricevere lo status di dominion. Qualora questo fosse avvenuto, tale era la tesi di Churchill, sarebbe stato come consegnare l'intero paese all'influenza dei bramini.

Ecco che cosa ebbe a scrivere in merito lo stesso Churchill:

«Si tratta di una catastrofe che nessuna nazione riuscirebbe a comprendere. Gli aristocratici, tutti gli europei, i musulmani, le classi meno privilegiate, gli anglo-indiani: nessuno di costoro saprebbe a che porta bussare di fronte al patente abbandono da parte della Gran Bretagna. Vi meravigliereste forse che cercassero di migliorare il più possibile la loro situazione politica di fronte all'oligarchia trionfante dei bramini? Personalmente sono contrario a questa capitolazione nelle mani di Gandhi. Sono contrario ai conversari e agli accordi che intercorrono tra Lord Irwin e Gandhi. Gandhi vuole la totale scissione della Gran Bretagna e dell'India. Gandhi vuole l'esclusione permanente del commercio inglese dai mercati della sua terra. Gandhi vuole sostituire con il dominio del bramini il governo inglese. Gandhi è un uomo con il quale non si riesce a venire a patti».

Poi c'era il problema delle alleanze che Gandhi andava intessendo.

Con chi andava alleandosi se non con i ricchi commercianti di Bombay?

Tutti insieme tramavano contro l'Inghilterra, tessendo nel paese una rete di violenza e tradimento. Questo avrebbe significato di lì a poco vedere l'India pervasa dall'ozio, dal nepotismo, dai guadagni illeciti e dalla corruzione, facendo del paese una vera e propria cloaca del disonore e dell'oppressione.

Ma, sottolinearono gli avversari di Churchill, non era questa posizione nei confronti dell'India assai diversa, per non dire contraria, a quelle che il medesimo Churchill aveva assunto negli anni, nei mesi addietro di fronte ad analoghe questioni ivi compresa quella irlandese?

Viceversa Churchill vedeva le concessioni riservate all'India come delle pericolose flessioni, delle forme di cedimento e di rinnegamento della propria personalità. Vedeva la longa manus degli intellettuali di sinistra che, con il loro pacifismo, inducevano le masse ad abdicare a qualunque diritto della nazione.

Così facendo si inimicava sempre di più le frange dell'elettorato per le quali era sufficiente gridare un «abbasso Churchill» per sollevare un uragano di applausi.

C'era poi da tener presente che i ricordi della guerra erano tutt'altro che dimenticati, anzi, rappresentavano sempre un incubo per gli elettori che avevano spostato le proprie simpatie sui laburisti. Eppure la grandezza dell'uomo si vedeva dai suoi scritti che ormai occupavano uno scaffale della biblioteca di Chartwell Manor. Ve ne erano già dodici: dal primo libro sulla campagna indiana — il che spiega il suo atteggiamento anche nei confronti dell'India —, al romanzo Savrola, alle pagine dedicate alla guerra sul fiume, alle raccolte dei suoi articoli. C'erano i quattro volumi sulla guerra (World Crisis), c'erano le pagine sui suoi primi anni e, nel 1933, sarebbe apparsa l'orditura dell'opera sul suo avo Malborough.

Accanto alla passione dello storico, c'erano i diversi hobby che andavano dalla pittura al fai-da-te; Churchill si rivelava ottimo muratore e costruttore, tanto che i sindacati degli edili gli offrirono la tessera di apprendista.

E questo senza dimenticare la sua posizione al Parlamento, una posizione critica e contraria al governo in carica. Infatti adesso sedeva tra le file dei giovani conservatori.

Era il 10 maggio 1929 quando, con l'immancabile cappotto dai risvolti di astrakan, Churchill compariva su un manifesto, che tappezzava quasi tutte le vie, nel quale denunciava i socialisti colpevoli di frenare lo sviluppo industriale.

La crisi monetaria internazionale del 1929 non fu senza conseguenze neppure in Gran Bretagna.

Originatasi negli Stati Uniti, si era presto allargata a macchia d'olio finendo per contagiare anche l'Europa. Senza contare che arrecava un duro colpo alle teorie sulla parità aurea.

Il numero dei conservatori aumentava vertiginosamente.

L'economia non solo britannica ma europea sembrava sull'orlo della bancarotta.

Churchill si trovava in uno stato di rassegnazione che da lui stesso sarebbe stato definito della wilderness, ovvero lo stato selvaggio.

Dieci lunghi anni di allontanamento dal governo. Ma non solo lui era annoverabile tra gli scontenti. Come ebbe a dire George Orwell, altro spirito profetico, tutti gli intellettuali vivevano in uno stato di scontentezza nei confronti dei governi in carica. A loro come tali, la società non riserbava alcun posto.

«In un impero che non faceva che ristagnare, che non si sviluppava e neppure cadeva in pezzi, in una Inghilterra dominata da uomini la cui caratteristica saliente era la mancanza di intelligenza, essere degli intellettuali, e per di più intelligenti, era come essere condannati alla stupidità».

Questo bando degli intellettuali dalla partecipazione al governo era una carta in più per quelle dittature che, come l'Italia o l'Unione Sovietica, vedevano nella Gran Bretagna una nazione in declino, in piena decadenza.

Alla voce di Orwell, facevano da controcanto quelle dei parlamentari che osteggiavano la politica del «signor Churchill», definito individuo instabile e capriccioso che non andava preso troppo sul serio.

Per vedere un Churchill nuovamente valido, al di fuori delle schermaglie parlamentari, occorrerà attendere fino al 1932, anno in cui, sulle tracce dell'avo Malborough , disse delle parole realmente profetiche che sarebbero state confermate di lì a poco.

Percorrendo i luoghi alla ricerca delle tracce del suo avo, di colui cioè che aveva intessuto una coalizione contro Luigi XIV dando alla Gran Bretagna una posizione egemone sul continente, ebbe modo di vedere gli atteggiamenti e di tastare il polso alla gioventù tedesca.

Il 27 settembre 1932 Churchill fu affetto da febbre paratifoidea e dopo le prime cure venne riportato nella sua residenza di Chartwell. Qui rimase sei settimane, il tempo necessario all'elaborazione di uno dei suoi discorsi profetici nel quale fece un violento attacco contro la politica del movimento nazista che, una volta conquistato il potere, avrebbe richiesto non solo le colonie perdute dalla Germania, ma altresì avrebbe invaso altri paesi che avrebbero potuto essere il Belgio, la Polonia, la Romania e la Cecoslovacchia o la Jugoslavia.

L'anno seguente ringraziò Dio per l'esistenza dell'esercito francese perché sarebbe stata follia ignorare la ferocia e lo spirito bellicoso della Germania.

Nel frattempo, come contraltare alle mire egemoniche tedesche, si occupò del problema sovietico ai fini di una possibile alleanza con la Russia. Adesso infatti il pericolo non era più il bolscevismo ma il nazismo.

Morto Lenin, in esilio Trotsky, c'era ora Stalin il quale sembrava addirittura voler dare garanzie agli imprenditori occidentali che volevano investire in Russia il loro denaro.

Per questo nel luglio 1934 votò per l'ammissione dell'Unione Sovietica nella Società delle Nazioni. A chi gli rimproverava il voltafaccia, disse che non era lui a essere cambiato ma il governo sovietico.

Sempre nel 1934 Churchill ritornò all'avversione per la Germania nazista. (I nazionalsocialisti avevano infatti conquistato il potere l'anno prima). Derise l'appello alla Società delle Nazioni perché stigmatizzava a parole il fatto che la Germania era venuta meno ai suoi doveri di membro della comunità internazionale.

Per quel che concerneva infatti la Germania durante la Repubblica di Weimar, Churchill lamentava il fatto che non fosse stato compiuto nessun serio tentativo per stabilire un'intesa con i vari governi moderati che si erano avvicendati in Germania durante il regime parlamentare.

I francesi avevano perseguito a lungo la piacevole illusione di poter strappare ai tedeschi dei pingui indennizzi; le cifre delle riparazioni erano state fissate non solo dal governo francese ma anche da quello inglese. Cifre che non erano affatto proporzionate ai mezzi esistenti né a quelli prevedibili per far passare la ricchezza da un paese all'altro.

E per costringere la Germania a sottomettersi a richieste insensate, l'esercito francese aveva occupato la Ruhr nel 1923.

Era un tema che Churchill avrebbe sviluppato assai più tardi quando redigerà le sue memorie di guerra. In quell'occasione scriverà:

«... il solo modo efficace di depredare una nazione vinta è privarla di tutte le ricchezze mobili utili a deportare una parte della sua popolazione, sottoponendola a una schiavitù definitiva o provvisoria. Ma il profitto che si ricava da un'operazione simile non è assolutamente proporzionato al costo di una guerra».

Queste sono le parole che Churchill dirà dopo, quando ormai in Germania i giochi erano stati fatti.

Come cancelliere dello scacchiere, carica che aveva ricoperto dal 1925 al 1929, Churchill non poteva non sapere quale fosse l'ammontare reale delle riparazioni di guerra, non poteva certo ignorare quali profitti le potenze vincitrici traessero dalle economie inesistenti della Repubblica di Weimar, ridotta poi a sopportare un'inflazione colossale, tanto che un solo francobollo poteva avere il valore in carta moneta di dieci milioni di marchi o giù di lì.

E se si tiene conto dell'interesse che Churchill aveva per i problemi esteri (quindi nei rapporti con la Francia) non si può non vedere la malafede con cui stigmatizzò il costo delle compensazioni postbelliche.

 

Nel 1930 parlò a proposito dell'atteggiamento da adottare nei confronti della nazione tedesca raccomandando che non venissero ignorate le giuste doglianze dei vinti e che si desse alla Germania una più giusta soddisfazione circa la frontiera orientale e infine di rivedere senza indugio le questioni di Danzica e della Transilvania.

«Nutro un enorme rispetto», dirà poi nel 1932, «per i tedeschi e desidero intensamente vivere con loro in termini di reciproca buona volontà e con rapporti fruttiferi per entrambe le parti. Ma devo far notare alla Camera che tutte le concessioni da noi fatte (e ne abbiamo fatte parecchie ed altre saremo disposti a fare) sono state immediatamente seguite da nuove richieste. Adesso si chiede che alla Germania venga permesso il riarmo. Non facciamoci illusioni. Non permettiamo che il governo si inganni credendo che quanto la Germania richiede sia uno stato di parità con le altre nazioni. Tutte quelle bande di giovani tedeschi che marciano avanti e indietro per la Germania con negli occhi il solo desiderio di servire la madrepatria, tutte quelle bande, dello stato di parità non sanno che farsene. Esse chiedono armi e quando le avranno avute, credetemi, richiederanno la restituzione dei territori ceduti e delle colonie; quando domanderanno tutto ciò, non potranno che scuotere e scuotere sin dalle fondamenta, ogni paese di questo mondo».

E nel 1934 disse, rincarando la dose:

«... mai come ora la Gran Bretagna si presenta debole e inadeguatamente indifesa...». Per poi subito aggiungere: «Quello che più mi sta a cuore è il riarmo della Germania. Il pericolo che noi corriamo di fronte a un attacco aereo è tremendo. Più pericoloso sarà un attacco con bombe incendiarie. (...) Se in futuro manterremo un'aviazione abbastanza forte per infliggere al nostro eventuale aggressore un danno non dissimile da quello recatoci, tutto ciò potrebbe tener lontano gli orrori che vi ho appena descritto. Se fosse così, che cosa rappresentano cento milioni di sterline raccolti mediante imposte o prestiti paragonati a un'immunità del genere? Mai prima d'ora si sarebbe potuto usufruire a così buon mercato di un senso di sicurezza così importante e valido. In quest'ora precisa dobbiamo mantenere a tutti i costi un'aviazione che per i prossimi dieci anni sia sostanzialmente più forte di quella tedesca. E comunque sarebbe un vero crimine nei confronti dello stato se, qualunque sia il governo in carica, questa aviazione si trovasse, anche per un solo mese, sostanzialmente in stato di inferiorità nei confronti della eventuale forza in possesso di quella nazione straniera. (...) Io dico che già adesso l'aviazione tedesca esiste, vale a dire che c'è già uno stormo con i necessari servizi di terra, riserve e materiale vario; questa aviazione è in attesa puramente di un ordine per riunirsi in prospettiva di un aperto e denso programma. E tutto ciò tende rapidamente a uguagliarla alla nostra stessa forza aerea. Se la Germania e l'Inghilterra continueranno i rispettivi preesistenti programmi, l'anno venturo, probabilmente a quest'epoca, l'aviazione tedesca sarà più forte o meno forte della nostra, ma potrebbe rivelarsi anche più potente. E alla fine del 1936 sarà certamente più forte di almeno il cinquanta per cento e nel 1937 sarà più del doppio. (...) La Germania possiede già ora fra i 200 e 300 apparecchi (...): adesso vengono impiegati per trasporti postali...».

Per concludere poi con una frase storica: «È molto meglio essere spaventati oggi che uccisi domani».

Sempre a proposito del riarmo tedesco, Churchill doveva poi aggiungere: «Io non credo che la guerra sia imminente o inevitabile, ma come è possibile voler continuare a ignorare che se noi non cominciamo sin d'ora a metterci in una situazione che assicuri la nostra sicurezza, ben presto non saremo più in grado di farlo? La Germania si riarma. Essa si è creata un armamento moderno ed instilla nel cuore dei suoi giovani e dei suoi uomini un nazionalismo esasperato, un ideale militarista. Dovesse scoppiare la guerra, la Gran Bretagna dovrebbe temere soprattutto gli attacchi aerei. I progressi tecnici hanno reso le bombe incendiarie sempre più terribili e potenti. Londra sarebbe un obiettivo facile da raggiungere. Le regioni industriali sarebbero prese di mira. La flotta stessa rimarrebbe paralizzata se le riserve di combustibile e gli arsenali venissero distrutti dalle fiamme. Misure di protezionismo s'impongono immediatamente. Occorre spostare verso l'ovest gli arsenali e le riserve. Ma la vera difesa consiste nel dare all'Inghilterra le stesse armi con le quali può essere offesa. Se noi riusciremo a mantenere in futuro una forza aerea sufficiente per infliggere al più potente aggressore possibile danni uguali a quelli che egli ci può arrecare, solamente allora il nostro paese potrà ritenersi al sicuro (...)».

Scrive a questo proposito il Moorehead:

«Il cupo tuonare di Churchill contro la crescente potenza della Germania non era molto popolare. Tutti gli inglesi tirarono un sospiro di sollievo quando il signor Baldwin fece rilevare che tutte le cifre di Churchill sull'aviazione nazista erano sbagliate. E quando sei mesi più tardi Baldwin ammise che era stato lui ad essere tratto in inganno, a nessuno venne in mente che Churchill aveva ragione. Anzi, tutti trovarono che Baldwin era stato davvero onesto nell'ammettere il suo errore. Per tutti questi anni Churchill rimase quasi solo nella campagna per il riarmo e né la marcia di Hitler sulla Renania, né la conquista di Mussolini dell'Abissinia e neppure l'avanzata giapponese in Manciuria e neanche l'annessione dell'Austria da parte dei nazisti, gli ottennero consensi e appoggi. Era, cominciato, è vero, un rafforzamento dell'esercito, ma era troppo limitato e frenato dal diffusissimo presentimento che i bombardamenti e i gas asfissianti sarebbero stati comunque la fine della civiltà».

Churchill era contro il riarmo della Germania e basta. In realtà, come adesso vedremo, le posizioni risultavano più sfumate a seconda se si trattasse di un discorso pronunciato in sede parlamentare o di chiacchiere fatte in sede privata.

Cominciamo dal problema della guerra abissina.

Esaminando la questione nel contesto delle operazioni belliche Churchill disse che mandare un esercito di quasi 250.000 uomini, come aveva fatto l'Italia, su una «sterile costa a 2000 miglia dalla patria, contro i pareri del mondo intero e senza la padronanza del mare, e dover quindi poi affrontare una serie di campagne contro tutto un popolo e in regioni che per quattromila anni nessun invasore ha considerato degne di essere conquistate, significava darsi in balia della sorte; un esempio mai registrato sin qui nella storia».

Questo il giudizio finale, conclusivo, sul quale sarebbe difficile non essere d'accordo. Se viceversa analizziamo la posizione di Churchill come se adoperassimo una moviola e vi facessimo scorrere le immagini pian piano, troviamo che la vicenda viene giudicata in maniera un po' diversa.

Nell'estate del 1935 un largo movimento dell'opinione pubblica aveva portato l'Inghilterra ad opporsi all'attacco italiano. L'11 di luglio Winston Churchill disse queste parole: «Sembriamo gli istigatori e capintesta dell'opinione pubblica europea contro le mire italiane sull'Abissinia. Si è persino detto che eravamo disposti ad agire individualmente e indipendentemente dalle altre nazioni. Sono lieto di apprendere dalla bocca stessa del segretario di stato degli affari esteri che queste voci sono senza fondamento».

In altre parole preferiva che la decisione di intervenire spettasse a Lavai e cioè alla Francia. Per quanto riguarda l'Inghilterra, il 25 agosto scriveva a Sir Samuel Hoare che in quei giorni era ministro degli esteri:

«Sono sicuro che eviterete il tragico errore di lasciare che la diplomazia corra più in fretta degli armamenti navali. La flotta mediterranea riunita ad Alessandria e in altri porti sembra oggi — almeno sulla carta e noi possiamo logicamente basarci su questi dati — molto più debole della flotta italiana. Ho fatto un raffronto fra gli incrociatori della Gran Bretagna e quelli dell'Italia dalla grande guerra a oggi; noi abbiamo soltanto metà degli incrociatori e delle torpediniere della flotta italiana e, per quanto concerne i sottomarini, la nostra situazione è ancora più debole; mi pare dunque che dovrebbero essere posti all'Ammiragliato dei quesiti ben precisi sulla posizione della flotta britannica nel Levante. Ciò che è stato fatto basterebbe per esporci a una serie di perdite, ma basterebbe per una valida difesa? I rinforzi inviati dalla Home Fleet e dalla flotta dell'Atlantico debbono percorrere più di tremila miglia marine. E prima di congiungersi alla flotta del Mediterraneo, nell'eventualità di un conflitto con l'Italia, molte cose possono accadere. (...) Ho sentito parlare recentemente di un piano d'evacuazione del Mediterraneo, nell'ipotesi di una guerra con l'Italia, piano in base al quale noi ci accontenteremmo di tenere Gibilterra e il Mar Rosso. La partenza della flotta del Mediterraneo per il Levante sarebbe uno dei primi elementi di tale manovra. Se è così, spero che si rifletterà seriamente prima di agire. Se abbandoniamo il Mediterraneo in periodo di guerra o di quasi ostilità con l'Italia, nulla impedirà al signor Mussolini di far sbarcare un forte contingente di truppe in Egitto e di impadronirsi del canale di Suez. Nulla salvo la Francia. Ma l'Ammiragliato è sicuro dell'atteggiamento che terrà la Francia in simile contingenza?».

A queste tesi Sir Samuel Hoare rispose dicendo che tutti i problemi sollevati erano ancora allo studio: «Comprendo in pieno l'importanza dei pericoli da voi enumerati e farò di tutto perché essi vengano relegati in soffitta».

Il 1° ottobre Churchill confermava il suo punto di vista in una lettera a Sir Austen Chamberlain:

«Resto convinto che non era nostro compito metterci a capo del movimento con tanta veemenza».

Un parere che verrà sfumato assai più tardi nelle memorie di guerra dove, infatti, dirà:

«Non v'è dubbio (...) che una decisione ardita avrebbe interrotto ogni comunicazione con l'Etiopia e noi saremmo riusciti vittoriosi da un'eventuale battaglia navale».

E adesso proviamo a vedere gli stessi avvenimenti sotto una luce un po' diversa. Prendiamo cioè le mosse dal momento in cui il Negus ricorse alla Società delle Nazioni mentre i rappresentanti fascisti abbandonavano l'aula. Vediamo il tutto nel contesto delle sanzioni economiche applicate all'Italia. Aggiungiamo che era uscita dal cappello di due autorevoli rappresentanti rispettivamente del governo francese e britannico — come in un gioco di prestigio — un'inusitata proposta. Infatti a un certo punto venne rivelata l'esistenza di un piano franco-britannico per lo smembramento del regno del Negus. Artefici di questo piano, Samuel Hoare e Pierre Lavai (quest'ultimo avrebbe poi ricoperto delle cariche nel seno dei governi di Vichy, quello sorto con l'appoggio tedesco).

Churchill fu uno dei primi a stigmatizzare l'evento:

«... in una situazione grave come questa non è possibile mantenere il comando in modo così dilettantesco. Due anni orsono il signor Baldwin ha detto che le sanzioni significano guerra. Poi ci ha portato alle stesse sanzioni ma con una decisione contraria alla guerra. Per quanto ne so io, il signor Mussolini ha reso noto che le sanzioni in base alle quali si colpiva il popolo italiano erano le sole che lui accettasse, mentre non tollerava nessuna restrizione economica volta a impedire di mettere le mani sull'Etiopia. Avrebbe considerato una sanzione di ordine economico capace di azzoppare il suo esercito d'invasione come una sanzione di tipo militare, vale a dire come un'ostilità, un atto di guerra. E mi sembra anche che la Società delle Nazioni abbia piegato il capo di fronte a questa situazione fin da principio».

Winston, non contento, rincarò la dose:

«... per esempio le esportazioni di alluminio verso l'Italia sono proibite; ma per uno strano caso questo è forse l'unico metallo di cui l'Italia abbia scorte sufficienti. Se invece le stesse sanzioni, quelle sul petrolio, fossero state imposte fin dall'inizio o anche in novembre, tutto ciò avrebbe avuto un effetto altamente deleterio sulle operazioni dell'esercito italiano...».

L'avventura etiopica dell'Italia fascista era stata incoraggiata dalle manifestazioni di debolezza dell'Inghilterra (così pensava Churchill), ma anche dall'atteggiamento ufficiale troppo cauto di cui aveva dato prova la Francia.

Scrive l'Allary:

«Il duce pensava, e con ragione, che il pericolo tedesco fosse ormai troppo noto perché Londra e Parigi osassero impegnarsi a fondo in favore di un membro secondario della Società delle Nazioni, quale il Negus, con il rischio di scoprirsi ancora di più di fronte al Reich. Si ricorse alle sanzioni, ma esse furono applicate senza renderle altamente efficaci. Il risultato fu quello di isolare l'Italia che dovette accodarsi alla Germania».

Quanto all'accordo Hoare-Laval, questo ebbe come conseguenza che Sir Samuel Hoare lasciò il ministero. Intanto il 9 maggio del 1936 l'annessione dell'Abissinia all'Italia era un fatto compiuto.

Le conclusioni cui era arrivato Winston Churchill ebbero poca influenza sul modo in cui venne liquidato questo problema, ma a tanti anni di distanza non hanno mutato il loro valore. Da notare che l'impresa abissina precedeva di soli due mesi l'inizio della guerra civile in Spagna con l'aperto appoggio dato ai ribelli antigovernativi dalle due potenze, Italia e Germania, che avevano così il modo di «collaudare» le proprie tecniche e le nuove armi.

 

 

Capitolo IX

GUARDATO CON SOSPETTO

 

Ne, 1936 moriva Giorgio V che, all'epoca in cui era stato duca di York, aveva sposato Victoria Mary, figlia del duca di Teck. Era salito al trono nel 1910. Proprio nel 1911 la Camera dei Lords aveva respinto un atto parlamentare che ne diminuiva il potere di veto e ne sminuiva la competenza in termini finanziari.

Giorgio V aveva allora minacciato di creare un buon numero di nuovi Lords tale da sminuire l'importanza dei troppo conservatori Lords in carica.

Finché Giorgio V era vivo, suo figlio, il principe di Galles, con tutta una serie di crociere aveva portato il messaggio pacifico della Gran Bretagna e dell'impero. Non appena divenuto re, con il nome di Edoardo VIII, aveva manifestato la propria volontà di sposare un'americana che per giunta aveva già due mariti e portava un cognome qualunque, Simpson.

Sorgeva un problema costituzionale: sarebbe stato possibile che un'americana con un tale passato venisse incoronata a Westminster come a suo tempo lo erano state la regina Mary o la regina Alessandra?

Il 3 dicembre 1936 Churchill parlò alle Camere a proposito del problema riguardante re Edoardo:

«... il paese deve capire qual è il problema istituzionale. Non esiste un conflitto tra il re e il Parlamento. Quest'ultimo non è stato mai consultato in qualche modo e non ha potuto esprimere il proprio pensiero.

«Il problema è di sapere se il re abdicherà su consiglio del ministro in carica. Nessun consiglio del genere è mai stato dato a un re nella storia parlamentare. Non sono sorti contrasti particolari fra il re e i suoi ministri su una qualsiasi misura da adottare. Non è questo il problema. Che su una base così ipotetica e problematica occorra domandare il supremo sacrificio dell'abdicazione e dell'eventuale esilio del sovrano, non trova nessun appoggio nella costituzione britannica (...) Il gabinetto non ha nessuna prerogativa per giudicare una materia come questa se non dopo aver conosciuto la volontà dello stesso Parlamento. Che cosa mai ha fatto il sovrano? Se il re rifiuta di ascoltare il consiglio dei suoi ministri, questi sono liberissimi di offrire le loro dimissioni. Non hanno alcun diritto di esercitare pressioni sulla sua persona perché accetti il loro giudizio (...) C'è poi un aspetto della vicenda del tutto personale e umano (...) e se si dovesse richiedere una rapida abdicazione, l'oltraggio così commesso emanerebbe la propria ombra nel futuro (...)».

Il 10 dicembre 1936 venne annunciata l'abdicazione del re che preferiva la moglie al trono. Churchill a questo proposito tenne un memorabile discorso in Parlamento:

«... in questo principe si scorgevano doti di coraggio, di semplicità, di simpatia e soprattutto di sincerità, doti preziose e rare che avrebbero potuto rendere glorioso il suo regno negli annali di questa antica monarchia. E il culmine del dramma è che queste virtù non abbiano portato ad altro che a una mesta e amara conclusione nella sfera privata. Ma sebbene le nostre speranze siano ormai svanite, voglio commentare che la sua personalità verrà ricordata con simpatia in futuro. Essa sarà viva particolarmente nelle case dei suoi cittadini più poveri e questi, dal profondo del cuore, augureranno che vi sia la pace e la felicità per lui e per tutti coloro che gli sono cari».

Dato che Churchill apparteneva a una delle più grandi famiglie d'Inghilterra, era ammesso nell'intimità della famiglia reale.

In un momento da lui giudicato di decadenza estrema, dove il sistema partitico non funzionava più come in passato, in un momento in cui un fachiro qualunque, come Churchill aveva definito Gandhi, metteva in subbuglio l'India intera, dove i ministri non dimostravano più l'energia di un tempo, si era venuto a creare il problema del matrimonio reale. Naturalmente il Parlamento aveva il compito di decidere sulla questione e Churchill si era abboccato con il sovrano senza riuscire a farlo desistere dal proposito di sposare la signora Simpson.

Questo atteggiamento di intransigenza del sovrano portò Churchill a chiedere al Parlamento un po' di pazienza, una pausa di riflessione. Pausa di riflessione che non ci fu, essendo il Parlamento concorde sul fatto che il re avrebbe dovuto abdicare.

Quando Edoardo VIII fece conoscere la sua intenzione di rinunciare al trono, Churchill piegò il capo e disse semplicemente queste parole:

«... il pericolo minaccia la nostra strada futura. Noi non possiamo permetterci né abbiamo il diritto di guardare indietro. È all'avvenire che dobbiamo volgere lo sguardo. Più siamo difensori del principio monarchico più dobbiamo agire senza indugio per rafforzare il trono e dare al successore di sua Maestà quella forza che sola può venire dall'amore di una nazione e di un Impero».

 

Intanto il governo di coalizione, che l'Allary definisce «un ibrido miscuglio d'acqua e di fuoco, d'acqua tiepida e fuoco senza calore», sembrava essersi consolidato per anni e anni anche se avrebbe subito dei rimaneggiamenti.

Questo perché erano ancora sul tappeto tutti gli strascichi lasciati dalla prima guerra mondiale. Le preoccupazioni di Churchill sul riarmo della Germania avevano visto, come è già stato anticipato, l'elettorato britannico indifferente, mentre per quel che riguarda la posizione di Churchill i suoi «trasformismi» l'avevano lasciato fuori del governo. Dal canto suo lo stesso Stanley Baldwin aveva assicurato che ogni possibilità che venisse scatenato un conflitto era piuttosto remota, tanto più che lo stesso Hitler al Reichstag era parso calmo e ragionevole.

Queste le parole di Hitler che sarebbero state ben presto smentite dai fatti:

«La Germania non seguirà altra via che quella indicata dai trattati di pace; essa non pensa ad invadere alcun paese».

Il 10 marzo 1936 Hitler fece penetrare le proprie truppe nella Renania demilitarizzata. In quel momento esistevano tutte le condizioni favorevoli a una risposta energica. E il ministro degli esteri francese, Flandin, corse a Londra per chiedere al governo inglese la mobilitazione simultanea delle forze di Francia e Gran Bretagna.

Churchill, che si recò a pranzo con l'ospite, non si mostrò molto disposto a un'azione di tal genere. E la posizione negativa dell'Inghilterra spingerà i francesi verso un negoziato piuttosto che all'azione.

Dirà a questo proposito lo stesso Churchill:

«Invece di usare la rappresaglia armata, come avrebbe fatto qualche anno fa, la Francia, ricorrendo alla Società delle Nazioni, ha seguito la condotta più opportuna».

Il parere di Flandin fu invece alquanto diverso e le sue parole appaiono anticipatrici di quello che effettivamente successe dopo:

«Se avrete una politica ferma, il mondo vi seguirà e potrete perciò evitare la guerra. È l'ultima occasione che vi si offre. Se non fermate adesso la Germania tutto sarà perduto. La Francia non può dare più a lungo garanzie alla Cecoslovacchia giacché tale garanzia fra poco sarà geograficamente impossibile. Se non farete rispettare il trattato di Locarno, non vi rimane che attendere il riarmo della Germania: contro di esso la Francia non può più nulla. Se non fermate oggi la Germania con la forza, la guerra sarà inevitabile...».

Prima che il sovrano abdicasse, la Francia aveva protestato presso la Società delle Nazioni, decisione che aveva rallegrato Churchill e gli aveva fatto dire che si trattava di una mossa ragionevole.

Era dunque la migliore linea di condotta che si potesse tenere in quel momento, ma non bisognava dimenticare che la Germania era retta da una «banda di avventurieri in tripudio»; sarebbe quindi occorso un rafforzamento della Società delle Nazioni.

Churchill parlava però di una posizione che allora era piuttosto debole, essendo stata inficiata dal comportamento tenuto nel difendere troppo da vicino gli interessi di Edoardo VIII. Ciononostante i suoi discorsi che piovvero sul Parlamento erano discorsi provati allo specchio (come faceva anche Hitler), imparati a memoria, minuziosamente studiati, ricchi di frasi che colpivano nel segno.

Churchill mantenne quindi strette relazioni con la Francia, annodò rapporti con le personalità e gli uomini più manifestamente anti-tedeschi, anzi la sua francofilia raggiunse il culmine e fece conto anche sull'Unione Sovietica accettando senza batter ciglio le «purghe» staliniane.

«Non è certo il caso», scrisse, «di versare delle lacrime sulla vecchia guardia bolscevica».

Niente lacrime per «i pionieri della marcia sinistra che il compagno Stalin ha mandato a morte».

La Russia per Churchill stava andando a destra, era stato dimenticato il tema della rivoluzione mondiale in favore di quello nazionalista, del dispotismo tradizionale e personale.

Sempre del 1936 sono queste parole churchilliane:

«Se i capi dell'esercito e della politica russa abbattessero e sradicassero il Komintern! Essi apparirebbero all'Europa come uomini di uno stato socialista e sovietico potentemente armato per mantenere la propria indipendenza. Ma con la sola intenzione di diffondere le proprie teorie all'estero mediante l'esempio. In questo senso e in tal modo costringerebbero la Germania e il Giappone a rivelare i loro obiettivi».

Si trattava di una proposta di accordo anche qui: passava la teoria, non poteva passare la politica sovvertitrice del sistema.

Altro settore delicato era quello delle relazioni con i paesi affacciati sul Mediterraneo. Delicatissima la posizione della Spagna che Churchill avrebbe voluto vedere in mano a una monarchia moderata. Personalmente era stato uno strenuo avversario del non intervento anche se vedeva, nelle potenze che aiutavano l'uno o l'altro dei fronti, delle cupe ingerenze.

Meno chiara era la posizione dell'Italia nella quale il governo era pur sempre la monarchia anche se la politica sembrava farla Mussolini.

C'era poi l'enigma statunitense. In caso di difficoltà, in Europa sarebbero intervenute truppe degli Stati Uniti? (Churchill, se non altro per l'ascendente materno, aveva per gli Stati Uniti una particolare predilezione).

L'interrogativo per Churchill era in quell'anno puramente retorico, dato che pensava che gli Stati Uniti non avessero intenzione alcuna di immischiarsi nelle vicende europee.

La Gran Bretagna, anche se non direttamente coinvolta negli avvenimenti, aveva tuttavia perso egualmente la capacità di porsi come potenza di primaria grandezza, in grado di estendere la sua influenza sul resto d'Europa.

Winston Churchill, come sua abitudine, non aveva fatto a meno di segnalare di volta in volta gli errori e le debolezze del governo. In altre parole la situazione del 1936 non era affatto rosea e neppure rassicurante.

L'ormai maturo statista era tuttavia diventato, pur non ricoprendo più alcun incarico, l'uomo più importante di Westminster. A 62 anni continuava a lanciare i suoi strali nelle varie direzioni. Era un'impulsività che gli amici non approvavano e che i suoi avversari definivano pericolosa. Diventò primo ministro all'età di 65 anni.

Dieci anni dopo il celebre sciopero generale del 1926, era sempre guardato con sospetto dai laburisti. Ma era anche guardato male da diversi membri del Parlamento. Specialmente le sue «filippiche» sulla Germania avevano attirato su di lui le critiche di Goebbels che lo aveva definito uno dei nemici più implacabili e alcuni membri del Parlamento britannico erano dello stesso avviso.

«Uno dei nostri interessi essenziali», aveva detto Churchill, «è riposto nell'esistenza di una Germania soddisfatta e prospera, e il desiderio del governo e della nazione britannica è quello di lavorare a fianco della Germania come con la Francia e con le grandi potenze per il bene e la sicurezza reciproca».

Quello che Churchill non poteva tollerare era la politica bellicosa del Terzo Reich.

Durante l'occupazione della Renania, aveva detto: «Hitler e la grande Germania inconsolabile che egli guida, hanno ora un'occasione per mettersi all'avanguardia della civiltà con una fiera e volontaria sottomissione, non alla volontà di un paese o di un gruppo di paesi, ma al carattere sacro dei trattati e all'autorità di diritto pubblico. Con l'evacuazione immediata della Renania, essi possono schiudere un'era nuova a tutta l'umanità e creare condizioni nelle quali il genio tedesco potrà raggiungere la gloria più grande. Io mi auguro», concludeva, «che il Fùhrer della Germania divenga il Fùhrer della pace».

Segni di debolezza dimostravano poi nazioni come il Belgio e l'Olanda e in genere tutti i paesi con i territori limitati.

Mancava inoltre un fronte comune che riunisse, non soltanto sui banchi della Società delle Nazioni, i piccoli paesi in un fronte comune contro l'avanzata delle due dittature più pericolose per l'Europa, e cioè la Germania e, in tono minore, l'Italia.

C'è da aggiungere che erano più esposti proprio quei paesi, come il Belgio e l'Olanda, che avevano grandi colonie specie in Africa.

 

Nell'ottobre del 1937 era stata suggerita a Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti, una riunione di tutti i rappresentanti diplomatici a Washington. Nel contesto della riunione sarebbero stati esaminati i problemi del disarmo, della morale internazionale e della stabilità economica.

Il segretario di stato americano, Cordell Hull, aveva sulle prime contestato questa proposta. Per lui un incontro del genere sarebbe stato negativo, era, in altri termini, una cosa illogica e impossibile; essa infatti avrebbe avuto l'effetto di indurre al disarmo le varie potenze infondendo in loro un falso sentimento di sicurezza e inducendole a fare il gioco delle potenze dell'Asse.

Piuttosto ci si poteva limitare a indire a Washington una riunione di tutti i rappresentanti politici che sarebbero stati convocati nell'anniversario dell'armistizio e cioè l'11 gennaio 1938.

La tesi, immediatamente accolta da Roosevelt, fece sì che Cordell Hull si recasse all'ambasciata della Gran Bretagna con un messaggio confidenziale del presidente per Chamberlain.

Si voleva, questo era detto nella proposta, indire una conferenza della pace a Washington, ma si intendeva sapere in anticipo che cosa ne pensasse la Gran Bretagna.

Churchill, parlando proprio di questa proposta, ebbe a dire: «Un passo importante, le cui conseguenze avrebbero potuto essere immense».

Chamberlain non fu dello stesso parere per cui Winston disse che, così facendo, si era persa «l'ultima e fragile opportunità per salvare il mondo dalla tirannia senza ricorrere alla guerra».

Il 14 marzo 1938 l'annessione della repubblica austriaca alla Germania hitleriana fece letteralmente esplodere Churchill, il quale esclamò che la gravità dell'avvenimento non doveva essere sottovalutata: era la fine del trattato di Versailles, lo spezzarsi dell'equilibrio europeo.

Il governo inglese — sottolineava Churchill — doveva adesso scegliere tra una supina accettazione e un ricorso immediato a misure atte ad affrontare il pericolo.

Tre giorni dopo, e cioè il 17, il russo Litvinov inviò al governo inglese, a quello francese e a quello statunitense, una dichiarazione secondo la quale il governo sovietico si diceva disposto a partecipare a un'azione collettiva per fermare l'ulteriore sviluppo dell'espansionismo nazista, verificando anche le possibilità pratiche dettate dalle circostanze.

Il momento — continuava Litvinov — era favorevole sempreché le grandi potenze avessero adottato un atteggiamento fermo e non equivoco di fronte a problemi che andavano affrontati per garantire la pace.

L'8 maggio 1938, Churchill aveva detto:

«Nell'Europa orientale si trova l'enorme potenza della Russia, paese in cui detesto la forma di governo ma che comunque non cerca di aggredire, armi alla mano, i suoi vicini».

Peccato che queste proposte di incontri ai fini della pace dovessero essere smentiti nel 1939 dall'invasione da parte sovietica della Finlandia e della Polonia.

Il 23 giugno 1938 ancora Litvinov aveva accusato le potenze occidentali di non essere abbastanza ostili all'espansionismo tedesco e di rimanere passive, incoraggiando così i tedeschi nella loro politica aggressiva.

Ad ogni modo, nel settembre dello stesso anno, fu esaminata la possibilità che aerei sovietici potessero sorvolare la Romania; dal canto loro i romeni avrebbero dovuto chiudere un occhio per quel che succedeva sopra i 3000 metri.

La situazione diverrà seria dopo l'annessione dei Sudeti. Questa mossa verrà compiuta da Hitler il 28 settembre.

Per il momento — e siamo al 9 di settembre — l'ambasciatore statunitense Bullitt aveva fatto una dichiarazione interventista, subito sconfessata dallo stesso presidente Roosevelt il quale disse:

«... includere gli Stati Uniti in un fronte Francia-Gran Bretagna contro Hitler è un'interpretazione dei cronisti politici falsa al cento per cento».

Pochi giorni più tardi, poi, e precisamente il 15 settembre, parlando con il segretario al tesoro Morgenthau, aveva detto:

«... occorrerebbe avvertire la Gran Bretagna, raccomandando poi alla Francia di non attaccare in caso di guerra, ma di restare dietro la linea Maginot limitandosi a una posizione difensiva: se gli alleati volessero attaccare la Germania, non avrebbero che quaranta possibilità su cento di riuscita».

Era un chiaro ammettere la posizione neutralista degli Stati Uniti.

Un panorama analogo si aveva, in quei giorni di settembre, in Gran Bretagna.

Churchill in una conferenza stampa data a Leeper (che verrà sconfessata poche ore dopo dal ministro degli esteri), aveva detto:

«Se, nonostante tutti gli sforzi fatti dal primo ministro britannico, vi sarà un'aggressione tedesca nei confronti della Cecoslovacchia, la Francia avrà il preciso compito di accorrere in aiuto dello stato invaso e si può star certi», concludeva, «che la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica saranno certamente al fianco della Francia».

Intanto l'11 settembre il romeno Comnene diceva, parlando a Ginevra con il russo Litvinov, che la Romania avrebbe potuto rendere più efficienti le comunicazioni ferroviarie e le strade tra la frontiera russa e quella cecoslovacca, facendo però presente al francese Bonnet che sarebbero occorsi almeno venti giorni per trasportare una divisione russa alla frontiera ceca.

Per Churchill, invece, il problema non sussisteva. Aveva in effetti detto:

«Due ferrovie uniscono la Russia e la Cecoslovacchia attraverso i Carpazi; l'una a nord parte da Czernovitz e traversa la Bucovina; l'altra a sud attraversa l'Ungheria passando per Bucarest e Budapest. Queste due linee basteranno al trasporto di venti divisioni russe».

In realtà però entrambi i paesi non erano favorevoli al progetto. L'offerta di Litvinov veniva quindi ad avere un carattere puramente simbolico. L'Unione Sovietica, poi, era ancora impreparata a una situazione di conflitto e in quei giorni avrebbe preferito che fossero le sole potenze occidentali ad opporsi alle pretese della Germania.

Proprio in quello stesso 11 settembre l'ambasciatore romeno Comnene — cambiando le carte in tavola — aveva dichiarato al francese Georges Bonnet che il governo romeno non avrebbe mai autorizzato il passaggio di truppe russe sul proprio territorio nemmeno dietro un pressante invito della Società delle Nazioni.

Litvinov non si diede per vinto e ancora il 21 settembre parlò in favore della Società delle Nazioni invitando Francia e Cecoslovacchia a una conferenza comune alla quale le autorità militari russe erano pronte a partecipare.

L'incubo tedesco trovava conferma nelle cifre che il Foreign Office continuava a fornire.

Winston Churchill non faceva che rammentare agli altri quanto aveva detto il Fùhrer della Germania: Hitler aveva esplicitamente affermato che le frontiere del Reich erano cambiate spesso e che sarebbero ulteriormente cambiate sino al momento in cui tutti i popoli di lingua tedesca non fossero riuniti.

Tutte le spese per l'armamento tedesco ogni anno subivano un incremento sostanziale rispetto all'anno precedente. Troppi avvenimenti poi succedevano perché non si dovesse essere allarmati. E il ricordo di alcuni di essi era troppo bruciante perché non si pensasse che un riarmo o un potenziamento delle forze in campo si rendesse quanto mai necessario.

Quando Sir John Simons si era recato a Berlino, era tornato senza alcuna garanzia che i moniti di Londra venissero ascoltati, anzi.

Churchill aveva difeso la causa prima: gli interessi della collettività.

«Una simile politica» aveva detto, «non avrebbe chiuso la porta alla revisione dei trattati ma avrebbe dato un senso di stabilità e permesso la necessaria unione di tutte le potenze ragionevoli nel loro stesso interesse prima di iniziare la revisione».

Quando l'Italia mussoliniana aveva dato il via all'occupazione dell'Etiopia, l'atteggiamento di Francia e Inghilterra non era stato certo all'altezza della situazione, al contrario era stata fornita una prova di indubbia debolezza. Lo stesso ricorso alle sanzioni si era rivelato inefficace.

Winston Churchill, che aveva lanciato un suo monito a Mussolini, monito scritto dal Carlton Club, era destinato a rimanere inascoltato; la colpa dell'atteggiamento britannico non era solo sua.

«Io mi sono sforzato», aveva detto in quell'occasione, «di sostenere il governo e Baldwin nella loro politica nei confronti e della Società delle Nazioni e nei confronti dell'Abissinia. Ma mi è stato veramente difficile seguirla attraverso tutti i suoi sviluppi».

E quando il 9 maggio 1939 l'annessione dell'Abissinia era ormai un fatto compiuto, l'Inghilterra si era limitata a registrare l'avvenimento.

Se quindi Churchill aveva ragione o l'aveva avuta, voleva dire che la politica seguita dal Parlamento britannico andava rivista.

Per questo il responsabile della propaganda hitleriana, il dottor Goebbels, era da considerarsi il primo tra i nemici più implacabili della Gran Bretagna.

Allorché il 14 marzo 1938 era stata annessa l'Austria, come si è già detto, Churchill aveva dimostrato al Parlamento come con quell'atto la Germania si garantiva il controllo di tutte le strade, le ferrovie, tutti i corsi d'acqua dai quali dipendeva la coesione militare della Piccola Intesa, senza contare il controllo virtuale dell'Europa centrale e parzialmente dell'Europa sudorientale.

E Churchill scrisse:

«Se il dittatore nazionalsocialista avesse studiato la storia d'Inghilterra, egli si sarebbe accorto come in più di una occasione la nostra isola abbia perso il destro di successi militari in Europa per la sua profonda ripugnanza a immischiarsi nei conflitti continentali, ma avrebbe anche capito come essa abbia sempre trovato alla fine la via della vittoria.

«Basterebbe che leggesse gli avvenimenti degli ultimi due anni del regno di Guglielmo III e dei primi anni di quello della regina Anna per apprendere che, dopo essersi imprudentemente disinteressato del problema, il nostro paese abbia potuto, in una fase successiva e più difficile, avere in questa stessa questione una parte non solo di primo piano ma anche vittoriosa».

Se Churchill continuava a battere il chiodo del riarmo, dal canto suo Baldwin ammetteva implicitamente il proprio torto:

«Se io avessi detto ai Comuni che la Germania si stava riarmando e che noi dovevamo a nostra volta riarmarci, chi di voi avrebbe potuto immaginare che la nostra democrazia pacifista avrebbe risposto immediatamente a quel grido di allarme?

«Nulla avrebbe reso più certa la nostra sconfitta alle elezioni».

Quando poi il regime nazionalsocialista aveva compiuto il colpo di mano contro la Cecoslovacchia, Churchill aveva detto in favore del primo ministro britannico:

«In un momento come questo, ciascuno di noi deve aiutarlo nelle gravi responsabilità che egli deve reggere. Nessun primo ministro può avere oggi la capacità di guidare da solo gli affari dello stato. Tutto ciò che egli ha chiesto alla nazione, la nazione glielo ha dato e quando non ha chiesto ciò che a molti sembrava necessario, non è stato fatto nulla per obbligarlo alla richiesta. In Gran Bretagna non c'è mai stato il governo di un solo uomo. Neville Chamberlain ha preso tutto il peso su di sé; noi dobbiamo solamente sperare che egli sia pari al suo compito».

Churchill si sforzava di essere imparziale; se i risultati della sua osservazione lo portavano a tracciare un quadro oscuro della situazione, non era certo per allarmismo. Lo faceva sulla scorta di precisi dati di fatto.

Per lui Hitler era «il folle», mentre Mussolini veniva definito «lo sciacallo».

La Gran Bretagna, che avrebbe dovuto contenerne le ambizioni, era per il momento impreparata a farlo.

Quando nel 1936 le difficoltà in cui si dibatteva l'Inghilterra avevano scosso ampi settori dell'opinione pubblica, gli inglesi si erano mostrati critici nei confronti della politica francese; e Churchill aveva subito risposto dicendo che era quasi impossibile che il talento e la fiducia che avevano creato la grandeur della nazione fossero improvvisamente venuti meno.

Churchill aveva una strana fiducia nella Francia. Quasi come se fosse una certezza morale; disse infatti che l'esercito francese rappresentava quello che era la monarchia nell'Inghilterra. L'esercito francese, aggiungeva, sta sopra ogni partito, serve tutti i partiti, è rispettato da tutti i partiti indistintamente.

Quello che invece lo deludeva era il numero e la durata degli intrighi parlamentari, e particolarmente nel 1938 dimostrò la sua insofferenza per le diatribe che si susseguivano senza posa.

Temeva, e giustamente, che fosse una manifestazione di eccessiva leggerezza. Questo soprattutto dopo che il patto di Monaco aveva dimostrato la profonda debolezza delle democrazie occidentali.

Il 29 di settembre si ebbe una capitolazione vera e propria di fronte alle richieste hitleriane...

 

 

Capitolo X

GLI EQUIVOCI E LE DITTATURE

 

Nella panoramica dei vari anni che si sono rivelati come cruciali per le vicissitudini storiche, la palma spetterebbe senza dubbio al 1936, anno in cui Hitler fece entrare le sue truppe nella Renania smilitarizzata senza che nessuno avesse il coraggio di fermarlo.

A dire il vero potrebbe essere definito cruciale anche il 1935 quando Hitler ristabilì il servizio militare obbligatorio.

Ma decisivo per le sorti dell'Europa, per non dire del mondo intero, si rivelò il 1938 con la comparsa sulla scena del problema cecoslovacco. Da tempo si sapeva che Hitler ambiva a creare un allargamento del territorio del Reich che inglobasse le minoranze di lingua tedesca a est. Queste mire espansionistiche rappresentavano un vero incubo per le diplomazie dei paesi occidentali.

Già il 20 marzo 1938, subito dopo cioè l'annessione austriaca, Chamberlain aveva scritto alla sorella che dopo aver osservato attentamente la carta geografica e constatata l'impossibilità di venire in aiuto alla Cecoslovacchia, aveva abbandonato ogni idea di sostegno alla nazione ceca e l'illusione di poter aiutare la Francia che aveva degli stretti rapporti con Praga e un impegno di mutuo soccorso. Ma c'era di più.

Quando era stata esaminata da parte dei francesi la possibilità di portare aiuto alla Cecoslovacchia, il generale Vuillemin aveva sottolineato che in quel paese esistevano pochissimi campi d'aviazione, non più di una quarantina, che l'aviazione tedesca avrebbe presto potuto rendere inutilizzabili.

Questo pessimismo, questo sconforto venivano dall'implicito calcolo delle possibili forze in gioco e nessuno pensava in quel momento di poter far scendere in campo forze pari alle divisioni di Hitler (che presentavano una sola debolezza, quella di avere carri troppo leggeri e con blindatura troppo sottile).

Che cosa aveva finora rappresentato la Cecoslovacchia? Una ottima industria pesante, un'invidiabile capacità tecnica, organizzativa e militare e un composto mosaico di popolazioni: a quell'epoca vi erano sette milioni di cechi, tre milioni di slovacchi, settecentomila ungheresi, quattrocentomila ruteni, circa centomila polacchi e quasi tre milioni e mezzo di tedeschi sudeti. Su questi ultimi fece leva Hitler per la sua politica di annessione.

La Cecoslovacchia era un boccone prelibato, essendo essa al sesto posto della produzione di legname e per l'estensione delle sue foreste. C'erano le produzioni dell'acciaio e ferro (due milioni di tonnellate l'anno), poi zuccherifici (duecento, con produzione annua di 12.000.000 di tonnellate di greggio), vi era l'industria della birra (settecento fabbriche con tredici milioni di ettolitri), ecc. L'elenco potrebbe continuare a lungo, ma quello che soprattutto interessava i tedeschi era la produzione di armi, specie i carri armati (ne adottarono uno leggero, ribattezzato Hetzer), cannoni (che avevano dato prova d'efficienza nella prima guerra mondiale) e così via.

Nei Sudeti Hitler aveva da tempo l'uomo che serviva al caso suo: si chiamava Konrad Henlein, insegnante di ginnastica; dal 1935 ricevette fondi sottobanco da Berlino. Pochi fecero attenzione al fatto che era avvenuto un colloquio tra Henlein e Sir Robert Vansittart, colloquio che avvenne a Londra e dove Henlein sviluppò le tesi dettate da Berlino: a Londra Henlein dovette negare d'agire seguendo le direttive berlinesi, anzi fu costretto a parlare del progressivo disgregarsi della struttura ceca onde scoraggiare qualunque possibilità d'intervento considerata l'inutilità della cosa. L'intervento, s'intende, da parte inglese...

Come discorso diplomatico poteva andare. In Cecoslovacchia premevano per l'autonomia di Praga non solo gli slovacchi ma anche gli appartenenti alle minoranze magiare e polacche. Per non parlare della minoranza ebraica. Su questo mosaico di popoli risultava facile esercitare delle pressioni per creare un movimento centrifugo indebolendo il governo di Praga. La situazione preoccupava soprattutto Parigi per i legami e i reciproci impegni diplomatici. A seguire con trepidazione la vicenda diplomatica e le varie pressioni esercitate dalla diplomazia tedesca, era soprattutto il governo francese.

Il 13 settembre, alle ore 23, si era intanto avuta un'estenuante seduta del gabinetto francese che aveva portato a far pressioni su Chamberlain perché intervenisse a metter pace fra la Cecoslovacchia e la Germania.

Chamberlain inviò allora un messaggio così concepito:

«... considerata la sempre più critica situazione, propongo di incontrarmi con voi in modo da pervenire a una soluzione pacifica. Sono disposto a venire anche per via aerea domani stesso. Prego volermi dire quando al più presto potrete ricevermi e indicare anche il luogo dell'incontro».

Chemberlain, stanco dopo sette ore di volo, arrivò all'aeroporto di Monaco il 15 settembre: era mezzogiorno.

Con un'auto scoperta venne portato alla stazione ferroviaria dove lo attendeva un treno speciale per Berchtesgaden. In questa località arrivò alle 16, sotto una pioggerellina insistente.

Su richiesta dell'ambasciatore inglese Henderson, il ministro degli esteri Ribbentrop venne escluso dalla conversazione e per rappresaglia si rifiutò di dare agli inglesi il verbale dell'incontro. Verbale redatto dall'interprete Schmidt. Tra l'altro nel corso della conversazione, Chamberlain si lasciò scappare una frase dove si leggeva la sua perplessità; disse infatti:

«... ma se il Fùhrer ha già deciso di ricorrere alla forza, per risolvere il problema dei Sudeti e non intende discuterne, come mai ha accettato che venissi qui? Mi sembra che stia perdendo solo tempo».

Di ritorno nella capitale britannica, Chamberlain non si consultò con i francesi.

Daladier, interpretando la volontà dei francesi, pensò che Hitler non si sarebbe accontentato del territorio dei Sudeti, ma avrebbe fatto richieste sempre più grandi. Daladier quindi chiese alla Gran Bretagna che quest'ultima fosse garante della futura integrità della Cecoslovacchia. Chamberlain, sia pure di malavoglia, acconsentì.

Ma per il presidente ceco Benes indire anche solo un plebiscito nel territorio sudeto avrebbe significato far saltare in aria l'intero stato. Che cosa avrebbero infatti detto i boemi, i russi subcarpatici e gli slovacchi?

Eppure Chamberlain non si rassegnò. A Berchtesgaden disse infatti: «Nonostante la durezza e la spietatezza che mi è parso di scorgere sul suo volto, ho avuto la netta impressione che Hitler sia un uomo di cui ci si possa fidare, una volta che abbia impegnato la propria parola».

Certo Chamberlain temeva soprattutto il cosiddetto «piano verde», un termine convenzionale impiegato per indicare un attacco di sorpresa contro la Cecoslovacchia. Da ricordare che il 22 aprile 1938, inoltre, l'aiutante di campo di Hitler aveva preparato un piano sul problema ceco diviso in tre parti: gli aspetti politici, quelli militari e la parte propagandistica.

Il 20 settembre 1938, Henlein aveva suggerito di incitare i sudditi slovacchi a porre ai cechi le medesime rivendicazioni che ponevano i Sudeti. Non solo: c'erano, come si è detto, le rivendicazioni polacche (la Polonia interverrà direttamente nello smembramento del territorio cecoslovacco): si trattava della minoranza linguistica del Teschen.

 

Nel settembre del 1938, a Mosca, fra i membri del corpo diplomatico, nessuno riteneva possibile un concreto aiuto alla Cecoslovacchia.

Era uno smacco per Churchill che il 26 settembre aveva emesso un comunicato in base al quale minacciava la Germania con un probabile intervento dell'Armata Rossa. Analoga comunicazione Churchill aveva fatto al ministero degli esteri. E questo in un momento in cui Hitler pensava già di scatenare la guerra totale, come appare da una sua conversazione avuta con Bormann nella quale disse che l'interesse comune sarebbe stato di prendere l'iniziativa bellica nel 1938 in luogo «di esservi costretto nel 1939».

Le discordi posizioni del Foreign Office britannico sul problema di un possibile intervento inglese in aiuto alla nazione ceca risultarono sterili argomentazioni di fronte al fatto che in Cecoslovacchia erano già stati adottati provvedimenti d'emergenza, come la mobilitazione parziale ordinata in una riunione straordinaria a palazzo Hradschin e presieduta dal presidente Benes.

Quasi contemporaneamente si ebbe un esodo di parte della popolazione ebraica che si spostava a est in cerca di una protezione dagli orrori di una guerra.

Hitler il giorno 27, alle ore sette di sera, dettò una lettera destinata a Chamberlain: nella lettera, si diceva, veniva lasciata a Chamberlain l'opportunità di continuare gli sforzi in vista di un ammorbidimento del punto di vista ceco. Questa lettera, telegrafata, arrivò a Londra alle 22,30.

Chamberlain decise allora il tutto per tutto e mandò a Benes un messaggio in forma di ultimatum: i tedeschi avevano intenzione di attaccare il territorio ceco l'indomani alle ore 14; si trattava quindi o di accettare le proposte tedesche o di lasciarsi travolgere dalle armate di Hitler.

Il giorno successivo, il 28, l'ambasciatore italiano Attolico si precipitò dal Fùhrer. Mussolini, richiesto da Chamberlain, aveva accettato di far da mediatore e di interporre la propria opera in favore della pace.

Il 29 settembre alle ore 12,30 il dittatore tedesco ricevette Chamberlain, Daladier, Mussolini. Chamberlain e Daladier diedero prova di tolleranza e di diplomazia. Mussolini dal canto suo, non fece altro che ripetere le istruzioni che gli avevano dato i tedeschi. Alla fine del colloquio l'occupazione tedesca del territorio dei Sudeti era rinviata al giorno 10 ottobre. (In realtà le truppe tedesche entreranno in Praga il 15 marzo 1939).

A partire da questa data le varie mosse si susseguirono sulla scacchiera con una logica implacabile.

Nessun avvenimento fu più casuale, arginabile.

La macchina militare nazionalsocialista continuò imperterrita nei suoi programmi.

Il 21 ottobre del 1938, infatti, Hitler emanò una direttiva che suonava press'a poco così:

«Occorre assicurare le frontiere tedesche e proteggerle contro attacchi di sorpresa effettuati dall'aviazione. È necessario liquidare ciò che rimane della Cecoslovacchia. Si deve occupare il territorio di Memel».

In un vano tentativo di giocare le ultime carte, il presidente ceco Hacha accordò alla Slovacchia una autonomia tale che più ampia di così non si sarebbe potuta desiderare.

Vennero pertanto creati un Parlamento e un governo autonomo a Bratislava, ma questo provvedimento, indebolendo dall'interno l'ultima resistenza dell'avversario, non fece che favorire i piani di Hitler.

 

A proposito dei fatti della nazione ceca, Churchill disse:

«Ogni cosa è finita. Nel silenzio, nel pianto e nell'abbandono la Cecoslovacchia divisa piomba nell'oscurità. Sotto qualunque aspetto lo si voglia guardare la Cecoslovacchia ha dovuto soffrire grazie alla sua associazione con le democrazie occidentali e con la Società delle Nazioni (...) Tutto ciò è la spaventevole conseguenza di quanto abbiamo fatto e di quanto abbiamo lasciato d'incompiuto negli ultimi cinque anni.

«Cinque anni di inutili, buone intenzioni; cinque anni di accurata ricerca per la linea politica che offrisse la resistenza minore. Sono stati cinque anni di retrocessione, cinque anni nei quali abbiamo trascurato la nostra aviazione. Mi sono alzato per esporre i fatti che denotano un'improvvisata organizzazione per la quale Francia e Gran Bretagna dovranno pagare il fio».

Churchill fece una breve carrellata all'indietro e si richiamò a quello che era stato detto nella medesima aula a proposito della presa del potere da parte di Hitler.

Si erano lasciate, senza coglierle, innumerevoli occasioni per arrestare lo sviluppo della nazione nazista, si erano perdute preziose opportunità: quando si pensa a ciò che è successo, non si può non rammaricarci di ciò che è senza paragoni in tutta la storia. Non si era riusciti a impedire il riarmo della Germania, non si era sufficientemente provveduto a un tempestivo riarmo della nazione inglese; si era litigato con l'Italia senza riuscire a salvare l'Etiopia. Si erano lasciate cadere nel più balordo dei modi le sanzioni della Società delle Nazioni gettando anzi nel discredito l'istituzione stessa.

Si era trascurato di stringere alleanze e le occasioni politiche non erano state convenientemente colte. Per non parlare delle trenta divisioni cecoslovacche che avrebbero potuto essere di aiuto nella politica di contenimento dell'espansionismo nazista.

Ne conseguì che l'unica prospettiva possibile era quella di procedere a un riarmo che non trovasse paragoni nella storia. Quello che si stava portando alle labbra era solo un amaro calice al quale si sarebbe dovuto bere anno dopo anno a meno che non ci fosse stata una «suprema ripresa».

Inoltre anche sotto il profilo delle linee difensive la Cecoslovacchia si presentava debole avendo le fortificazioni verso la frontiera tedesca, ma presentandosi sguarnita dalla parte austriaca, e questo, dopo l'annessione dell'Austria alla Germania, veniva a essere come un vero e proprio tallone d'Achille.

Ancora più preoccupante era la situazione della Francia, essendo la linea Maginot volta verso la Germania ma facilmente aggirabile dal Belgio quando quest'ultimo territorio fosse stato invaso.

Inoltre pesavano sulla Francia le occasioni perdute. Nel marzo 1936, come fa notare giustamente Paul Reynaud, la Francia aveva perso l'unica occasione di sbarrare il cammino a Hitler. L'aver considerato con aria passiva l'occupazione militare della Renania, rappresentava l'atto più «criminoso» della sua storia. E altrettanto maldestra era stata la posizione di Winston Churchill; più tardi lo stesso Churchill riconoscerà che la rioccupazione della Renania era stata la mossa più audace di Hitler, questo perché a quel tempo, a soli tre anni dalla presa del potere, non aveva ancora fatto raggiungere alla Germania quel grado di mobilitazione bellica necessario per un'impresa di tal genere...

Chi invece vedeva chiaro era lo stesso Hitler. Difatti disse che «se Churchill avesse dovuto mai un giorno prendere le redini della Gran Bretagna al posto di Chamberlain, il suo obiettivo sarebbe stato quello di scatenare una guerra mondiale contro la Germania. Non ne faceva mistero: un grande impero sarebbe stato distrutto e Churchill pensava che l'impero in questione fosse la Germania».

Questo perché Churchill aveva detto che esisteva una generazione d'inglesi pronta a dimostrare di essere degna di grandi uomini padri della patria e disposta a combattere per salvare il mondo dalla peste della tirannia nazista. Il fine era la guerra che sarebbe stata la dimostrazione delle capacità di riscatto dell'uomo. Che i tedeschi non sottovalutassero Churchill appare chiaro da questo fatto: quando la nave Athenia venne affondata da un attacco sottomarino al largo delle coste irlandesi, i tedeschi dissero che il piroscafo di linea era stato affondato da un sottomarino britannico «per ordine del signor Churchill». Sempre Churchill disse che il mondo intero si stava sollevando contro Hitler e l'hitlerismo; uomini di ogni razza e di ogni colore, uomini di tutte le regioni della terra s'accorgevano che la macchina del partito nazista era piena di corruzione e di criminalità. Era una mostruosa apparizione: «La rovina finale di questo triste potere avrebbe aperto la strada a una più ampia solidarietà tra gli uomini d'ogni paese del mondo»; erano forse le parole più acconce per descrivere la natura del potere che si era impadronito della nazione tedesca.

Quanto all'opinione pubblica britannica, essa era divisa: da un lato si voleva la neutralità e si temeva la guerra, dall'altro ci si rendeva conto che i continui cedimenti di Chamberlain non erano fatti per durare a lungo e si guardava con sospetto all'azione dei vari Attlee, Eden, Halifax, Sinclair, ecc., che si concedevano sterili diatribe parlamentari quando ai confini della Germania si addensavano le divisioni pronte a marciare dietro un semplice ordine, dietro un «via» lanciato dalla cancelleria del Reich. Il riarmo tedesco non era certo un bluff. Se agli occhi dell'uomo della strada, Churchill, per ora ancora escluso dall'azione, era la persona da chiamare alla direzione del governo, d'altro canto rimaneva ancora l'ostacolo rappresentato da Chamberlain. Quest'ultimo, in un discorso al Parlamento, aveva detto che gli ultimi giorni erano tristi per tutti e personalmente si sentiva l'uomo più afflitto della Gran Bretagna: «Non posso prevedere quale ruolo dovrò ricoprire» aveva detto, «ma spero di vivere fino a vedere la sconfitta della tirannide nazista».

Dalla Germania intanto veniva la propaganda del signor Goebbels:

«Da anni ormai Churchill non dipinge più paesaggi ma quadri del pericolo germanico. Egli è il capo dei nemici implacabili della Germania e dell'intera gioventù tedesca. Se in un certo senso è meno pericoloso di quegli uomini odiosi che tirano nell'ombra le fila dei servizi segreti, pure ha delle crisi di bile che non vanno prese troppo alla leggera. La sua disponibilità a muovere delle accuse insostenibili, a raccontare storie degne del barone di Munchhausen e ad accendere polemiche, risale probabilmente all'epoca in cui scriveva per il "Daily Telegraph"».

Per Churchill — sosteneva la propaganda nazionalsocialista — il regime hitleriano andava distrutto con la collaborazione delle forze ad esso ostili che vi sarebbero state in Germania; in Germania, diceva Hitler, queste forze non esistevano, c'era invece una direzione nazionalsocialista e le forze armate.

Per Hitler poi, Churchill rappresentava un avversario da allontanare dalla scena politica. Doveva infatti dire:

«Non posso impedire il caso che quest'uomo nel giro di un paio d'anni entri nel governo inglese, ma posso darvi l'assicurazione che gli impedirò di causare la rovina della Germania. Fino a quando le nazioni democratiche parlano di disarmo ma lasciano che i guerrafondai facciano il loro lavoro, ritengo che sia loro desiderio quello di rubarci le nostre armi e di rovesciare addosso a noi il nostro fato del 1918».

Che cosa aveva voluto dire Hitler? Semplicemente questo: i politici inglesi parlavano di disarmo ma in realtà fomentavano la guerra nella speranza di annientare ancora una volta la Germania come avevano fatto nel 1918. Proprio su questo punto, Hitler pronunciò una frase sintomatica: «Possiamo dire al signor Churchill che ciò è successo una volta sola, ma non si ripeterà mai più».

Le persone come Churchill, continuava Hitler, non dovevano mettere il naso nei problemi interni tedeschi, non dovevano ergersi nemmeno a paladini della democrazia e non avevano né il diritto né la competenza necessaria per preconizzare alla nazione tedesca un futuro di disfatta com'era successo nella prima guerra mondiale.

Se Churchill non aveva il diritto di parlare di democrazia, per lo meno gli si deve riconoscere una sorta di preveggenza di quel che sarebbe accaduto nei giorni a venire. Sapeva benissimo che la popolazione civile tedesca era contro la guerra e, sebbene egli incarnasse il partito dei falchi, dell'intervento e della belligeranza, sapeva che la nazione inglese era dalla sua parte.

Churchill aveva dietro di sé uomini come Anthony Eden i quali preferivano rassegnare le dimissioni piuttosto che apparire dei pacifisti ad oltranza. Infatti Eden si dimise da ministro degli esteri piuttosto che sostenere le posizioni di Chamberlain. (C'è una famosa frase che Chamberlain rivolse a Eden: «Vada a casa e si prenda un'aspirina»).

Che queste divergenze fossero profonde è dimostrato dal fatto che a Eden era seguito Halifax, il quale era del parere di dare via libera a Hitler e ai suoi desideri di cercare uno spazio vitale per il popolo tedesco all'est in cambio di accordi di pace con l'ovest. Si voleva cioè vedere lontana dalle frontiere occidentali la macchina da guerra nazista.

Per fare aprire gli occhi ai sostenitori della pace ad oltranza, Churchill arrivò a ingigantire, anche come cifre sulla carta, l'efficienza delle divisioni tedesche, le uniche, per la verità, che fossero davvero preparate e dotate di mezzi per condurre un'offensiva su larga scala.

In effetti il domani dimostrerà come la Germania nazista si vide battuta dal suo stesso comportamento, con l'essere in guerra cioè sia ad est come ad ovest, al nord come al sud. La realtà del 1945 sarà quella di un gigantesco espandersi a est dell'influenza Sovietica e ad ovest dell'influenza statunitense, un ben magro risultato per nazioni come la Gran Bretagna che vedrà i dominions sfuggire dalla sua influenza e che perderà il ruolo di grande potenza.

La V di Churchill con le dita alzate sarà quindi convertita in O: il simbolo della vittoria renderà nullo il risultato finale.

 

In Gran Bretagna intanto era cominciata, sia pure al rallentatore, la corsa al riarmo. Le cifre parlano chiaro: nel settembre 1938 le sole squadriglie da caccia realmente moderne erano cinque; nel 1939 saranno 26; nel 1940, quando la nazione era già in guerra, ne avremo 47. Nel solo mese di agosto 1940 usciranno dalle fabbriche ben 476 caccia.

Sei mesi dopo gli incontri di Monaco, arriveranno ai campi d'aviazione britannici i nuovissimi Hurricane, aerei perfettamente in grado di tener testa ai caccia tedeschi. Questa corsa al riarmo era lontana dal soddisfare le pretese di Churchill.

Come è scritto nel libro Churchill by his contemporaries, Sir Ian Jacon dice: «L'atteggiamento di Churchill era quello di richiedere l'azione soprattutto, mentre il Parlamento sembrava poco propenso a seguirlo. Per Churchill la prima cosa da farsi era di continuare il riarmo della marina e dell'aeronautica».

Ma l'incontro di Monaco era servito ad avere del tempo prezioso per le industrie: i pochi mesi di tregua ottenuti da Chamberlain permisero all'industria britannica di lavorare a pieno ritmo e di mettere in cantiere le realizzazioni di nuovi progetti.

Da osservare un dato piuttosto singolare: i laburisti si accanirono contro Chamberlain; e questo a dispetto delle affermazioni pacifiste da loro sempre sostenute. Anche loro erano divenuti sostenitori di una politica meno morbida nei confronti della Germania.

Ecco dunque che veniva ritrovata un'unanimità per richiedere quelli che Churchill aveva definito con un termine arcaico e desueto: feat of arms, cioè dei fatti d'arme.

La Gran Bretagna incominciava ad essere preparata per un nuovo conflitto. Eppure, come abbiamo già detto, all'indomani della guerra il vincitore morirà per le proprie ferite.

Se Lord Halifax aveva detto di ritenere non pericoloso per la nazione inglese un balzo a est dei tedeschi, la guerra scoppierà proprio per frenare questo balzo.

Le cifre dello scotto pagato dalle nazioni coinvolte saranno le seguenti: 20.000.000 di russi morti, 400.000 inglesi messi fuori combattimento, senza contare le perdite dei dominions; a fronte di 100.000 cechi morirono 6.000.000 e mezzo di polacchi, cifre che lo storico A.J.P. Taylor commentò così:

«Sono contento che la Germania sia stata battuta e Hitler annientato, ma conosco il prezzo che gli altri hanno pagato per questo e dico che hanno ragione coloro che hanno definito questo prezzo troppo elevato».

All'indomani di Monaco i pareri che circolavano in Gran Bretagna riflettevano le tesi dei due uomini di stato: Churchill e Chamberlain. Il primo aveva detto: «Stiamo per affrontare una gravissima minaccia che coinvolge Gran Bretagna e Francia». Chamberlain invece, il 10 marzo 1939, aveva fatto questa osservazione: «L'orizzonte internazionale è tranquillo».

Dieci giorni dopo questa frase di Chamberlain, i tedeschi entravano in Praga.

Invano Chamberlain griderà al tradimento. Aveva pensato che la pace non sarebbe stata turbata e adesso non aveva che una volontà, quella di mantenere questa pace ad ogni prezzo.

Nel marzo 1939 Chamberlain garantiva alla Polonia la sicurezza.

In maggio fu firmato un patto anglo-turco e il 23 dello stesso mese gli inglesi presentarono delle proposte ufficiali a Mosca.

I dirigenti sovietici però presero tempo e i contatti continuarono fino al mese di agosto. Ovviamente gli inglesi premevano sui sovietici per trarli dalla loro parte ed evitare altre intese pericolose.

Le informazioni che venivano al ministero degli esteri britannico non erano certo confortanti: le divisioni tedesche premevano al confine polacco e Chamberlain si preoccupava per le sorti della Polonia. Purtroppo non era più tempo di semplici preoccupazioni. Stavano per essere firmati accordi ben più importanti e deleteri per le potenze occidentali. Il 23 agosto 1939 nella stanza di lavoro del russo Molotov si incontrarono attorno a un tavolo alcuni signori, due dei quali erano Ribbentrop e il conte Schulenburg. Gli altri erano Molotov e Stalin in persona. Venivano siglati degli accordi in omaggio all'amicizia tedesco-sovietica. Poco dopo la firma Ribbentrop chiese se non ci fosse nulla in contrario a fare entrare il fotografo ufficiale di Hitler per immortalare l'incontro.

Stalin, che teneva una coppa di champagne in mano, fece un breve cenno di assenso. Il fotografo ritrasse dapprima Molotov con i suoi occhiali a pincenez, a fianco del quale stava un sorridente Ribbentrop. Quando si trattò di fotografare Stalin, egli sorridendo fece un cenno di diniego, come a significare che da parte tedesca c'era la possibilità di riprodurre quelle immagini, ma con la tacita intesa che la fotografia del dittatore sovietico non apparisse in nessun giornale o notiziario.

Si fece anche una tacita intesa per congedare le missioni militari inglesi e francesi.

All'indomani, a giustificazione di quell'intesa, Stalin disse:

«Siamo assolutamente convinti che firmando un'alleanza militare con la Francia e la Gran Bretagna, potremo costringere la Germania a rinunciare ai suoi progetti di aggressione nei confronti della Polonia. Noi potremmo pertanto impedire la guerra; ma in un'ipotesi come questa l'evoluzione politica andrebbe senza dubbio a nostro detrimento. D'altro canto se accettiamo l'offerta tedesca di un patto di non aggressione, il Reich ne approfitterà certamente per gettarsi sulla Polonia e questo attacco scatenerà automaticamente i governi occidentali. In tale prospettiva avremmo molte possibilità di tenerci fuori del conflitto e poter decidere a nostro piacimento il momento più favorevole per poter intervenire. È dunque in questa direzione che ci dobbiamo muovere. In altri termini, la nostra strada è già tracciata: dobbiamo accettare l'offerta tedesca e congedare la missione franco-inglese facendo naturalmente le più ampie scuse».

Le parole di Stalin erano chiare: una guerra fra il Reich e le potenze dell'Intesa non poteva che favorire gli interessi russi. Era pertanto essenziale che la guerra si prolungasse nel tempo il più possibile onde sfinire i due avversari.

«Per tutto questo periodo noi intensificheremo il lavoro politico nei paesi coinvolti in modo da poter passare all'azione alla fine delle ostilità».

Su questo problema Stalin interverrà ancora nell'agosto del 1941. In tale occasione, il giorno 21, ribadirà:

«Certa gente si sta domandando in qual modo il governo sovietico ha potuto firmare un patto di non aggressione con dei mostri, degli uomini senza fede come Ribbentrop e Hitler. Non ha forse la Russia commesso un enorme errore? Ebbene adesso io rispondo a queste obiezioni: non si tratta di un errore, perché un patto di non aggressione è un atto di pace».

Ricordiamo per inciso che l'Unione Sovietica verrà invasa dai tedeschi il 22 giugno 1941.

 

 

Capitolo XI

LA TRAGEDIA MONDIALE

 

Nell'ormai lontano novembre dell'anno 1937 Churchill aveva detto «la forza morale non può sostituire quella delle armi, ma è un assai grande corroborante».

Ora la Cecoslovacchia, dilaniata dai problemi delle etnie, era stata per i tedeschi meno forte moralmente di quello che sarà la Polonia. Per gli alleati non si trattava più, come nel 1936, di una semplice passeggiata militare ma di una vera guerra che aveva bisogno da parte delle truppe che sostenevano l'attacco di un morale assai elevato.

È questo il parere dello storico francese Maurice Baumont. Questo morale assai elevato era poi indispensabile alla nazione attaccata. Viceversa la Cecoslovacchia si sbriciolò come un biscotto e la Polonia, invasa senza preavviso, si vide divisa in due, a est dall'Unione Sovietica, a ovest dalla Germania.

Il 3 settembre, alle ore 11 del mattino, scadeva l'ultimatum britannico. Un quarto d'ora dopo questa scadenza, la guerra era ufficialmente dichiarata.

«È per noi un giorno triste», disse Chamberlain, «e per me più di chiunque altro. Tutto ciò che desideravo, tutto ciò che speravo, tutto ciò in cui ho creduto nella mia vita, è crollato».

A queste parole Churchill replicò:

«In quest'ora solenne è una consolazione ricordare gli sforzi che abbiamo compiuto per conservare la pace. Sono stati sfortunati, ma tutti leali e sinceri. Fuori l'uragano della guerra può soffiare e le pianure possono venire spazzate da questa furia, ma oggi, domenica, la pace è nei nostri cuori. Le nostre mani possono essere pronte ad agire. Le nostre coscienze sono tranquille. Il primo ministro ha detto che questo è un triste giorno; certamente, ma è anche con un sentimento di conforto che noi constatiamo come esista una generazione di inglesi pronti a fare la loro prova...».

Era l'ultimo discorso che Churchill faceva da deputato; a mezzogiorno il re riuniva un consiglio ristretto e Churchill, nominato primo Lord dell'Ammiragliato, faceva il suo giuramento nelle mani del sovrano. Così, all'età di 64 anni, Churchill riprendeva la direzione di quella marina che aveva approntato alla vigilia della guerra. Era lo stesso uomo che nel 1934 aveva detto che il compito precipuo era la conservazione della pace:

«Se sopra ogni cosa dobbiamo preservare la pace, qual è il nostro secondo obiettivo? È assicurare la libertà di scelta nazionale e rimanere in disparte in una guerra europea se essa dovesse scoppiare. Questo mi sembra il nostro scopo più immediato e pratico, scopo subordinato alla preservazione della pace ma non meno importante».

Due anni prima, parlando ai dirigenti britannici, aveva fatto questo discorso:

«... il dovere non consiste soltanto nel cercare di prevenire la guerra, ma nell'assicurarsi che noi non si venga trascinati in una guerra. E se soprattutto la guerra scoppiasse tra le altre potenze, nell'assicurarsi che il nostro paese e i dominions del re possano essere validamente difesi e siano in grado di preservare, se così vogliono, quella neutralità forte e inattaccabile da cui solo il cuore e la coscienza della nazione debbono allontanarci».

Ora quest'uomo, nel pomeriggio della stessa domenica, si installava nella stessa sedia che era stata la sua anni prima.

I conti sulla carta erano presto fatti: le due marine, quella francese e quella britannica avevano due milioni di tonnellaggio mentre la Germania non ne aveva che 250.000.

Il 4 settembre avveniva l'affondamento dell'Athenia che era in rotta verso il Canada. Affondamento che, come abbiamo già detto, veniva attribuito dai tedeschi allo stesso Churchill.

Era comunque il primo coinvolgimento di un'unità civile e disarmata nel conflitto. Da questo istante Churchill non mancò di comunicare in Parlamento le cifre sull'andamento della guerra.

Così annunciò con voce mesta l'affondamento della Royal Oak colpita dai tedeschi a Scapa Flow; poi poté annunciare anche delle vittorie, come quella sulla corazzata «tascabile» Graf Spee, e così via.

Questo affondamento fece dire a Churchill che «aveva riscaldato i cuori in un freddo e oscuro inverno».

Ma si era solo agli inizi della guerra e nessuno osava pensare quale sarebbe stata la realtà più avanti.

Infatti nell'aprile del 1940 Hitler invase la Danimarca e la Norvegia. Gli inglesi avevano mandato in Norvegia un corpo di spedizione che però giunse troppo tardi e dopo un solo mese di combattimento dovette ritirarsi.

Questo insuccesso determinò più tardi la caduta del governo Chamberlain.

I tedeschi avevano sottomesso i due paesi neutrali ma stavano per invadere anche l'Olanda: dai servizi informativi erano giunte, in effetti, brutte nuove. Di fronte ad esse il Parlamento britannico si spaccò in due: da un lato i socialisti e i liberali che mantenevano un atteggiamento critico, dall'altro i conservatori i quali si mostravano piuttosto freddi nei confronti del governo.

Un deputato (Leo Amery) arrivò a dire a Chamberlain che era venuto il momento in cui doveva ritirarsi; per dire ciò si valse delle stesse parole che aveva usato Cromwell («In nome di Dio andate!»). Ben presto dalle accuse per la politica di conciliazione seguita fin qui, si passò agli attacchi personali: il deputato Morrison accusò Chamberlain di cercare riparo dietro le spalle di Churchill. Lloyd George accusava Chamberlain di vedere le cose internazionali come un attacco personale e gli consigliava di fare l'unico atto di pubblica utilità, dare, insomma, le dimissioni.

Nel ribollire delle diatribe parlamentari, s'innalzò allora la voce di Churchill: era falsa la diceria che sosteneva come i generali fossero ardenti di combattere mentre il Parlamento nicchiava.

Il ritiro delle truppe dalla Norvegia era stato un'operazione sensata, permettendo di conservare forze assai valide senza perdite di naviglio ed aerei, quando la superiorità delle forze tedesche era schiacciante.

Ma era tardi: le parole non bastarono a evitare la caduta di Chamberlain che si era rivolto anche ai socialisti per formare un governo di coalizione nazionale.

Era ormai troppo tardi anche per la sfortunata Olanda: il 10 maggio i tedeschi l'invasero unitamente al Belgio e al Lussemburgo. Re Giorgio VI chiamò allora Winston Churchill a guidare un governo di coalizione. Il 13 maggio si espresse così:

«La sera di venerdì ho ricevuto da sua Maestà il compito di formare un nuovo governo. Era evidente la volontà e il desiderio del Parlamento e della nazione che questo governo godesse della più ampia base possibile e che dovesse comprendere tutti i partiti, sia quelli che avevano sostenuto sin qui il governo, sia quelli dell'opposizione: Ho già compiuto la parte più importante di questo compito. Un gabinetto di guerra è stato formato con cinque membri che rappresentano, con l'inclusione dell'opposizione liberale, l'unità della nazione. I tre maggiori partiti, nella persona dei loro esponenti, hanno accettato di servire in un gabinetto di guerra...».

È a questo punto che Churchill pronunciò le famose parole: «Non ho altro da offrire se non sangue, fatiche, lacrime e sudore». Il 19 maggio fece il suo primo discorso nella qualità di primo ministro:

«Vi parlo per la prima volta come primo ministro in un'ora solenne per la vita del nostro paese, del nostro impero, dei nostri alleati e soprattutto per la nostra libertà. Una terribile battaglia infuria in Francia e nelle Fiandre. I tedeschi, con una notevole combinazione di bombardamenti aerei e di carri armati pesanti, hanno aperto il fronte attraverso le difese francesi a nord della linea Maginot e forti colonne di corazzati devastano liberamente il paese che per il primo giorno si trovò privo di difensori. Sono penetrate profondamente e hanno seminato il panico sulle loro direttrici. E dietro di loro appaiono adesso i fanti autocarrati e grandi masse stanno avanzando...».

Dopo di che aggiunse:

«Mi chiedete quale sarà la politica del governo? La nostra politica consisterà nel combattere la guerra, sul mare, in terra e nell'aria con tutta la nostra volontà e con tutta la forza che Dio vorrà concederci. (...) La nostra meta è il conseguimento della vittoria ad ogni costo, la vittoria malgrado tutto il terrore, la vittoria per quanto lungo e strenuo sia il cammino che dovremo percorrere, perché senza vittoria non potremo sopravvivere».

Erano queste le parole che concludevano i lunghi dibattiti che si erano succeduti fin dal 7 maggio. Churchill prendeva in mano la situazione dopo che Chamberlain aveva raccolto solo 252 voti su 365 conservatori. Era un prendere le redini dopo che i laburisti avevano negato la loro fiducia al primo ministro in carica il giorno 10 maggio dopo una riunione a Bournemouth.

Churchill veniva a ereditare un compito pesante aggravato dall'estendersi a macchia d'olio della guerra condotta dal regime nazionalsocialista.

Adesso i londinesi sapevano che la loro città era distante solo un'ora di volo per gli apparecchi tedeschi.

Churchill aveva dunque coronato la sua ambizione, quella di diventare primo ministro, anche se ciò che lo aspettava sarebbe stato sfibrante.

Prima di tutto né il Parlamento né la popolazione rappresentavano un tutto omogeneo. Una volta rimosso l'ostacolo principale, cioè quello di Neville Chamberlain capo del governo, si sarebbe potuta avere una nuova composizione; questa, che veniva a formare un quintetto al quale partecipavano due laburisti, non era certo il meglio che si potesse avere; il gabinetto di guerra avrebbe dovuto comprendere anche un liberale ma i laburisti si erano rifiutati di veder far parte del gabinetto di guerra Sir John Simon, il più chiaro difensore della mentalità di Monaco.

Il veto alla sua elezione era perfino più forte di quello che era stato emesso nei confronti di Chamberlain. La situazione era complicata dal fatto che Churchill aveva palesato l'intenzione di far entrare Chamberlain tra i membri del quintetto. Questo perché Chamberlain era pur sempre ancora il capo del partito conservatore. Secondo la prassi politica, proprio in qualità di capo del partito avrebbe dovuto ricevere dal sovrano il compito di formare il nuovo direttorio.

Con le sue dimissioni aveva aperto la strada a Churchill e si era detto disposto ad affidargli anche la carica della direzione del partito. Churchill aveva però ricusato questa proposta, adducendo il fatto che, in qualità di primo ministro di un governo di salute pubblica comprendente i tre partiti, sarebbe stato più opportuno non figurare come capo di uno di essi.

Con mossa poi abilmente politica, aveva affidato a un liberale (senza che facesse parte del comitato dei cinque) il dipartimento dell'aviazione che, nel momento attraversato dalla Gran Bretagna, era di vitale importanza. Non per nulla verranno fatti affluire dagli Stati Uniti 770 velivoli. Nella già citata riunione di Bournemouth, poi, i laburisti avevano approvato con 2.413.000 voti contro 170.000 la partecipazione di suoi rappresentanti al governo.

Al direttorio dei cinque, in base alla legge dell'emergenza (il cosiddetto Emergency Powers Act) venivano concessi poteri illimitati.

Incominciava così la guerra contro «la tirannia mostruosa che non trova riscontro in tutta la lamentevole storia dei delitti umani».

Da segnalare poi che Churchill nominò Neville Chamberlain Lord presidente al consiglio di guerra, una carica che non poté mitigare il suo dolore di non essere riuscito ad evitare il conflitto, dolore che lo porterà in breve alla tomba.

Nel contempo «gli amici della libertà e del diritto dell'uomo disseminati in tutto il mondo» auguravano a Churchill che Dio lo aiutasse.

La composizione del nuovo rimpasto era la seguente:

— ministro degli esteri: Anthony Eden

— Lord del sigillo: Clement Attlee

— ministro della produzione bellica: Hugh Dalton

— ministro senza portafoglio: Arthur Greenwood

— ministro del lavoro: Ernest Bevin

— ministro delle colonie: Lord Lloyd

— ministro della propaganda: Duff Cooper

— produzione aeronautica: Lord Beaverbrook

— ammiragliato: A. V. Alexander.

Ben presto comunque dovevano succedere avvenimenti che avrebbero messo Churchill in difficoltà a dispetto delle parole del 19 maggio. Aveva infatti detto:

«... solo una piccola parte della Francia è stata sinora invasa (...) Ho ricevuto dal capo della repubblica francese e in particolare dall'indomabile primo ministro, Reynaud, le più fondate garanzie che qualunque cosa accada essi combatteranno sino alla fine, sia essa amara o gloriosa».

Purtroppo il 4 giugno 1940 dovette prendere atto che il concorso francese non c'era stato e che le difese (tra le quali in primo luogo la linea Maginot), non erano servite a nulla.

Non per niente parlò di «un colossale disastro militare».

Che cosa dunque era successo? Perché si era arrivati fin lì?

È una domanda alla quale cercheremo adesso di dare una risposta.

Da parte inglese i successi erano stati magri: si era avuto l'autoaffondamento della modernissima nave da battaglia tedesca Graf Spee, bloccata dagli incrociatori inglesi. C'era poi stato un mezzo successo che aveva portato alla liberazione di 299 prigionieri britannici che si trovavano a bordo della nave tedesca Altmark che era alla fonda di un fiordo norvegese; ma intanto le divisioni tedesche avevano attraversato indenni il piccolo Lussemburgo ed erano penetrate profondamente in territorio olandese. La stessa sorte era capitata al Belgio, e dopo neppure una settimana di conflitto la posizione della Francia si rivelava irrimediabilmente compromessa.

Il generale francese Gamelin, dopo aver impartito un'ultima volta alle truppe l'ordine di vincere o morire, spariva dalla scena, mentre il generale Weygand — chiamato frettolosamente dalla Siria — ereditava una situazione disperata.

Tutti i campi di battaglia, mantenuti a così caro prezzo all'epoca della prima guerra mondiale, venivano adesso attraversati con la velocità del fulmine, dai panzer tedeschi. La «guerra lampo».

Alla Camera il deputato inglese James Maxton, preoccupato da questa subitanea avanzata delle truppe tedesche, aveva detto all'indomani della nomina di Winston Churchill a primo ministro che era opportuno che lo fosse divenuto adesso in un'ora così cruciale; questo, aggiungeva il deputato, «era scritto nel libro del destino o forse sul campo di battaglia di Blenheim».

Il giorno 23 maggio Churchill, in una breve dichiarazione alla Camera dei Comuni, annunciava che era caduta Abbeville e che il nemico si trovava adesso proprio alle spalle delle linee franco-inglesi.

Appena cinque giorni dopo questa dichiarazione, giungeva la notizia della capitolazione di re Leopoldo del Belgio, le cui truppe avevano fino allora mantenuto un tratto di fronte di vitale importanza.

Che cosa successe a seguito di questo fatto ce lo dice Churchill:

«Quando Weygand assunse il comando al posto del generale Gamelin, le armate inglesi e francesi si sforzarono di mantenere salda l'ala destra belga. Ma i tedeschi, con una manovra avvolgente» (Churchill usa l'efficacissimo termine di «falce» per indicare la direttrice dell'attacco) «si portarono quasi a Dunkerque».

Questo significò che la zona tra Boulogne e Calais diventava il teatro di una lotta disperata. Boulogne fu difesa per un certo tempo dai corazzieri i quali però ricevettero l'ordine di ritirarsi dopo aver subito innumerevoli perdite.

La brigata fucilieri, il 60° reggimento e i fucilieri della regina Vittoria, con l'appoggio di carri armati e di mille soldati francesi, difesero Calais fino all'ultimo. Tuttavia il generale di brigata britannico si sentì dire dai tedeschi che aveva un'ora sola di tempo per arrendersi. Ma dovevano passare quattro giorni di intenso combattimento per le strade prima che il silenzio regnasse su Calais.

Soltanto trenta superstiti, come fa rilevare Churchill, furono raccolti illesi da un mezzo navale. Ma il sacrificio di quei soldati non era stato vano. Almeno due divisioni corazzate avevano dovuto essere inviate per aver la meglio su di loro. Così il porto di Dunkerque poté essere mantenuto aperto.

Se non ci fosse stata la defezione del sovrano belga, si sarebbe probabilmente salvata la Francia e anche la Polonia. Il nemico attaccava da ogni parte, con soverchiante violenza e con il concorso di una micidiale aviazione. Vennero soprattutto prese di mira le spiagge, proprio in quei punti dove attraccavano i mezzi navali per trarre a bordo il corpo di spedizione franco-britannico e salvarlo.

Mentre i corazzati tedeschi convergevano verso la sola zona che potesse essere ancora in mano anglo-francese, una flotta di 900 navi cercò di salvare quello che restava del corpo di spedizione. Di queste 900 unità, ben 650 appartenevano alla marina mercantile. Tra di loro c'era di tutto, persino dei pescherecci con le loro vele colorate. Eppure, malgrado quell'accozzaglia di imbarcazioni, furono salvati più di 335.000 uomini.

Infuriava intanto nel cielo la battaglia tra velivoli tedeschi e britannici, a proposito dei quali Churchill aveva detto:

«Chi può dire che la stessa civiltà non possa venir difesa dall'abilità e dall'abnegazione di qualche migliaio di volontari e di aviatori? Mai in tutta la storia si era verificata una simile occasione (...) anche se non è con le ritirate che si vince una guerra».

Il corpo di spedizione britannico era stato dotato delle armi più moderne che vi fossero in Gran Bretagna. Tutte queste armi andarono perdute e caddero in mano nemica. C'erano i migliori cannoni, i carri di ultimo tipo e un parco automezzi nuovo di zecca.

Stando alle stesse parole di Churchill, «tutto quanto avevamo di meglio era stato dato al corpo di spedizione. L'armata era stata dotata dei primi frutti della più recente industria bellica e questi primi frutti sono andati persi. Ciò che è accaduto in Francia e in Belgio rappresenta un immenso disastro militare; la Gran Bretagna ha perso le sue armi più moderne; già domani, forse, l'attacco del Fùhrer sarà volto contro di noi (...) In caso di sbarco, dimostreremo che siamo capaci di difendere la nostra isola, di resistere alla bufera della guerra e alle minacce della tirannide anche se ci vorranno degli anni e anche se saremo soli (...) Non ci piegheremo né verremo mai meno al nostro dovere; continueremo sino alla fine, combattendo in Francia, sui mari, sugli oceani e nei cieli, con una forza e una fiducia sempre crescenti, difenderemo la nostra terra, qualunque sia la lotta, combattendo sulle coste, negli aeroporti, nei campi e per le strade, sulle colline, ma non ci arrenderemo mai. E se anche — ma non lo credo possibile — la nostra isola o parte di essa dovesse essere conquistata e affamata, allora il nostro impero, addestrato e protetto dalla flotta britannica, continuerà la lotta finché un giorno, a Dio piacendo, il nuovo mondo, con tutta la sua potenza, non avanzerà per soccorrere ed aiutare liberandolo il vecchio mondo».

Era il primo invito alla potenza statunitense per schierarsi dalla parte degli inglesi.

 

 

Capitolo XII

LE UMILIAZIONI

 

Churchill era andato a Parigi dov'era riunito il supremo consiglio di guerra; il giorno 18 del mese di maggio il compito della difesa nazionale francese era toccato a Paul Reynaud. Churchill aveva allora parlato di sforzi comuni da compiere contro l'avanzata delle truppe tedesche, ma il generale francese Weygand aveva detto che le truppe francesi erano prive di riserve, mentre si manifestavano nel paese dei segni di cedimento.

C'era quindi per la Gran Bretagna e per Churchill la necessità di riannodare tutti i fili diplomatici con i paesi che erano rimasti ancora immuni dall'attacco hitleriano. Così anche l'ambasciatore a Mosca, Sir Stafford, aveva ricevuto istruzioni perché si cercasse di rinsaldare almeno a partire dalla sfera commerciale quel filo che si era spezzato tra Gran Bretagna e Unione Sovietica.

Parallelamente il governo francese provvedeva a un rimpasto eliminando gli elementi più tiepidi e meno bellicosi.

Ma già il 5 di giugno i tedeschi erano in grado di sferrare un'offensiva nella zona della Somme e dell'Aisne. Era il crollo della linea difensiva prevista da Weygand. Il 9 di giugno si arrendevano le città di Rouen e Gisors. Il panico si stava diffondendo in tutto il paese. La stessa capitale, Parigi, stava per essere invasa. Le ultime carte del Quay d'Orsay vennero date alle fiamme; moltissime famiglie avevano già fatto i bagagli e avevano preso la direzione del Sud. Mentre le colonne di profughi intasavano Tours, tanto da essere costrette a dormire all'addiaccio, l'Italia vibrava il suo «colpo di pugnale alla schiena» dichiarando a sua volta guerra alla Francia.

Nel frattempo Paul Reynaud aveva inviato un patetico messaggio al presidente degli Stati Uniti. Churchill dal canto suo, pur tra le preoccupanti notizie che giungevano dal fronte, cercava di inviare rinforzi, qualche squadriglia da caccia, qualche unità motorizzata, ma non erano certo misure tali da arginare l'avanzata dei tedeschi.

Il 13 di giugno Churchill si imbarcò su un aereo e con due membri del Parlamento arrivò a Tours. Le strade pullulavano di profughi; era un esodo apocalittico. C'era di tutto, dalle automobili dei signori ai mezzi di fortuna più disparati, e quelli che non potevano fare altrimenti, fuggivano a piedi o in bicicletta. Chi poteva, aveva portato con sé il più possibile delle masserizie. In queste condizioni il pessimismo del Parlamento francese era all'acme e lo stesso Paul Reynaud aveva chiesto agli inglesi che la Francia fosse liberata dai suoi legami con la Gran Bretagna in maniera da concludere un armistizio. Ma Churchill preferì incitare Reynaud alla resistenza. Sapeva benissimo che i sacrifici dei francesi erano infinitamente più grandi di quelli che stava sopportando la Gran Bretagna. Certo, era perfettamente al corrente che l'impegno inglese in quella guerra non era da paragonarsi a quello che stavano soffrendo i francesi. Ciononostante gli era difficile acconsentire al disimpegno dei francesi; e a proposito del convegno avuto con Reynaud, Churchill pronunciò queste parole:

«Rimanemmo d'accordo che venisse fatto un nuovo appello a Roosevelt».

Se la risposta americana fosse stata tale da rassicurare Reynaud a continuare la lotta, vi sarebbe stato un nuovo incontro per prendere quelle decisioni che il caso avrebbe chiesto.

Ma il presidente Roosevelt stava affrontando nuovamente la prova delle elezioni: che cosa avrebbe detto l'elettore americano che non intendeva mescolarsi in quelle contese tra europei?

Si vedeva chiaramente che l'elettorato statunitense non aveva alcuna intenzione di contrarre degli impegni. Eppure, con la sua richiesta a Reynaud, Churchill sperava di guadagnare tempo anche per poter esaminare con più calma quali sarebbero state le conseguenze dell'armistizio voluto dai francesi.

In un ultimo barlume di speranza annunciava che altri reparti britannici erano stati fatti affluire sul fronte francese e ribadiva i legami che univano Francia e Gran Bretagna:

«... proclamiamo l'indissolubile unione dei due paesi, anche se non possiamo prevedere quali nuove forme assumerà la sciagura che minaccia i nostri due stati, ma sono convinto che quanto sta accadendo avrà come risultato la fusione di entrambe le nazioni per farne un tutt'uno che nulla potrà dissolvere. Rinnoviamo quindi il nostro impegno nei confronti della repubblica francese e non rinunceremo alla lotta finché la Francia non abbia ottenuto una nuova sicurezza...».

Ma gli avvenimenti si accavallavano con velocità, uno dietro l'altro. Tours era stata sgomberata prima che fosse giunto da oltre oceano il responso. Dagli Stati Uniti arriverà una risposta interlocutoria: alla Francia sarebbe stato concesso tutto il materiale possibile, ma non certo un impegno militare, perché l'intervento in guerra veniva deciso da tutto il congresso e non dal presidente.

Scrive a questo punto Churchill:

«Il 16 giugno mi arrivò un messaggio da parte di Reynaud nel quale veniva detto come la risposta americana non fosse stata soddisfacente. Per questa ragione il nuovo governo si trasferiva a Bordeaux, inoltre si chiedeva nuovamente che la Francia venisse liberata dai suoi obblighi sottoscritti dal patto franco-britannico».

Churchill decise allora di convocare nuovamente il gabinetto con l'intenzione di fornire una risposta al governo francese.

Dalla seduta emerse che:

— il trattato tra Francia e Gran Bretagna non era stato stipulato con questo o quello degli uomini politici, essendo un'intesa tra i due paesi;

— sul tappeto occorreva però salvare l'onore della Francia.

Tuttavia occorreva tener conto delle sofferenze del popolo francese e delle forze soverchianti che assediavano quella nazione. Inoltre gli inglesi intendevano salvare almeno la flotta, convogliandola nei porti britannici, mentre la nazione inglese dal canto suo avrebbe continuato da sola la guerra.

I francesi dovevano semplicemente comunicare al più presto i termini dell'armistizio.

A farsi portavoce delle richieste britanniche presso il governo francese era l'ambasciatore Sir Ronald Campbell. In che cosa consistevano le proposte inglesi? Si voleva:

— lottare contro ogni sistema di sottomissione a un regime che riduceva l'umanità a un'esistenza di miserabili schiavi, mentre la Francia e la Gran Bretagna rinunciavano a costituire due nazioni separate;

— si voleva cioè formare un'unione franco-inglese con consultazioni bilaterali sui problemi della difesa, della politica estera, delle finanze e dell'economia.

Ma si trattava di illusioni. Proprio con la flotta francese sorsero i primi dissidi; si scoprì infatti che le navi francesi, alcune delle quali modernissime, non intendevano far rotta in direzione della Gran Bretagna, preferendo rimanere alla fonda agli ordini del governo francese o di quello che rimaneva di esso: Reynaud aveva in effetti rassegnato le dimissioni, lasciando libero campo ai paladini dell'armistizio con la Germania.

Il 16 giugno comunque Churchill partì nuovamente per la Francia. Stavolta prese il treno e fece bene, perché durante il viaggio gli arrivò la comunicazione che il nuovo governo aveva avuto come prima mossa quella di voler trattare con la Germania.

Non si poteva perciò far nulla e Churchill ritornò scontento a Downing Street. Comunque fece subito telegrafare a Bordeaux perché le autorità francesi mettessero a disposizione del governo inglese le unità navali. Proprio per questo si affrettò a mandare in Francia il capo dello stato maggiore navale e il primo Lord dell'Ammiragliato.

Purtroppo le intenzioni inglesi dovevano andare disattese. Si scontrarono infatti con l'articolo 8 dell'armistizio in cui veniva detto che il vincitore si riservava di disarmare le navi da battaglia con l'impegno di non utilizzarle durante la guerra. Questo per gli inglesi fu un colpo mancino. Ben sapendo quale rispetto Hitler avesse per i trattati, quelle promesse avevano sapore di scherno. Una profonda inquietudine si diffuse tra i membri del Parlamento, per cui si decise, se necessario, di ricorrere a metodi pirateschi per convincere i riottosi a entrare nei porti inglesi.

Dieci giorni dopo questa decisione, che ovviamente non fu presa a cuor leggero, due corazzate francesi, due incrociatori e alcuni sottomarini, erano stati colti di sorpresa e catturati con metodi poco ortodossi.

Adesso comunque si trovavano in acque britanniche al sicuro nei porti di Portsmonth e di Sherveen; quasi contemporaneamente alcune navi da battaglia inglesi si presentarono nel golfo di Mers-el-Kebir dove alla fonda si trovavano due navi da battaglia, il Dunkerque e lo Strasbourg più alcune unità leggere, incrociatori tascabili, cacciatorpediniere e sottomarini. A questo punto però cominciarono gli inconvenienti: l'addetto navale britannico presso i francesi, capitano di vascello Holland, si portò sottobordo della prima unità, ma il comandante della flotta ammiraglio Gensoul si rifiutò di riceverlo. Allora gli si fece pervenire un messaggio in cui lo si invitava a seguire le unità britanniche fino a un porto sicuro; in opzione gli si concedeva, qualora fosse convinto di dover seguire le condizioni dell'armistizio, di recarsi nelle Antille con l'impegno di non impiegare nessuna delle unità in funzione anti-tedesca o anti-italiana. In caso di rifiuto di tutte le proposte, le unità inglesi avrebbero aperto il fuoco. Amaro fu il commento di Churchill quando venne sparato alle 17,53 un primo colpo di cannone:

«Non ho bisogno di aggiungere», queste le parole di Winston Churchill, «che le navi francesi, in questa lotta contro natura, si batterono con quel coraggio che contraddistingue la marina francese; accordiamo pertanto ogni attenuante all'ammiraglio Gensoul e ai suoi ufficiali che si sono creduti in dovere di obbedire a quelle disposizioni che avevano ricevuto, senza pensare che queste erano il frutto della volontà dei tedeschi».

Ma c'era un'altra preoccupazione che si profilava all'orizzonte del governo britannico. Che cosa sarebbe accaduto di tutte le basi militari che il governo francese possedeva nei territori oltremare? E come affrontare il problema di coloro che in Gran Bretagna erano sempre stati scettici a un'intesa tra la Francia e l'Inghilterra?

È vero che a Londra era venuto il generale francese De Gaulle con i suoi seguaci, ma purtroppo in Francia, con la creazione del governo «fantoccio» di Vichy nel sud del paese, vennero interrotte anche le relazioni diplomatiche.

Non rimaneva quindi che indicare la presenza di De Gaulle come quella di un generale cui avrebbero dovuto fare capo tutti i francesi liberi in qualunque luogo si trovassero.

Ciò non toglie che in quei lunghi giorni del 1940, con una Francia ridotta a comparsa, con un'America destinata a cullarsi nel suo isolamento e con una Unione Sovietica che aveva appena finito di firmare un patto di non aggressione con la Germania, la situazione apparisse disperata. Per giunta, poiché era stato appena intrapreso il riarmo, gli inglesi si vedevano senza aerei, senz'armi e senza materiale. Bisogna inoltre considerare quelle che si potrebbero definire delle presenze politiche anomale sul suolo britannico, e cioè il movimento comunista favorevole alla politica staliniana e i seguaci del fascismo italiano guidati da Oswald Mosley.

Si intensificarono perciò le misure di sorveglianza di questi due movimenti, mentre la polizia arrestò alcuni irrequieti.

Il paese intero era animato da un frenetico furore; c'era da addestrare e armare dei territoriali che rappresentavano la cosiddetta Home Guarà. Ne verranno addestrati circa due milioni, con dei corsi serali da frequentare dopo il normale lavoro.

Materie di insegnamento, oltre alle normali difese in caso di attacchi aerei, erano le tattiche della guerriglia urbana in previsione di un attacco hitleriano con sbarchi sulle coste britanniche. Parallelamente si provvide a erigere costruzioni quali fortini, muri difensivi e rifugi in cemento armato. Tutta la nazione veniva mobilitata: nei pressi di ogni ponte, agli ingressi dei villaggi, lungo le ferrovie o in prossimità delle arterie stradali, sorsero come dal nulla innumerevoli costruzioni difensive.

Nel frattempo cominciavano a giungere dagli Stati Uniti notevoli quantitativi d'armi. Anche queste servirono a equipaggiare moltissime unità di territoriali.

È stato scritto che «perfino Hyde Park fu trasformato in un campo trincerato».

Nessuno poteva permettersi di non frequentare i corsi serali, per cui lo fecero anche alcuni deputati.

Si era alla vigilia di quella che verrà chiamata la battaglia d'Inghilterra.

 

Essa incominciò l'8 agosto con un attacco sferrato contro un convoglio nei pressi dell'isola di Wight. Con ondate successive di bombardieri, l'armata aerea tedesca si accanì contro le coste britanniche. Furono bombardati i grandi porti, poi toccò alle città; fu bombardata Swansea le cui fiamme continuarono ad ardere per un'intera settimana. Venne poi la volta di Hull, Exeter, Bath e il 22 agosto fu bombardato lo stesso centro di Londra.

Non passava giorno in cui non cadessero bombe. Poi fu il tempo degli attacchi notturni. Londra venne bombardata la notte del 23 settembre. Non ci fu quartiere che venisse risparmiato; bruciò anche l'arsenale di Woolwich, le banchine sul Tamigi ardevano come torce, tutti i quartieri e tutti i luoghi storici della Hall, l'Inner Tempie, la King's Bench Walk, ogni cosa era preda delle fiamme. Luoghi secolari, come le deliziose chiese di Christopher Wren, vennero ridotti a una massa di rovine fumanti, così come successe alla Tower Hill e a Saint Clemens Danes, nonché alla minuscola e plurisecolare chiesetta, la Saint-Bride's Church.

Nel cielo a compiere le devastazioni c'era il meglio dell'aviazione tedesca, i vari Heinkel, Henschel, Dornier 88...

A una donna trepidante che, dopo un bombardamento, nei pressi di un cumulo di macerie aveva chiesto a Churchill quando sarebbe finita la guerra, fu data questa risposta:

«Ma quando l'avremo vinta, naturalmente».

Churchill in quei giorni si assentava spesso da Londra per andare a ispezionare le difese costiere. La sua figura era diventata popolarissima con quella V fatta con l'indice e il medio a significare vittoria, e con l'eterno sigaro in bocca.

Gli amici dicevano che ne fumava almeno dieci durante il giorno, che in un certo periodo la quasi totalità di essi era stata fatta venire da New York e che nel 1929 ne avesse acquistati 10.000 in un sol colpo. Comunque lo si vedeva varcare ogni tanto la soglia di Zitelli, celebre tabaccaio del West End, per rinnovare le sue scorte. Teneva anche una scatola contenente degli Avana, offertigli da un ministro cubano, al n. 10 di Downing Street.

Churchill amava la folla, si compiaceva di confondersi in essa e non di rado prendeva a braccetto questo o quel passante che lo aveva riconosciuto e gli aveva fatto un cenno di saluto. Aveva lasciato, per venire in quel numero 10 della celebre strada, la sua dimora di Chartwell Manor; quello londinese era un appartamento confortevole, ma carico di ricordi lasciati dagli illustri personaggi che vi avevano soggiornato. La sua camera dava su un giardino e la sua esistenza, bombardamenti permettendo, trascorreva nella quiete.

Una volta, mentre si trovava a Ramsgate, era stato sorpreso dall'ululo delle sirene. Entrato in un rifugio, aveva fatto macchinalmente il gesto di accendere il suo sigaro. Ma subito il capofabbricato era accorso dicendo che non si poteva fumare.

Churchill, schiacciando malinconicamente la punta del suo sigaro, aveva risposto:

«Mi avete fatto sprecare uno dei miei celebri Avana».

Come un satrapo dei tempi antichi, riceveva anche al mattino presto, quando si trovava ancora a letto. Solo verso le 11 ascoltava i membri del gabinetto presso il famoso tavolo d'epoca vittoriana con intorno le sedie imbottite.

Terminato il consiglio e consumato un frugale pranzo, sbrigava le ultime udienze e consultava ciò che restava delle relazioni, oppure si metteva il cappello in testa e si recava in Parlamento. Questo però accadeva solo fino alle quattro del pomeriggio, momento in cui, qualunque cosa succedesse, egli saliva in camera sua, si infilava due batuffoli di cotone nelle orecchie e si faceva il proverbiale pisolino. Dopo circa un'ora di sonno profondo, egli si alzava e riprendeva il lavoro andando avanti fino a notte inoltrata. Alle tre del mattino, finalmente smetteva e tornava in camera.

 

Nel frattempo la ancora scarsa aviazione britannica faceva letteralmente miracoli con i suoi Hurricane e Spitfire; per esempio il giorno 15 settembre su 250 bombardieri che si erano diretti su Londra, i caccia britannici ne abbatterono 70.

Sempre nello stesso giorno, durante una nuova incursione alle due del pomeriggio, vennero abbattuti ben 185 velivoli: una catastrofe per la Luftwaffe e un tripudio per la Royal Air Force.

Churchill, a proposito dei bombardamenti, ebbe parole che sono rimaste famose. Aveva infatti detto che la politica hitleriana era quella di creare il terrore, cieco e sinistro, uccidendo il più gran numero di civili, di donne e di bambini. Hitler sperava di deprimere il morale dei londinesi; ma così facendo sottoestimava il reale valore dei londinesi e degli inglesi in generale. Il dittatore nazionalsocialista non era al corrente del fatto che gli inglesi amassero la libertà più di ogni altra cosa.

«... quest'uomo malvagio che possiede e impersona l'odio che tutto distrugge (...) ha ora deciso di annientare la nostra celebre razza insulare con una serie di massacri e di distruzioni compiute alla cieca. Ma è arrivato soltanto a incendiare i nostri cuori (...) ha acceso un fuoco la cui fiamma non cesserà di risplendere fino a quando non saranno spazzate via le ultime frange della tirannide nazista, finché il vecchio mondo e il nuovo non avranno costruito insieme il tempio della libertà umana...».

Come si vede Churchill insisteva sulla convinzione che alla fine gli americani sarebbero intervenuti in favore della Gran Bretagna con un concreto appoggio militare.

In altre parole era sicuro che presto o tardi gli Stati Uniti avrebbero rinunciato al loro isolamento per contribuire alla lotta comune.

Quanto all'apporto italiano alle vittorie tedesche, era da considerarsi quasi nullo. Per Churchill Mussolini era diventato «il piccolo complice italiano» e come combattività si muoveva fiaccamente e timidamente. Anche qui era caduta l'illusione che il regime italiano fosse diverso dagli altri e tendesse solamente al benessere del proprio paese. Si trattava invece di una qualunque dittatura, per di più senza nerbo e senza entusiasmi. Quanto al capo del paese, questi aveva davvero una piccola statura anche morale; il colpo di pugnale nella schiena della Francia lo aveva ampiamente dimostrato.

 

Dieci mesi di lotta non avevano apportato nessun miglioramento. Non vi erano vittorie che si potessero festeggiare; ora, per il primo anniversario dell'entrata in guerra, si doveva svolgere nella cattedrale di Westminster una funzione religiosa; il re e la regina stavano lasciando il palazzo reale quando si fecero sentire le sirene dell'allarme, segno che velivoli tedeschi si stavano dirigendo sulla città. Quando arrivò davanti alla porta della chiesa, il decano si fece incontro al primo ministro chiedendo che cosa si dovesse fare, dato che i vigili avevano cominciato a far uscire il pubblico per avviarlo nei rifugi. Churchill rispose:

«Seguite il programma».

E la funzione si svolse unicamente per i membri del governo.

Churchill doveva comunque avere una piccola soddisfazione: nessuno dei parlamentari tradirà la benché minima emozione. Era per lui un giorno felice quello: infatti aveva visto l'esordio del figlio Randolph nel Parlamento e aveva udito il suo primo discorso da deputato, un discorso sintetico e convincente. E gli era venuto alla mente il suo stesso esordio, quando Lord Salisbury gli aveva chiesto se si sentisse nervoso; e Churchill aveva risposto: «Un po'»; al che il Lord aveva replicato: «È successo anche a me, ma non fateci caso: guardatevi intorno e dite a voi stesso: quanti imbecilli...».

Nel nero orizzonte che si profilava per la Gran Bretagna si era tuttavia aperto uno spiraglio dal quale fluiva la luce: gli italiani passavano di disastro in disastro; le divisioni mandate contro la Grecia erano state ricacciate indietro fin oltre il confine albanese; in Africa settentrionale c'era solo da raccogliere gli innumerevoli prigionieri e impadronirsi delle armi lasciate lì, abbandonate nel deserto.

Il primo caposaldo vicino al confine anglo-egiziano, Sidi-el-Barrani, era stato conquistato grazie agli australiani e ai neozelandesi fatti affluire in territorio egiziano e mandati a conquistare terreno a est. Si trattava di truppe scelte, combattive e ben addestrate.

La Gran Bretagna, se non altro, aveva il vantaggio dei suoi dominions, per cui al fronte si vedranno indiani, sudafricani, irlandesi dell'Ulster, canadesi; un composito mosaico di genti e di popoli che stava ad attestare la volontà di resistenza.

Churchill non nascondeva la sua soddisfazione. E tuttavia, pur badando all'evoluzione dei fronti, aveva modo di pensare ai guasti che le squadriglie tedesche stavano arrecando. Perfino la Camera dei Comuni non era stata risparmiata e Churchill aveva dato disposizioni perché fosse ricostruita tale e quale a prima, cioè con pianta rettangolare e non ad emiciclo come gli altri parlamenti europei. C'era una ragione ben fondata: con pianta rettangolare si vedevano chiaramente gli spostamenti dei deputati allorché passavano da uno schieramento a un altro, così come aveva fatto Churchill passando dai conservatori ai liberali, vivendo una parentesi da costituzionalista e finendo poi di nuovo nei banchi dei conservatori. Tutti passi che avevano richiesto lo spostarsi fisico, senza ombre di sfumature e di correnti, del deputato da un gruppo all'altro. In altre parole non era fisicamente possibile la formazione delle correnti perché, attraversando la sala da un capo all'altro, il deputato transfuga dimostrava chiaramente la propria volontà di cambiare partito.

Per quanto concerneva poi lo stesso Churchill, alla fine di ottobre si era trovato investito anche della carica di capo del partito conservatore: Neville Chamberlain, infatti, a causa delle precarie condizioni di salute, aveva rassegnato le dimissioni alla fine di ottobre. Così si concludeva il 1940, un anno in cui il bilancio, salvo poche eccezioni, non si era dimostrato attivo.

Churchill era apparentemente arbitro della situazione, ma i fronti si stavano estendendo a macchia d'olio minacciando di recidere i legami che univano i dominions alla madrepatria.

Ciò comportava il dover guerreggiare con dispersione delle forze, imponendo gravi sacrifici e soprattutto non dando neppure il tempo di decidere i programmi da adottare. Anche sul mare la Gran Bretagna cominciava a conoscere le terribili insidie degli U-boote, i sommergibili tedeschi che erano particolarmente accaniti contro le navi mercantili che facevano la spola con i vari fronti assicurando il necessario vettovagliamento.

Soprattutto in Atlantico le perdite stavano divenendo sensibili e migliaia di tonnellate di materiale proveniente dagli Stati Uniti erano già colate a picco, definitivamente perdute per l'Inghilterra.

Unica consolazione, appunto, le vittorie africane contro l'Italia.

Il 19 dicembre, infatti, Winston Churchill diceva ai Comuni che gli italiani avevano dimostrato scarso spirito combattivo e poche qualità guerriere e dal canto suo faceva l'esempio di un'intera divisione che si era arresa davanti a forze alquanto inferiori numericamente.

Pochi giorni più tardi, parlando al popolo italiano da Radio Londra, diceva:

«Italiani, vi dirò la verità. Tutto è dovuto a un uomo, un uomo solo che ha gettato il popolo italiano in una lotta mortale contro il popolo inglese».

Anche sul mare le sorti italiane avevano subito un brusco tracollo: gran parte della flotta era stata immobilizzata nei porti mentre la stessa Genova era stata bombardata dal mare: erano le unità della flotta di Somerville.

Sugli avvenimenti concernenti la marina italiana, Churchill era già intervenuto il 13 novembre 1940 in un discorso alla Camera dei Comuni. In quell'occasione aveva detto di avere «some news for the House. It is good news», cioè di avere delle novità favorevoli: la marina britannica aveva inferto un colpo paralizzante (a cripping blow) alla flotta italiana colpendo con gli aerei le unità italiane della classe Littorio e della classe Cavour. Le unità erano state gravissimamente danneggiate mentre erano alla fonda nel porto di Taranto. Ma c'era di più: nella notte del 9-10 novembre si era avuto un bombardamento navale contro il porto di Sidi-el Barrani, mentre un sommergibile britannico aveva affrontato un convoglio mercantile con la sua scorta riuscendo ad affondare una nave e a danneggiarne gravemente una seconda.

Tutti i successi erano da ascriversi all'ammiraglio Cunningham comandante in capo del Mediterraneo, ma soprattutto ai piloti degli aerei che avevano decollato dal ponte delle portaerei.

La scarsa resistenza opposta dagli italiani rappresentava anche un motivo di imbarazzo per i britannici che non sapevano dove e come mettere le schiere degli innumerevoli prigionieri. In un discorso del 9 febbraio 1941, Churchill, con evidente allusione a Mussolini diceva, citando Byron, che il dittatore italiano era «come quegli dei da pagode che agitano la spada con il viso di bronzo e i piedi d'argilla»:

Those pagod things of sabre Sway

With front of brass, and feet of day.

In quei giorni il materiale copiosamente abbandonato dagli italiani rappresentava un congruo apporto: centinaia di bocche da fuoco, cannoni, mortai da 81, piccoli mortai Brixia, autoblindo, carri leggeri tipo L, e carri medi M 13-40; le uniche perplessità destavano appunto questi ultimi, e cioè i carri, perché lenti, con scarsa blindatura e calibro delle armi inferiore a quello cui i britannici erano abituati. Obsoleti erano anche i cannoni da 75, quasi tutti preda bellica austriaca della prima guerra mondiale, molti di provenienza boema (Skoda), che non avevano paragone con i modernissimi cannoni montati su pneumatici ed estremamente mobili anche su terreno desertico, impiegati dalle truppe anglo-australiane.

Gli entusiasmi britannici dovevano comunque di lì a poco venire smorzati dall'arrivo in massa dei tedeschi dell'Afrika Korps; si trattava di truppe scelte con la caratteristica della mobilità, essendo quasi tutte autocarrate; per di più disponevano di carri avanzatissimi, più efficaci di quelli britannici; inoltre veniva impiegato un cannone antiaereo da 88, che poteva essere messo in postazione in brevissimo tempo e che, con alzo O e granate anticarro, causerà moltissime perdite tra gli squadroni avversari.

Churchill aveva appena finito di dire che l'alba del 1941 era radiosa che già le sue parole si perdevano nell'eco della rinnovata battaglia; aveva infatti detto lo statista che si sentiva meglio grazie al concorso morale di tutto il popolo (segno di elevazione morale del genere umano) che lo collocava al di sopra dei fattori materiali, conferendogli una serenità tale che gli pareva di essere in un mondo migliore di quello in cui viveva.

Nel frattempo la guerra continuava il suo corso: nell'ottobre del 1940 era scoppiato il conflitto italo-greco; anche se i greci avevano avuto buon gioco nel respingere gli italiani, Churchill, nel gennaio del 1941, aveva accarezzato l'idea di inviare un corpo di spedizione britannico formato da unità corazzate e dotato di una cospicua artiglieria; il generale prescelto per comandarlo era Wavell. Caso strano, l'opposizione al progetto era venuta da parte greca e precisamente dal capo del governo Metaxas. Questi temeva che far venire un corpo inglese in casa propria avrebbe avuto come immediata conseguenza una risposta da parte dei tedeschi; infatti egli era in guerra con l'Italia ma non con la Germania. Ma Metaxas doveva morire di lì a poco, il 29 gennaio; così gli inglesi poterono ripresentare il loro progetto con fiducia che sarebbe stato accettato: come infatti fu.

Il 7 marzo del 1941 le truppe inglesi sbarcheranno in Grecia: si trattava di cinquantamila uomini perfettamente equipaggiati; ma come aveva giustamente intuito Metaxas, a un mese esatto di distanza dall'arrivo dei britannici, il 6 aprile 1941, i tedeschi sbarcheranno in Grecia catturando 12.000 inglesi più tutto l'equipaggiamento e relativi carri; e solo a stento si poté far imbarcare quello che restava dello sfortunato corpo di spedizione.

Di questa sconfitta verrà accusato Churchill il quale si era intestardito a sottrarre quegli uomini e il loro comandante dal fronte africano dove avrebbero potuto venire utilizzati più efficacemente, accelerando la disfatta dell'esercito italiano. Comunque nulla, agli inizi del 1941, faceva pensare a una possibile sconfitta dell'unità inglese. Le truppe britanniche avevano colto i primi successi nell'Africa Orientale Italiana: le truppe italiane che avevano occupato la Somalia britannica e alcune fasce di territorio al confine del Sudan, erano state ricacciate indietro: pochi mesi più tardi, precisamente il 5 maggio del 1941, il Negus poteva rientrare nella capitale Addis-Abeba al fianco di un generale abilissimo nelle tattiche della guerriglia: Orde Wingate.

Nel frattempo altri accadimenti avevano occupato la scena internazionale e preoccupato un poco Churchill che il giorno 6 gennaio era stato proclamato l'uomo dell'anno dalla rivista americana «Time»; le preoccupazioni si riferivano al settore balcanico e all'Europa orientale. Nei Balcani la Romania era stata costretta a cedere più di metà della Transilvania alle truppe ungheresi; c'era stata l'intesa romeno-tedesca e alcuni reggimenti tedeschi stazionavano già entro i confini dello stato.

La Bulgaria era stata anch'essa costretta a seguire gli eventi.

Nel Medio Oriente l'Iraq era stato messo a disposizione dei tedeschi da Rachid Alì. Il governo di Belgrado aveva poi acconsentito ad accordi che erano rimasti sulla carta, non avendo i serbi intenzione alcuna di essere considerati cobelligeranti dell'Asse.

La situazione jugoslava era quella più anomala. Quando vi arriveranno le truppe tedesche in appoggio alle unità italiane e quando sarà creato lo stato croato filotedesco di Ante Pavelic, si avrà un mosaico di truppe. A cominciare dai reparti filomonarchici di cetnici, aggiungendo gli sloveni favorevoli alla Germania, i domobrani, e via dicendo. Tutte queste truppe non daranno molta prova di sé, per cui verranno fatte affluire in Jugoslavia truppe tedesche che avranno il loro da fare per poter resistere alla guerriglia dei partigiani comunisti.

Winston Churchill aveva visto con preoccupazione questo allargarsi a macchia d'olio delle zone di influenza legate all'Asse. Non solo gli stati balcanici venivano a cadere sotto il dominio tedesco, ma erano stati indotti ad accettare un atto di collaborazione anche militare con la Germania; per questo si vedranno unità romene, inquadrate dai tedeschi, combattere contro i russi, mentre in Ungheria reparti come le Croci Frecciate si batteranno a fianco delle tristemente famose SS.

Ovunque arrivassero e parallelamente all'estendersi del loro controllo, i tedeschi facevano sorgere partiti fantoccio, come saranno i francisti per la Francia di Vichy, e ciò sulla falsariga del partito nazionalsocialista.

In più c'era da considerare che nel gennaio 1941 era stato rinnovato il patto tedesco-sovietico dopo la spartizione della Polonia. La Germania aveva ottenuto attraverso Romania e Bulgaria uno sbocco sul Mar Nero; parallelamente la Russia ne aveva ottenuto uno sul Mar Baltico. Nulla faceva presagire l'attacco tedesco contro la Russia che sarebbe avvenuto di lì a qualche mese, come nulla faceva pensare a un coinvolgimento nella guerra degli Stati Uniti a causa dell'attacco giapponese Pearl-Harbor; buona parte della flotta statunitense alla fonda di quel porto verrà colata a picco da un'incursione aerea nipponica.

Sulla scacchiera del 1941, insomma, cominciavano ad essere spostate delle pedine la cui direttrice era ancora sconosciuta. Malgrado ciò, pur nella tempesta, i discorsi di Churchill tradivano ottimismo, come si vede da quello radiotrasmesso del 27 aprile o da quello del 22 giugno all'indomani dell'invasione nazista della Russia sovietica. Invasione che farà passare in secondo piano le remore churchilliane nei confronti dello stato sovietico e farà chiudere entrambi gli occhi sulla spartizione della Polonia e sull'occupazione da parte delle truppe russe degli stati baltici.

 

 

Capitolo XIII

DUE DITA COME VITTORIA

 

Il fronte si stava dividendo in tanti piccoli scacchieri a volte assai distanti dall'Inghilterra, con una confusione estrema; un esempio: i francesi di stanza in Siria erano rimasti fedeli al governo di Vichy. Churchill fu costretto a mandare contro di loro, oltre alle truppe inglesi, anche alcune unità francesi obbedienti al generale De Gaulle, creando così una lotta fratricida per la quale lo statista britannico si scusò di fronte al Parlamento:

«Non abbiamo nessuna intenzione di impossessarci della Siria o di qualsiasi altra terra francese. Siamo anzi disposti a fare tutto il possibile per ridare alla Francia la sua libertà, la sua indipendenza e i diritti che si merita.

«In una lettera che ho inviato al generale De Gaulle, gli ho parlato dei meriti e della grandeur francese; faremo tutto il possibile per aiutare la Francia, ma anche i francesi ci devono aiutare in ciò».

Questo discorso cadeva opportunamente, dato che i sussulti politici in Iraq e gli influssi tedeschi sulla Siria rischiavano di indebolire tutto il sistema difensivo anglosassone nella valle del Nilo, minacciando anche il canale di Suez.

Il 22 giugno giungeva improvvisa una notizia di incalcolabile portata storica: la Germania, come aveva fatto Napoleone, attaccava la Russia su un fronte di 1.500 chilometri.

«Egli (Hitler)» doveva dire Churchill, «vuole intanto abbattere l'Unione Sovietica, e una volta che sia riuscito in questo intento, rovescerà tutte le forze contro la nostra isola (...) L'invasione russa non è che la prima parte di quell'invasione che Hitler ha in mente delle nostre isole. Egli spera di finire il conflitto prima dell'inverno in modo da sentirsi libero di invadere la Gran Bretagna. Nessuno si è mai mostrato avversario tenace del comunismo come il sottoscritto» aggiungeva, «non solo da oggi, ma da 25 anni (...) Ma noi oggi non abbiamo che un solo obiettivo: quello di abbattere Hitler e la tirannide nazional-socialista. Qualunque uomo o nazione che marcia al fianco di Hitler sarà nostro nemico».

Era un parlare molto chiaro, un manifestare senza alcun dubbio la volontà di resistenza e la combattività della nazione britannica.

L'invasione dell'Unione Sovietica in un momento in cui le truppe tedesche erano disseminate sui più vari fronti dell'Africa settentrionale fino alla Norvegia, dalla Francia alla Polonia e nei Balcani, rimarrà sempre un mistero insoluto dagli storici.

Quali motivi aveva Hitler per attaccare un avversario con il quale aveva appena finito di sottoscrivere accordi di non aggressione? Che cosa indusse Hitler a sferrare il suo attacco su un fronte di 1.500 chilometri? Quella della Russia era una mossa quantomeno prematura. Fatto si è che singolarmente due potenze dell'Asse, la Germania e il Giappone, compiranno due mosse sbagliate, la prima attaccando l'Unione Sovietica, la seconda scatenando l'attacco di Pearl-Harbor.

La vicenda di quest'ultima mossa merita una piccola parentesi.

Ai primi di settembre del 1941, gli ammiragli giapponesi si riunirono a Tokio per discutere il piano d'attacco contro quel porto.

Il 26 novembre 1941 una squadra navale nipponica, comprendente sei portaerei, due corazzate, tre incrociatori, salpò diretta verso Pearl-Harbor. A bordo delle portaerei c'erano le migliori squadriglie. In più partecipava all'azione un gruppo di sottomarini tascabili.

Il 7 dicembre, alle ore 8,25 di domenica (per approfittare del fatto che gli equipaggi si trovavano prevalentemente a terra e non a bordo), 424 aerei e alcuni sommergibili tascabili sferrarono l'attacco.

Questo si protrasse a ondate successive fino alle 9,45, mettendo fuori combattimento ben otto corazzate, tre incrociatori, tre cacciatorpediniere; su 202 velivoli della marina, solo 52 sfuggirono alla distruzione; su 273 velivoli dell'esercito, 97 andarono perduti, mentre numerosi altri venivano gravemente danneggiati.

Per gli Stati Uniti fu questo un episodio drammatico, un trauma che avrebbe obbligato la nazione americana a scendere in campo.

Intanto le truppe hitleriane avevano ultimato la loro penetrazione in territorio sovietico. Dopo aver conquistato le città di Brest-Litovsk, Vilna, Kaunas, Minsk, Lvov, Libau, il 5 luglio i tedeschi avevano raggiungo il Dnieper. Il giorno 8 radio Mosca chiedeva aiuto alla Gran Bretagna; il 16 dello stesso mese aveva capitolato Smolensk. Proprio in quel tempo il segretario di Roosevelt, Harry Hopkins, era venuto a Londra in aereo ed era stato ricevuto da Churchill. In suo onore venne fatto entrare nel Parlamento per assistere a un consiglio di gabinetto, evento che non era mai stato concesso a uno straniero. Il giorno successivo a questo incontro, Hopkins volava in direzione di Mosca. Al suo ritorno, alla fine di agosto, si imbarcò alla volta degli Stati Uniti insieme a Churchill per discutere con il presidente americano le modalità della legge affitti e prestiti, una legge che permetteva alla Gran Bretagna di ricevere subito 50 cacciatorpediniere triade in USA.

Erano attesi a Terranova dallo yacht del presidente americano, l'Augusta. Dopo l'incontro ci furono a partire dal 9 agosto quattro giorni di colloqui. Questi vertevano soprattutto sulle possibilità di apportare un concreto aiuto all'Unione Sovietica.

Sarà da queste prime decisioni che verranno fatti affluire in Unione Sovietica, passando per l'Iran, autocarri, carri armati, viveri e materiale vario.

Quando il Prince of Wales, scortato da tre cacciatorpediniere, che aveva portato Churchill e Hopkins fino alla baia di Placentia, si affiancò allo yacht presidenziale, i due statisti vennero accolti cordialmente da Roosevelt.

Per inciso, la nave britannica fece una brutta fine, venendo poi colata a picco dall'aviazione giapponese al largo delle coste malesi. Questo neppure tre giorni dopo i fatti di Pearl-Harbor.

Con il Prince of Wales andò perduta anche la nave da battaglia Repulse.

Churchill si mostrò, come sua abitudine, assai ottimista, caldeggiando una maggiore intesa con gli Stati Uniti e una più stretta collaborazione nel settore degli armamenti.

Questa era la prima volta che Churchill incontrava Roosevelt negli USA, ma era destino che con il presidente dovesse incontrarsi molte altre volte. Infatti, sotto Natale, si imbarcò sul Duke of York e trascorse le festività alla Casa Bianca, rimanendo negli Stati Uniti complessivamente quattro settimane.

 

Mai si potrà sapere quanto sia stato utile il viaggio di Churchill negli Stati Uniti. Tra la mentalità anglosassone e quella nordamericana esistevano delle profonde affinità. Non per nulla in un suo discorso Churchill parlò dicendo che gli uomini politici sono fieri di essere al servizio della nazione mentre si vergognerebbero di essere i padroni.

C'era poi il fatto che Winston era pur sempre il figlio di una madre americana; e siccome era sempre presente in lui il gusto per l'improvvisazione, cosa che piaceva moltissimo agli americani, lo si vide spesso salire su una sedia per tenere una concione, così, su due piedi.

Come si è detto Winston Churchill doveva trascorrere ben quattro settimane negli Stati Uniti; ebbe poi dei colloqui in Canada tra i quali uno, molto importante, con il primo ministro.

Purtuttavia, proprio mentre Churchill faceva i suoi discorsi agli americani, la nazione inglese si apprestava a conoscere i più grandi disastri della sua storia. La Malesia, le Filippine, le Indie Olandesi, la Nuova Guinea, cadevano ad una ad una nelle mani giapponesi. E in un triste giorno di febbraio doveva cadere in loro mani anche Singapore.

Singapore era per gli inglesi quasi un simbolo, il baluardo imprendibile, la fortezza inespugnabile; per questo la perdita di Singapore venne definita da Churchill «il più grande disastro della storia militare inglese».

Il giorno di Natale, proprio mentre Churchill si trovava negli Stati Uniti, era caduta nelle mani dei giapponesi anche Hong Kong. Furono poi vittime dell'invasione nipponica Bali, Timor, Giava, Rangoon... Sembrava che nulla potesse arrestare la macchina bellica nipponica, che nulla potesse far fronte a quella violenza distruttrice.

Si ebbero delle sedute parlamentari proprio per studiare la situazione e approntare i mezzi per farvi fronte.

Nel giugno del 1942 Churchill partì (per la terza volta) per gli Stati Uniti, accompagnato dai suoi tecnici e dai suoi generali. Con il presidente Roosevelt prese atto delle continue perdite subite a causa dei sommergibili tedeschi; era uno stillicidio cui si doveva porre rimedio.

I colloqui durarono circa una settimana. Alla fine il primo ministro e il presidente si erano detti tutto o quasi.

Al suo ritorno in patria, altre cattive notizie dovevano attenderlo. In Africa settentrionale i tedeschi con il loro Afrika Korps, guidato dal generale Rommel, erano riusciti a cacciare le truppe inglesi, facendole retrocedere fino al confine egiziano, poi ancora oltre fino ad una plaga desertica, ultima difesa prima di Alessandria d'Egitto.

Persino in Russia i tedeschi, dopo essere stati bloccati dall'inverno, adesso erano in grado di riprendere l'iniziativa: le avanguardie erano alle porte di Stalingrado e avevano raggiunto i pozzi di petrolio del Caucaso.

Churchill, estremamente preoccupato, anche se non lo dava a vedere, decise di andare di persona a rendersi conto di come si svolgessero i fatti.

Lo statista britannico aveva intenzione di compiere un giro d'orizzonte sui diversi fronti. Aveva riacquistato la sua imperturbabile calma tanto che, durante il sorvolo della Tunisia, che avvenne di notte, si presentò in pantofole e vestaglia nella cabina di pilotaggio e si mise a fare quattro chiacchiere con il pilota. Il mattino dopo, arrivato al Cairo, comparve vestito da commodoro dell'aria con sul petto tre file di decorazioni, a cominciare dal nastrino della guerra cubana, la prima cui avesse partecipato.

Nel summit egiziano, alla presenza di re Faruk, ci fu un incontro con il primo ministro, con il generale De Gaulle, con il generale Catroux e con il generale Wavell; vi erano poi altri comandanti britannici e il primo ministro del Punjab.

Dopo questo incontro, Churchill volle esaminare la situazione ad El-Alamein, dove resisteva l'armata inglese che aveva perso più di 80.000 uomini. Qui ci fu un abboccamento con il generale Auchinleck, comandante in capo delle truppe britanniche, e con altri ufficiali dello stato maggiore. Fra questi, Churchill ebbe la sorpresa di trovare alcune vecchie conoscenze molte delle quali risalivano alla prima guerra mondiale.

Finito il giro d'ispezione, riprese la via dell'aria per recarsi in Iran. Questa volta il suo aereo, sul quale vi erano, oltre a un cameriere e un segretario, un medico e un poliziotto di scorta, era seguito da ben 14 velivoli britannici e 6 statunitensi.

A Teheran ci fu un colloquio con lo Scià di Persia, poi la carovana riprese il volo in direzione dell'Unione Sovietica.

Mentre all'orizzonte appariva il Mar Caspio, gli aerei volavano a una quota tale che fu necessario ricorrere alle bombole d'ossigeno.

La rotta era in direzione di Mosca, via Kuibiscev. All'aeroporto i britannici e gli statunitensi erano attesi e, lungo il bordo della pista, erano già allineate delle berline di color nero, con i vetri infrangibili, mastodontiche e pesanti. Ad uno ad uno cominciarono a scendere sull'aeroporto gli apparecchi. Mancava però quello del generale Wavell, evidentemente attardatosi; questo creava un piccolo inconveniente dato che, fra tutti, il generale era il solo che conoscesse bene il russo.

Ci fu quindi un incontro con Stalin. Era la prima volta che Churchill aveva modo di trovarsi faccia a faccia con il dittatore sovietico, il quale gli riservò un'accoglienza calorosa tendendogli la mano dopo aver posato la pipa che stava fumando.

Churchill, che era stato ingannato dalle fotografie, ebbe la sorpresa di trovarsi davanti a un uomo più piccolo di lui.

Un primo colloquio, alla presenza degli ambasciatori delle due potenze, Stati Uniti e Gran Bretagna, e di diversi ufficiali degli eserciti alleati e russo, durò quattro ore; particolarmente fitto fu il dialogo fra Molotov e Harriman.

Nella capitale sovietica Churchill doveva fermarsi quattro giorni, intensi di trattative, senza diversivi e nemmeno la possibilità di vedere un balletto al famoso Bolscioi. Solo nella giornata di venerdì si ebbe un banchetto eccezionale. Mentre Mosca soffriva la fame, in onore degli ospiti alleati vi erano tutte le primizie dei frutti, una quantità incredibile di selvaggina, l'immancabile caviale e l'altrettanto immancabile champagne del Mar Nero.

I cronisti registrarono ben 20 portate e 25 brindisi.

Stalin, per l'occasione, era in stivali, pantaloni scuri e giacca bianca. Churchill invece, sempre in vena di stupire, vestiva una tuta da ginnastica con cerniera lampo che gli era particolarmente cara e che usava indossare quando era svegliato all'improvviso e doveva ricevere immediatamente qualcuno.

Al mattino presto di domenica, gli aerei britannico-statunitensi erano di nuovo in volo per Teheran con rotta successiva fino al Cairo.

Dai colloqui con i sovietici erano emerse alcune divergenze, volendo, i russi, che si aprisse subito un secondo fronte a ovest e che venissero attirate sul fronte occidentale le truppe germaniche per poter resistere alle offensive sferrate ad est, e i britannici, mostrandosi più prudenti, che non fosse fatta convogliare la truppa a ovest prima di aver risolto il problema africano.

Proprio questo era al centro dell'attenzione di Churchill che si fermò nuovamente nella zona di El-Alamein a ispezionare con pignoleria inaudita il fronte.

Questa volta superò se stesso in eccentricità. Alla tuta aveva aggiunto un casco coloniale e un ombrellino di seta bianca da usare per ripararsi dai raggi del sole. Poi approfittò di un rimorchio allestito a roulotte, preda bellica catturata a un generale italiano, per pernottare sul posto.

Un giornalista presente scriverà che Churchill, in quei giorni, era «un misto di Falstaff, di Pickwick e di Amleto». Poi, volendo visitare tutte le truppe, si fece trasportare da una cingoletta che era stata battezzata Honey Tank (carromiele) e percorse più volte gli schieramenti. E non perse neppure l'occasione di fare un bel bagno in mare, questo all'età di 67 anni suonati. Negli ultimi giorni aveva percorso in aereo o su mezzi terrestri ben 15.000 chilometri. Non solo, ma aveva anche parlato con più di 50 persone. E come un ciclone aveva fatto tutti i cambiamenti possibili fra i comandanti.

 

Una delle chiavi per conoscere il pensiero di Churchill in questi bui mesi di guerra, l'abbiamo nel carteggio tenuto dai tre grandi: Churchill stesso, Stalin e Roosevelt. Incomincia con un'interessante lettera di Churchill a Stalin in data 8 luglio 1941. In essa si dice che le incursioni di velivoli britannici sulle città tedesche si fanno sempre più frequenti e aumentano di efficacia; si spera in tal modo, di far dirottare dai comandanti tedeschi parte delle flottiglie aeree che stanno mettendo a dura prova l'Unione Sovietica. Il 10 del mese una seconda lettera, che reca la dicitura molto confidenziale, parla di una possibile intesa britannico-russa. Il giorno 21, in risposta a un messaggio di Stalin che chiede aiuti e che vuole che si apra un secondo fronte occidentale (un chiodo fisso per il dittatore russo), Churchill fa un quadro realistico della situazione. Dice in questo messaggio, recante la dizione segreto, che «sarà fatto tutto ciò che di ragionevole ed efficace si possa fare» per apportare aiuti. Anche se sottolinea che è doveroso considerare la situazione della Gran Bretagna che si trova a dover combattere da sola; poi parla degli aiuti che verranno dati all'Unione Sovietica sotto forma di materiale bellico; difatti il 26 luglio dello stesso 1941 Churchill fa sapere a Stalin che saranno inviati al più presto in Unione Sovietica ben duecento caccia Tomahawk.

Inoltre verranno, se possibile, fatti mandare dei tecnici statunitensi per le necessarie manutenzioni. Si aggiungeranno tre milioni di paia di scarponi e diverse tonnellate di gomma, stagno, piombo, lana, vestiario, ecc.

In questi messaggi non si parla solo di materiale, ma vengono rivelate anche le intese trascorse fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti: la Gran Bretagna aveva chiesto agli USA 250.000 fucili che, sottolinea Churchill, erano arrivati subito.

Il 1 ° agosto Churchill fa sapere a Stalin che erano stati spediti con destinazione Unione Sovietica altre 10.000 tonnellate di gomma in aggiunta alle diecimila già pervenute dalla Malesia. Il 30 agosto comincia l'invio di 440 caccia Hurricane con relativi tecnici ed istruttori. Si trattava di velivoli armati con 8 o 10 mitragliatrici e che in azione risultavano «micidiali».

Gran parte degli aiuti all'Unione Sovietica avvengono nel quadro della legge affitti e prestiti, cioè in base agli accordi che prevedono la fornitura di materiale bellico per tutte le zone considerate di vitale importanza per gli Stati Uniti. Il 3 ottobre del 1941, in un lungo messaggio, Churchill promette di inviare entro il giorno 12 di ottobre 20 carri pesanti e 193 caccia; per il giorno 29, 140 carri pesanti, 100 apparecchi Hurricane, 200 mitragliatori Bren, 50 cannoni calibro 42 con relativo munizionamento, 200 fucili anticarro. Il giorno 22 salpa alla volta dell'Unione Sovietica un altro convoglio di 200 caccia e 120 carri pesanti...

Gran parte del materiale bellico arrivava direttamente dagli Stati Uniti avendo per meta il porto di Vladivostok; altro materiale partiva dal Canada, altro ancora arrivava via terra su carri ferroviari provenienti dall'Iran. A seguito del massiccio invio di aiuti via mare (i convogli provenienti dagli Stati Uniti), il Giappone protestò vivamente informando l'ambasciata russa a Tokio; a sua volta l'Unione Sovietica minacciò ritorsioni sui convogli di rifornimenti destinati al Giappone. 35 piroscafi carichi di materiale bellico erano annunciati il giorno 2 maggio 1942 con destinazione il porto di Vladivostok; per l'occasione Churchill chiese a Stalin di far di tutto per proteggere il convoglio dalle insidie soprattutto aeree.

Il 18 luglio 1942 Churchill scriveva che convogli di autocarri avrebbero trasportato via Siria 75.000 tonnellate di aiuti al mese; per settembre e ottobre si prevedeva un intensificarsi di questi aiuti in ragione di 95.000 tonnellate a settembre e 100.000 a ottobre.

I contatti si fecero poi ancora più frequenti verso il settembre del 1942 quando gli inglesi comunicarono i risultati dei loro servizi informativi volti a conoscere le effettive possibilità di produzione delle varie fabbriche tedesche operanti nel settore degli armamenti ma soprattutto nel settore aeronautico.

Il carteggio Stalin-Churchill, come anche quello Churchill-Roosevelt, non toccò soltanto l'aspetto politico ma anche quello informativo; non mancarono, ovvio, messaggi d'auguri o semplici comunicazioni su argomenti non bellici. Vi furono poi contatti brevissimi, quasi telegrafici, nella loro concisione; ecco, per esempio, un messaggio «personale e segreto» inviato da Stalin a Churchill:

 

Ricevuto vs. messaggio dell'11 gennaio u.s. Grazie per l'informazione. Le operazioni delle ns. truppe sui fronti contro molti tedeschi per ora vanno bene. Stiamo ultimando l'annientamento del gruppo di unità tedesche accerchiate a Stalingrado. Altrettanto laconico quello di Churchill del 17 gennaio 1943: Lanciate su Berlino la notte scorsa 142 tonnellate di bombe dirompenti e 218 tonnellate di bombe incendiarie.

 

L'aneddotica su Churchill non poteva non annoverare le pagine che riguardano lo statista e i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Abbiamo già visto quale accoglienza gli fosse concessa e come si fosse già accattivato le simpatie dell'uditorio americano. Pochi sanno, però, che nel corso del soggiorno statunitense venne alloggiato alla Casa Bianca e che egli, subito adattatosi, si considerò quasi un membro della famiglia, indossando spesso la sua tuta e facendo delle corsettine o delle passeggiate nei viali della residenza ufficiale del presidente degli Stati Uniti.

Il 27 dicembre, quando giunse la notizie della caduta di Hong Kong, vittima dell'espansionismo nipponico, Churchill si presentò di fronte al Congresso americano, così diverso dal Parlamento britannico cui si era ormai abituato. Ma seppe giocare così bene con gli argomenti e toccare le corde giuste che alla fine gli applausi furono quasi d'obbligo. Quello era il giorno più commovente della sua vita, perché, essendo inglese, era stato accolto calorosamente; per di più si sentiva quasi partecipe di quella atmosfera pensando ai suoi antenati americani che tanta parte avevano avuto nella storia degli Stati Uniti.

Poi spiegò come non si sentisse affatto un pesce fuor d'acqua ma anzi fosse a suo agio in quell'assemblea legislativa dove si parlava inglese: «Sono un figlio della Camera dei Comuni» aggiunse; «ho imparato nella casa di mio padre a credere nella democrazia (...) ecco perché in tutta la mia vita mi sono sentito in perfetta armonia con la marea che si era levata, dalle due coste dell'Atlantico, contro i privilegi e i monopoli». E quanto alla guerra, tema principale, disse:

«Due volte nel corso dello stesso secolo, di una stessa generazione, la catastrofe della guerra mondiale si è abbattuta su di noi. Due volte nel corso della nostra vita il lungo braccio del destino si è esteso oltre l'Oceano trascinando gli Stati Uniti sul fronte di battaglia. Se durante la prima guerra mondiale fossimo rimasti l'uno accanto all'altro, se avessimo adottato delle misure comuni per garantire la nostra sicurezza, questa maledizione non si sarebbe rinnovata. Cinque anni fa sarebbe stato difficile per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ottenere, senza versare una sola goccia di sangue, che la Germania rispettasse le clausole dei trattati che aveva sottoscritto e che concernevano il suo disarmo. Si sarebbe allora presentata l'occasione di assicurare alla Germania quelle materie prime che con la carta dell'Atlantico ci siamo impegnati a non rifiutare ad alcuna nazione vittoriosa o vinta. Quella occasione è passata e non si ripresenterà mai più. Per avvicinarci ci sono volute delle violente mazzate».

Seguivano in questo discorso delle generiche intenzioni di programmi comuni tra inglesi e americani; entrambi i paesi non avrebbero cercato di ingrandirsi territorialmente; nessuna modifica territoriale sarebbe avvenuta senza il consenso deliberatamente espresso dei popoli.

A seconda di come procedevano gli avvenimenti bellici, Churchill poteva scampare alle ire del Parlamento o caderne vittima; solo un uomo con i nervi saldi come i suoi avrebbe potuto sopportare tutto ciò che in realtà ebbe a patire. Il primo ministro diventava insomma il bersaglio favorito di quanti vedevano nella sua condotta il riflesso dei rovesci che avvenivano sul fronte. Rommel, il generale tedesco che comandava l'Afrika Korps, arrivava con le sue truppe fino a El-Alamein? Subito si chiedeva conto a Churchill del perché potesse accadere una cosa del genere. Particolarmente accanito contro Churchill era il deputato Wardlaw-Milne; tanto accanito che dirà di Churchill tutto il male possibile indicandolo alle ire del Parlamento come il responsabile di tutti i rovesci della storia militare britannica all'infuori della celebre battaglia di Hastings. Era un colpire basso, un indicare Churchill come guerrafondaio incapace e, alla prova dei fatti, imbelle. Eppure la situazione dei fronti nel loro complesso non era così tragica come le critiche del deputato avevano indicato. Prima di tutto occorreva mettere in conto delle armate di Hitler le disastrose perdite subite in Unione Sovietica le quali erano pari al totale delle perdite avute dalla Germania al tempo della prima guerra mondiale. Poi sui diversi fronti le cose andavano abbastanza bene; unico neo l'Africa Settentrionale dove si era registrata la caduta di Tobruk che aveva fatto prendere nella rete 25.000 uomini; ma non erano solo le perdite in uomini che erano tragiche, quanto la perdita dei mezzi che si trovavano a Tobruk: mai i tedeschi avevano potuto raccogliere un bottino così cospicuo. C'era di tutto, dai carri ai cannoni, dalle cingolette ai mortai, dai generi alimentari, le cosiddette razioni K, fino ai capi di vestiario militare. Per cui, come dice il Brennand, si arrivò a una mozione di questo tipo: «La Camera dei Comuni mentre da un lato rende omaggio all'eroismo e alla resistenza delle forze armate reali che si sono battute in circostanze estremamente avverse, non nutre d'altra parte alcuna fiducia nella direzione centrale delle operazioni».

Eppure non si poteva ignorare lo sforzo compiuto dai britannici e dalle truppe dei dominions per sostenere tutto il peso della guerra nello scacchiere occidentale e nei possedimenti dell'Estremo Oriente. Inoltre c'era da mettere sul piatto della bilancia anche l'apporto che stava dando l'Unione Sovietica con i suoi immensi territori nei quali diventava estremamente difficile per i tedeschi curare i rifornimenti. L'aggressione alla Russia del 22 giugno era stata la scintilla che avrebbe appiccato il fuoco a mezzo mondo.

I tedeschi forse pensavano che non facendo parte la Russia di nessun sistema di alleanze non avrebbe trovato alcun supporto fra inglesi e americani. Ma non avevano tenuto conto del fattore climatico, dell'eccessivo dilatarsi dei rifornimenti e soprattutto del comportamento del Giappone. Il Giappone era impegnato nella guerra cinese e si era buttato verso l'Indocina; era fine luglio quando venne deciso di invadere il territorio indocinese; poi la condotta della guerra era passata da un uomo relativamente moderato come il principe Konoye a un convinto fautore dell'espansione con la forza delle armi: il generale Tojo.

Sarà appunto l'espansionismo giapponese a coinvolgere gli Stati Uniti nella guerra. D'altra parte, per quanto non intervenuti ancora ufficialmente, gli americani avevano intensificato oltre ai rifornimenti di materiale bellico anche i rapporti diplomatici. Il segretario personale di Roosevelt, Harry Hopkins, si era abboccato più volte con Churchill. Il risultato immediato era stato quello di rifornire l'Inghilterra a un ritmo senza precedenti nella storia: tra la Casa Bianca e il numero 10 di Downing Street si era stabilito un contatto telefonico permanente e proprio grazie al telefono erano arrivati in acque inglesi primi cinquanta cacciatorpedinieri. Erano navi made in USA dati nel quadro della legge affitti e prestiti.

Erano poi parole di Roosevelt quelle pronunciate nel tradizionale discorso di fine anno: «Niente potrà farci recedere dalla decisione di aiutare la Gran Bretagna». Frase che veniva subito dopo il più pressante appello in favore della democrazia pronunciato in quegli anni: «Noi» aveva detto Roosevelt, «siamo il grande arsenale della democrazia».

Proprio con l'aiuto statunitense i britannici riusciranno a rimettere in piedi il fronte africano: saranno, infatti, i nuovissimi carri Sherman, dono degli Stati Uniti, a raddrizzare la situazione ad El-Alamein e a far tornare indietro le truppe di Rommel. E quasi contemporaneamente al ribaltarsi del fronte avveniva il primo intervento americano diretto con il progetto di aprire un secondo fronte o in Tunisia o in Europa, sulle coste francesi. Il 10 novembre, a conclusione dei successi nello scacchiere africano, Churchill disse: «Questa non è la fine. Non è nemmeno il principio della fine, ma è forse la fine del principio». Per poi integrare il pensiero suo con questo concetto: «I nostri pensieri si rivolgono verso la Francia che soffre e geme sotto il tallone d'acciaio del nazismo. Da parte nostra non abbiamo che un desiderio: vedere una Francia forte e libera, circondata dal suo impero e riunita all'Alsazia-Lorena. Noi non bramiamo nessun possedimento francese, non abbiamo delle mire ambiziose sull'Africa settentrionale né su altre parti del mondo (...). Noi conduciamo questa guerra in nome dell'onore e per fare il nostro dovere difendendo il diritto».

Ma per condurre una guerra bisogna soprattutto avere dei generali capaci; e l'Inghilterra li aveva a cominciare da Montgomery, il vincitore, di El-Alamein. Montgomery, soprannominato dai soldati «Monty», aveva attentamente studiato il modo di portare l'attacco operato da Rommel; il generale tedesco adottava una tattica molto efficace; faceva aprire il fuoco dai cannoni con granate anticarro (si trattava delle bocche da fuoco da 88 utilizzate come contraerea ma che nel deserto sparavano con alzo zero), poi dopo aver annientato i mezzi blindati dell'avversario faceva intervenire i suoi carri che completavano la distruzione; Monty decise allora di fare altrettanto ed ebbe l'accortezza di far scendere i suoi tanks in buche scavate nella sabbia, con la sola torretta emergente e pronta a far fuoco; così, quando si presentarono, i tedeschi vennero accolti da un diluvio di granate e furono costretti a ritirarsi.

 

Era incominciato il riflusso della marea, quello che gli inglesi chiamano «the turn of the tide»; nel marzo 1942 la città di Lubecca era stata rasa al suolo; nel mese di maggio arrivarono sopra Colonia ben 1130 bombardieri; oltre che sul mare, l'Inghilterra cominciava a conoscere un decisivo sviluppo nei cieli. Nel settembre dello stesso anno, e precisamente il giorno 14, il generale Alexander passava al contrattacco sul fronte africano; il 7 novembre si aveva uno sbarco di truppe in Africa Settentrionale per creare una testa di ponte anglo-americana che avrebbe chiuso in una morsa le truppe italo-tedesche in Tunisia.

Il giorno 10 novembre Churchill, a pranzo dal sindaco di Londra, pronunciava la frase storica: «Questo non è l'inizio della fine, ma è la fine dell'inizio».

A gennaio del 1943, dopo la conferenza di Casablanca (che aveva visto gli alleati — con l'esclusione dei russi — dibattere questioni che andavano dalle costruzioni navali all'allestimento di nuove truppe), incominciarono i grandi bombardamenti statunitensi con l'impiego di fortezze volanti, dei quadrimotori ad ampia autonomia, e fu accelerata la costruzione di navi semplificate e assemblate a blocchi, le cosiddette Liberty; si sperava così di arginare le grandi perdite arrecate dai sommergibili tedeschi che agivano in branchi. Nel febbraio del 1943 cominciarono i bombardamenti a tappeto sulle industrie tedesche, le cosiddette incursioni del giro dell'orologio perché le ondate di bombardieri si susseguivano senza posa giorno e notte sugli stessi obiettivi.

E per quanti dubbi si fossero avuti dapprincipio, la guerra contro il Giappone sembrò inevitabile: «Noi inglesi» aveva detto Churchill, «abbiamo un interesse uguale a quello degli Stati Uniti a condurre una guerra senza requie contro il Giappone (...) Si può stare sicuri che se fosse sufficiente dare un ordine alle potenti armate che si trovano in India di marciare verso il Sol Levante aprendo la via della Birmania, quest'ordine sarebbe stato dato questo pomeriggio stesso; ma la questione è più complessa (...). La disfatta del Giappone non significherebbe la fine della Germania, mentre la fine della Germania sarebbe senza dubbio la fine del Giappone».

Tuttavia gli inglesi non erano ancora preparati per un attacco del genere; nonostante i pesantissimi bombardamenti, la Germania sembrava non cedere e il riarmo proseguiva con lo spostamento delle fabbriche e dei reparti di assemblaggio nei paesi occupati o, addirittura, come sarà il caso delle V1 e V2 (i giganteschi razzi che bombarderanno Londra), si lavorerà nel sottosuolo a decine di metri sotto la superficie.

Tutte le lavorazioni importanti erano sottoterra: così verranno scavate, nelle rocce prospicienti il mare, gigantesche caverne per albergarvi i sommergibili.

Nel più manifesto disprezzo della Convenzione di Ginevra, migliaia di prigionieri erano adibiti alla fabbricazione di armi o parte di esse, mentre le detenute venivano impiegate nella confezione e nell'allestimento di indumenti militari. A mano a mano poi che i rovesci della guerra assottigliavano le file dei reparti al fronte, si ricorreva a truppe straniere inquadrate in speciali corpi (le Waffen SS). C'era poi il famigerato reclutamento forzato di civili delle nazioni occupate che venivano inquadrati in speciali reparti della organizzazione del lavoro (la Todt). Così migliaia e migliaia di stranieri eressero lungo i confini del Reich centinaia di sbarramenti difensivi, trincee anticarro, bunker, torrette. Diverse lavorazioni poi avvenivano nei pressi dei terribili campi di sterminio, dove erano confezionate la maggior parte delle divise militari, dove sorgevano laboratori chimici, fabbriche di apparecchiature elettriche, cave di pietra, cementifici, e così via. Entro i confini del Reich, che si dilatavano o si contraevano a seconda dell'andamento delle operazioni, immense masse di uomini venivano spostate, da un punto all'altro, in giganteschi convogli di carri merci e adibite ai più diversi compiti.

A mano a mano che il conflitto si allargava o causava gravi perdite, le retrovie registravano l'afflusso di manovalanza straniera, spesso venuta volontariamente, attirata da una prospettiva di lavoro abilmente propagandata. Migliaia di donne ucraine vennero spostate al centro della Germania per essere adibite ai lavori più vari, anche agricoli. Tecnici boemi, chimici e fisici finnici, russi, croati, slovacchi, e di decine di altri paesi, lavorarono nelle fabbriche tedesche, in cambio di un po' di pane.

A mano a mano che la manodopera tedesca veniva inviata ai fronti, i vuoti erano colmati con prigionieri o falsi «volontari» di quasi tutti i paesi. Anche in Italia ci fu una martellante propaganda dell'organizzazione Todt, tanto che a migliaia si possono contare coloro che vennero impiegati nelle riparazioni dei guasti provocati dalla guerra: era facile vederli lungo le strade ferrate o alla costruzione di bunker.

 

Sulla mancata collaborazione (cominciata dal non intervento al vertice di Casablanca) dell'Unione Sovietica, Churchill ebbe a lamentarsi.

«Saremo felici di poter avere con noi dei rappresentanti della Russia nelle decisioni politiche che le vittorie delle forze anglo-americane nel Mediterraneo richiedono. Non vi è, infatti, misura che noi si possa prendere o che siamo costretti a prendere, in dipendenza dell'imprevedibile sviluppo della guerra sulla quale noi desideriamo metterci d'accordo con i nostri amici e alleati russi nel modo più franco e fiducioso. Sarebbe un gran vantaggio per tutti noi e per l'intero mondo libero se si potesse realizzare un'unità di pensiero e di decisione fra i tre grandi avversari della tirannide hitleriana; sia che si tratti di precisi programmi concernenti il lontano avvenire, sia che si tratti di programmi strategici».

Le intenzioni di Mosca, però, vertevano sempre su un solo argomento: si voleva creare un secondo fronte all'ovest per alleggerire la pressione tedesca ad est. L'attività di Churchill in questo periodo aveva comunque qualche cosa di febbrile; lo statista correva da un punto all'altro del globo: aveva incominciato l'anno con un viaggio in Marocco, in Egitto e in Turchia; aveva attraversato l'Atlantico almeno quattro volte e poi era stato a Gibilterra, ad Algeri, a Malta, in Egitto e in Canada, in Palestina e nell'Iran: proprio in quest'ultimo paese, nella capitale Teheran, si ebbe un colloquio fra i «grandi»: dal 26 novembre al giorno 2 dicembre Churchill ebbe degli abboccamenti con Stalin al quale aveva donato una sciabola con una dedica per i cittadini di Stalingrado: la sciabola veniva donata in nome del re in persona, Giorgio VI. Stalin l'ammirò lungamente poi la diede al maresciallo Voroscilov.

Ci fu anche l'occasione di festeggiare il 69° compleanno dello statista britannico, con una torta monumentale che reggeva, appunto, 69 candeline. Seguivano i doni che andavano da un diamante, a tappeti, monete, berretti. Stalin brindò alla salute di Churchill chiamandolo «amico» e inchinandosi con la tradizionale coppa di champagne. Fu un ricevimento sfarzoso senza quelle preoccupazioni che avevano contraddistinto le varie fasi dei colloqui.

 

 

Capitolo XIV

LA DIVISIONE ORIENTE-OCCIDENTE

 

Churchill, Roosevelt e Stalin concordarono una comune condotta di guerra; la conferenza di Casablanca, avvenuta nel gennaio del 1943, aveva dato l'avvio alla cooperazione stretta tra i generali Alexander, inglese, ed Eisenhower, americano. La conferenza di Teheran si tenne in novembre; il comunicato finale della conferenza diceva testualmente:

«I nostri stati maggiori generali si sono incontrati in una tavola rotonda dove si sono studiati i piani per l'annientamento delle forze tedesche. È stata raggiunta una perfetta intesa stabilendo i tempi delle operazioni da farsi ad oriente, a occidente e nel meridione».

Si constatava poi come la guerra si stesse volgendo a favore delle truppe alleate mentre quelle italo-tedesche segnavano il passo. Particolarmente vulnerabile si presentava l'alleato italiano. Anzi l'Italia veniva definita come il «ventre molle dell'Asse».

Churchill, quand'era arrivato a Teheran, venne condotto alla sede della legazione britannica; era un edificio basso circondato da un piccolo parco con bordure di fiori. Poco più in là, alla distanza di circa cento metri, vi era la sede dell'ambasciata sovietica. La strada era tutta disseminata da sbarramenti, compresa una doppia cintura di soldati inglesi e russi; anche le frontiere dell'Iran erano state temporaneamente chiuse. Dal 26 novembre al 2 dicembre, Roosevelt, Churchill e Stalin fecero dei lunghi colloqui insieme. Roosevelt era in borghese mentre Churchill era impettito nella divisa di commodoro dell'aria; Stalin, dal canto suo, indossava una blusa chiara con un solo nastrino di decorazione. In quell'occasione Churchill ebbe modo di fare lunghi colloqui con lo scià di Persia. Furono offerti reciprocamente dei pranzi: uno si svolse con sfarzo nella sede dell'ambasciata sovietica. Un secondo ricevimento si ebbe nella sede della legazione britannica. Per quell'incontro fu lo stesso Churchill a vergare i biglietti d'invito insieme alla figlia Sarah; comunque le cronache registrano che fu una parentesi rasserenante...

Nel comunicato finale, che chiuderà la serie di incontri e colloqui, verrà detto che i rappresentanti delle rispettive nazioni avevano trovato una politica comune arrivando a un accordo che si doveva tramutare l'indomani in una pace duratura (pace che Roosevelt non potrà vedere in quanto morirà prima a causa di un tumore).

Dopo la conferenza di Teheran, Churchill s'era recato nuovamente al Cairo dove aveva incontrato il presidente della Turchia, Ineunu. Ma era stanco, talmente stanco che il 12 dicembre dovette mettersi a letto. Pochi giorni dopo si è ammalato di polmonite. Lord Maran, suo medico, il quale lascerà un libro ricco di aneddoti e di particolari sul suo illustre paziente, lo curò facendo venire anche la figlia di Churchill, Sarah, seguita poi dalla moglie; ma quando venne quest'ultima, egli era già da un pezzo fuori pericolo e si trovava a Marrakesch, nel Marocco francese, per ristabilirsi un po'. Nel frattempo, mosso da una di quelle sue invincibili curiosità, aveva cominciato a interessarsi di ciò che faceva Eisenhower; e ben presto fra i due era sorta un'amicizia utilissima per le sorti del conflitto. Vivi, anche se più formali, erano invece i rapporti con Roosevelt. Di fatto questo formalismo rimase tale fino agli ultimi giorni. Comunque, sfogliando nelle corrispondenze, nei dossiers e negli appunti, troviamo un simpatico aneddoto: una notte il presidente degli Stati Uniti si sentì in dovere di parlare d'una cosa urgentissima con il primo ministro inglese; ma entrato che fu nella camera dell'ospite, sorprese quest'ultimo in costume adamitico; fatte le scuse, si sentì rispondere che la Gran Bretagna non aveva nulla da nascondere...

Dopo l'intesa di Casablanca nel gennaio del 1943, la storia segue il va e vieni delle armate in campo che si farà sempre più accelerato e confuso dopo Teheran. Le capacità diplomatiche di un Churchill e il suo «talento» per le carte militari, in quei giorni venivano vanificati dalla febbrile contesa: le forze tedesche, dopo i rovesci avuti in Tunisia e a Stalingrado, stavano disperatamente cercando di fare argine alla pressione avversaria; il clima politico e il morale della popolazione preoccupavano i tedeschi che constatavano come al fronte mancasse la combattività e dove i reparti si arrendevano a centinaia. L'Asse aveva una situazione preoccupante anche in Estremo Oriente dove l'avanzata giapponese aveva subito una battuta d'arresto; proprio il problema dell'Estremo Oriente era stato fra i principali temi della conferenza di Casablanca; altre situazioni esaminate furono:

— la situazione delle forze inglesi nelle Indie e in Birmania;

— il panorama indocinese fu esaminato insieme a quello della Malesia e della Cina di Ciang-kay-schek;

— la situazione sul fronte balcanico e il ruolo che vi avevano i partigiani di Tito;

— i rapporti interalleati.

 

Il giorno 13 maggio del 1943 gli italo-tedeschi si arrendevano in Tunisia. Churchill prese il destro da quest'episodio per uno dei suoi celebri discorsi e per l'invio di alcuni messaggi al generale Alexander, al comandante dell'aviazione Tedder e al generale francese Giraud; questo il giorno 11, due giorni prima della resa definitiva. Al generale Eisenhower vennero le felicitazioni della famiglia reale e di Churchill. In quei giorni Eisenhower era il comandante in capo delle forze alleate nell'Africa Settentrionale, mentre Alexander era un deputy commander, cioè un comandante in seconda, responsabile della strategia.

Proprio al generale Alexander toccava comunque il miglior elogio.

Dicevano infatti le parole di Churchill:

«È capitato a voi di guidare tutta una serie di battaglie che si sono risolte con la distruzione della potenza tedesca e italiana in Africa Settentrionale. Da El-Alamein a Tunisi, con sei mesi di marce e battaglie ininterrotte, di duri combattimenti, voi e il vostro luogotenente Montgomery avete scritto un capitolo glorioso negli annali del Commonwealth britannico e dell'impero. Le vostre manovre nel corso dell'ultima battaglia saranno prese a modello nella storia come capolavori dell'arte militare...».

Al generale Tedder scriveva che il successo delle armate statunitensi e britanniche non avrebbe potuto esser tale senza il concorso dell'aviazione alleata. Quanto al generale francese Giraud, comandante in capo delle forze francesi in Africa, ebbe da Churchill la soddisfazione nel vedere come le unità francesi, che combattevano accanto agli alleati, venissero tenute in considerazione.

Il 25 maggio del 1943, Churchill, che si trovava negli Stati Uniti a Washington, prospettò a 150 giornalisti la situazione nelle sue fasi. Ebbe delle felici battute come quando disse che l'asino italiano andava trattato con la politica del bastone e della carota; aveva poi detto che dalla pagina di El-Alamein in avanti si era avuto un successo sempre più crescente e una decisiva vittoria; inoltre ben duemila tonnellate di bombe erano state fatte cadere sulla sola città di Dortmund. Gli alleati erano inflessibili: o resa incondizionata o prosieguo della guerra fino all'annientamento.

Particolarmente delicato, tenuto conto delle diverse nazioni in campo, e dei più diversi reparti, era il settore logistico e l'armonizzare i diversi comandi fra di loro. Per esempio fra i due francesi, il generale De Gaulle da una parte e il generale Giraud dall'altra, i contrasti erano pressoché insanabili.

Avvenivano inoltre strani episodi, come l'assassinio del rappresentante della Francia di Vichy; fatti che non saranno mai chiariti.

Alla fine del gennaio 1944 Leningrado era liberata dalle truppe tedesche; in Italia, intanto, dopo il 15 luglio che aveva visto il fascismo cadere, veniva proclamato, l'8 settembre del 1943, l'armistizio. Si erano infittiti i contatti tra esponenti delle diverse potenze; l'appoggio alle unità combattenti di Tito, mentre re Pietro di Jugoslavia era a Londra, aveva permesso il capovolgimento del fronte balcanico; a Londra si era costituito un governo polacco in esilio mentre reparti polacchi, inquadrati dai britannici, partecipavano alle operazioni in Italia e stavano risalendo lo «stivale» pronti per affrontare la linea gotica.

In quel tempo Churchill parlò a lungo con Umberto di Savoia, poi si abboccò anche con il papa. Ebbe un incontro anche con il ministro dell'Italia (già liberata dall'avanzata delle truppe anglo-americane), Bonomi. Altri incontri si ebbero con esponenti in esilio degli stati baltici (che erano caduti nella sfera d'influenza sovietica). La situazione era quanto mai confusa: gli stati balcanici, che avevano fornito contingenti di truppe ai tedeschi che li avevano convogliati in Russia (è il caso della Bulgaria o della Romania), sull'onda della penetrazione sovietica dichiaravano guerra alla Germania — è il caso della Bulgaria — o chiedevano un armistizio, è il caso della Romania. La Jugoslavia, nonostante la presenza dei croati armati dai tedeschi, dei cetnici, dei domobrani, ecc., vedeva una sempre maggiore avanzata dei partigiani di Tito.

La Germania stava facendo degli sforzi incredibili per contenere i fronti e far affluire i mezzi necessari; aveva fatto la comparsa il carro «Tigre» con i cingoli larghi impiegati per la prima volta contro i russi forti del loro «T 34». Si stavano sperimentando aerei con propulsione a razzo, velivoli con propulsione a reazione, alianti per i paracadutisti costruiti con materiali non individuabili dal radar. Ma la costruzione e la messa in cantiere dei prototipi, veniva sempre più ostacolata dai bombardamenti alleati ai quali la decimata Luftwaffe non era in grado di contrapporsi validamente. C'era una gara con il tempo per mettere a punto la bomba atomica, c'era l'allestimento di batterie mobili di V1 e V2. Ma la superiorità alleata, la dovizia di mezzi americani diventava sempre più schiacciante.

È sufficiente ascoltare le parole di Churchill in un messaggio radiotrasmesso per rendersi conto come egli traboccasse d'ottimismo in tutte le frasi. Da queste parole pronunciate il 31 agosto 1943 appare chiaro che «vi sono ancora delle fatiche da sopportare ma sono scomparse le lacrime...». La fine della Germania non era comunque lontana.

L'incontro di Yalta, in Crimea, del febbraio 1945, fra Roosevelt, Churchill e Stalin discusse appunto l'aspetto della Germania una volta finita la guerra; le delegazioni si presentarono con un seguito mai visto; i soli angloamericani avevano 130 collaboratori.

Stalin si era insediato all'albergo Yussupov; Churchill aveva invece preferito una villetta costruita il secolo prima in perfetto stile moresco da un architetto, guarda caso, britannico.

Roosevelt occupava alcuni appartamenti in un palazzo, quello di Livadia.

Churchill si era arrogato il ruolo di mediatore tra gli opposti interessi di Roosevelt e Stalin.

Come fa notare Brennand, non vennero sollevati argomenti concernenti le operazioni militari. I convenuti sapevano benissimo quale ruolo avrebbero avuto le rispettive truppe, ma una profonda mancanza di fiducia da una parte e dall'altra viziava il dialogo. Il più diffidente nei confronti di Stalin si mostrava Roosevelt.

L'esperienza della Polonia, per non parlare della guerra russo-finlandese, era troppo recente perché si potesse fare affidamento sui russi, tanto più che ovunque entravano mettevano subito uomini e governi nei territori occupati: esponenti del partito comunista, rientrati dall'esilio moscovita, venivano affiancati da uomini usciti dalle file della resistenza; con l'appoggio sovietico era messo in piedi un governo che si avvaleva della presenza delle truppe russe per garantire la propria sopravvivenza.

Churchill dovette ricorrere a tutta la sua abilità di diplomatico consumato per cercare un'intesa costruttiva. Sulla carta prese corpo il futuro ONU, l'unione dei diversi stati che avrebbe dovuto soppiantare la Società delle Nazioni che poco o nulla era servita ad evitare i conflitti.

Stalin era invece favorevole a ridurre l'autonomia degli stati minori a favore della dipendenza di questi dalle nazioni più grandi. Ciò spiega perché i carri armati sovietici dimostrassero di avere il dono dell'ubiquità: erano dappertutto, anche nei paesi più sperduti, a rammentare ad ognuno la presenza dell'occupante.

Roosevelt era troppo affaticato per poter imporre le sue volontà. A Yalta si vedeva chiaramente come fosse stanco, quali sforzi facesse per continuare a sostenere le schermaglie politiche. Churchill che lo osservava, ebbe modo di vedere la pelle diafana del presidente, il gesto lento e sofferto.

Il suo maggior collaboratore, Hopkins, si era portato dietro una legione di assistenti che facevano tutto il possibile per rendere più agevoli le trattative.

Parallelamente al declino di Roosevelt, in Gran Bretagna vi era quello di un uomo molto vicino a Churchill, Lloyd George-Churchill era rimasto colpito dall'iter comune dei due.

Quando Roosevelt chiuse gli occhi per sempre, Churchill ebbe a dire:

«Ha guidato il paese attraverso i suoi momenti più difficili; (...) con F.D. Roosevelt è morto il mio migliore amico americano».

L'attenzione costante rivolta alla guerra che stava pur giungendo alla fine, ispirò a Churchill un discorso di elogio ai combattenti. Disse che era particolarmente lieto di vedere battersi insieme per la stessa causa i soldati di mezzo mondo: inglesi, indiani, neozelandesi, sudafricani; americani bianchi e americani di razza negra, brasiliani e polacchi; soldati italiani inquadrati nel Corpo italiano di Liberazione, israeliti combattenti in speciali brigate al fianco degli inglesi e poi ancora soldati marocchini, francesi della Francia libera, indiani e pakistani e ancora altri reparti ciascuno con le particolarità delle etnie che lo formavano.

 

 

Capitolo XV

IL VECCHIO RUGGISCE ANCORA

 

E un bel giorno, dopo tanto combattere (mai fu più accanita la resistenza degli ultimi reparti in queste ore d'agonia della Germania), si scoprì un po' per caso che la guerra era finita. Churchill venne portato in trionfo, le dita a V per simboleggiare la nuova vittoria, e volle subito sottolineare che questa vittoria non era tanto sua quanto di tutti. Malauguratamente per lui era capitato in piena campagna elettorale e queste elezioni, incredibile a dirsi, non gli erano state favorevoli. Si trovò all'improvviso a non essere più ministro essendo stato sostituito da Clement Attlee. Egli stesso ebbe a scrivere che aveva tenuto il potere supremo della nazione avendo governato per più di cinque anni e tre mesi di guerra mondiale; alla fine di questa, quando tutti i maggiori nemici erano stati sconfitti, scoperse che era stato cacciato via dall'elettorato britannico. Churchill però non scontava l'allontanamento dalla scena politica — per badare alle cose militari — ma subiva gli effetti della politica del suo partito: il conservatore; quest'ultimo, con monocorde ossessione, aveva continuato a far balenare lo spauracchio del comunismo e della sua forma più blanda, il socialismo; non era davvero il momento adatto; proprio quando i russi erano apparsi in Germania con i loro rozzi ma efficienti carri, proprio quando i laburisti si mostravano preoccupati della situazione del paese, il tema viscerale dell'anticomunismo faceva un po' sorridere: ben altre erano le questioni sul tappeto di una nazione dissanguata dallo sforzo bellico.

Nemmeno Churchill d'altra parte, aveva fatto molti sforzi per migliorare la propria immagine di conservatore incallito; quasi tutti i personaggi che aveva contattato nelle zone liberate, provenivano dalla borghesia più retriva e conservatrice.

Comunque Churchill non era certo uomo da farsi un cruccio per la sconfitta elettorale. E quando rassegnò le dimissioni da primo ministro aggiunse soltanto che gli spiaceva non esserlo più proprio quando il Giappone stava per capitolare.

Però, turbato da questo fatto, aveva ugualmente scritto ad Attlee, che lo sostituiva sullo scranno di primo ministro, che gli pareva indelicato ricorrere nuovamente alle urne prima della disfatta nipponica. Inoltre sarebbe stato molto contento di continuare a vedere quella collaborazione che c'era stata fra laburisti, conservatori e liberali con la necessità di far gruppo omogeneo per meglio tenere sotto controllo i riflessi della guerra. E, seppure in modo diverso, anche i giorni che si stavano vivendo erano d'emergenza: i temi più ricorrenti erano la disoccupazione e la previdenza sociale.

I laburisti, com'era loro consuetudine, si erano intanto riuniti a Blackpool per il loro tradizionale congresso di fine anno; le proposte di Churchill furono vagliate ed esaminate ma solo 2 furono i votanti che le approvarono. Si andava dunque verso uno scioglimento anticipato delle Camere: in 617 collegi, parlarono 1683 candidati. In Gran Bretagna in quel momento tutta l'attenzione convergeva sui laburisti; il popolo aveva letteralmente fame e guardava con speranza alle riforme generali compresa la proposta di nazionalizzare addirittura la Banca d'Inghilterra e tutte le miniere.

Quando toccò a Churchill di dire la sua in Parlamento, tutti gli strali furono contro i laburisti: il socialismo non era compatibile con un sistema democratico; era lontanissimo dalla concezione inglese della libertà. Aveva con sé i germi del totalitarismo e così via dicendo. Erano temi e puntate che mal si accompagnavano con l'immagine che aveva il pubblico di un Churchill salvaguardia della nazione, paladino della concordia nazionale.

I laburisti ebbero quindi buon gioco nel dire che Winston valeva meglio come presidente di un gabinetto di guerra che non come capo del partito conservatore; così era giocoforza chiedere il parere dell'elettorato: il 5 luglio, infatti, si indirono le elezioni con le urne che vennero tenute sigillate per tre settimane in attesa dell'arrivo delle schede di quelli, in prevalenza militari, che si trovavano nella situazione di essere migliaia di chilometri lontani dalla patria.

La Camera ebbe comunque un ribaltamento: dei 357 deputati che Winston Churchill aveva con sé nei primi scrutini gliene rimasero a votazione ultimata solo 197, mentre i laburisti ascesero a 393 deputati.

Tuttavia i cinque anni che Churchill passerà all'opposizione saranno caratterizzati dall'uscita della monumentale «Storia della seconda guerra mondiale», in quattro volumi.

Nelle sue parole indirizzate alla Camera dei Comuni il piglio era quello di sempre: «... non sottovaluto la difficoltà e la complessità del compito che ci attende; non accarezzo vane illusioni; all'indomani di una vittoria come questa che abbiamo ottenuto, c'è un momento luminoso sia per le nostre piccole vite sia per la nostra grande storia. È un momento non solo di esultanza ma ancora di più di decisioni; quando ci voltiamo indietro per guardare tutti i pericoli che abbiamo superato, tutti i potenti nemici che abbiamo abbattuto e tutti i foschi e mortali progetti che abbiamo vanificato perché mai dovremmo aver paura del nostro futuro?».

Poco tempo prima aveva detto come le prospettive del mondo fossero sotto molti aspetti assai meno rosee di quanto non lo fossero all'indomani della capitolazione del trattato di Versailles.

Comunque (doveva aggiungere in un'altra delle sue lunghe perorazioni), le forze dell'opposizione avevano in molti casi sostenuto ed appoggiato e, in qualche circostanza, additato il cammino che il ministro degli esteri aveva seguito.

La vitalità di Churchill sembrava inesauribile; fra una mozione dell'opposizione e un discorso, fra una pagina e l'altra dei suoi libri (dei quali faceva fare almeno sei bozze, una «media» questa perché a libro già pressoché stampato capitava sempre di apportare una correzione o una variazione), trovò anche il modo di viaggiare per mezzo mondo; nell'autunno 1945 era nelle Fiandre per ricevere le cittadinanze onorarie di Bruxelles e Lovanio. Agli inizi del 1946 lo troviamo negli Stati Uniti; ma a maggio è già in Olanda per parlare di fronte agli stati generali. A settembre eccolo tenere un discorso in cui indica la via per la salvezza dell'Europa; oppure va a Zurigo per riparlare delle possibilità europee.

Nel 1948 è ad Oslo per ricevere una laurea honoris causa e per tenere discorsi in Parlamento; nel 1949 partecipa ai lavori di fondazione del Consiglio d'Europa: viene acclamato primo cittadino della futura Europa Unita.

Nel mentre i suoi scritti andavano letteralmente a ruba: solo del primo volume della sua storia della guerra mondiale si vendettero 205.000 copie. Per giunta, non avendo mai abbandonato il suo amore per i cavalli, partecipò con il suo beniamino Colonist II, nell'estate del 1949, a due importanti premi vincendoli senza sforzo. Come se non bastasse, si interessò di agricoltura a Chartwell. E così via. Anno dopo anno, la personalità effervescente di Churchill non mancava di stupire.

Anziché starsene tranquillo, si interessava sempre più della politica; capitò quando venne per esempio messa sul tappeto la questione indiana: Lord Mountbatten, ultimo dei viceré dell'India, era in procinto di varare le disposizioni che avrebbero consentito al paese un primo avvio per l'indipendenza: veniva cioè a cadere la condizione di dominion (quali erano stati l'India, appunto, e il Pakistan) per diventare una nazione indipendente nell'ambito del Commonwealth. Precisamente alla mezzanotte del 14 agosto 1947 re Giorgio VI cessava di essere imperatore dell'India.

Una volta incominciato, il processo di sgretolamento dei possedimenti coloniali della Gran Bretagna diveniva irrefrenabile e all'India doveva seguire la Birmania: per Churchill era più che un attacco personale, si trattava nientemeno che assegnare l'indipendenza a quel territorio che dal 1895 aveva fatto parte della corona proprio nel periodo in cui suo padre deteneva la carica di ministro dell'India. Quando venne a sapere della nuova decisione governativa, Winston Churchill non poté esimersi dal pronunciare uno dei suoi più vibranti discorsi: «Al tempo dell'amministrazione di Lord Chatam», aveva esordito, «bisognava alzarsi presto il mattino per non perdere l'occasione di fare dei guadagni e annettere quelle terre che rappresentavano la nostra fortuna;... oggigiorno l'impero britannico viene sciupato con la stessa disinvoltura facilona del prestito statunitense. Il rapido, spietato procedimento di disfarsi di tutto ciò che è stato guadagnato dalle fatiche e dai sacrifici di tante generazioni, prosegue».

Nella frenesia che sembra voler pervadere il governo inglese, che si disfà con la massima disinvoltura dei territori incorporati a caro prezzo, non si è nemmeno contemplata la possibilità che il popolo birmano possa restare unito nella confederazione dei dominions. Questo per non parlare dell'Egitto: lì si vogliono ritirare tutte le truppe inglesi rivedendo anche il trattato che aveva fino ad allora legato l'Egitto alla Gran Bretagna. C'era poi anche sul tappeto il problema della Palestina: da almeno cinquant'anni continuavano a venire in Palestina ebrei da tutto il mondo, ma specialmente dall'Europa orientale. Era il loro sogno quello di poter fare di quelle terre la loro patria. E, in cambio dell'apporto scientifico degli scienziati ebrei all'estero, s'era strappata al deputato Balfour la garanzia che gli ebrei avrebbero avuto una home, un focolare nella Terra Promessa; ma le intese britanniche tardarono ad esser poste in esecuzione: si erano quindi verificati episodi di terrorismo nei confronti delle truppe inglesi che vi stazionavano. Non è il caso di rifare qui la storia della creazione dello stato d'Israele che avverrà nel 1948; quello che si vuole dire è che anche qui era giocoforza che le truppe britanniche si ritirassero.

Tutti questi episodi non facevano che aumentare l'ira di Churchill al quale sembrava ogni volta che gli si strappassero le viscere. Ma da buon zelante servitore dello stato, accettava le decisioni pur protestando vibratamente. Un giorno, dopo un suo discorso particolarmente accalorato, s'alzò un deputato a dire che c'era da vergognarsi; ma Winston, serafico, ribatté: «L'onorevole collega è un buon giudice in materia».

Il piglio da retore consumato e la sua abilità oratoria non sembravano affatto offuscati dagli anni che passavano; anzi, il discorso s'era fatto più caustico, più finemente politico.

Quando la legislazione parlamentare giunse quasi alla fine, i conservatori capirono che avevano ancora dalla loro diversi vantaggi. In primo luogo, a dare un'immagine non troppo felice del potere, era intervenuta la svalutazione della sterlina. I laburisti, poi, erano incappati in alcune sventure elettorali avendo, in qualche circoscrizione, condotta una campagna maldestra. Così, allorché vennero sciolte le Camere nel 1950, precisamente nel mese di febbraio, i conservatori, spronati da Winston, cercarono di riconquistare la libertà d'iniziativa. Al nuovo giro di boa delle elezioni si scopri che i laburisti avevano 315 deputati eletti su 617, mentre i conservatori ebbero 298 deputati eletti contro 620 scesi in lizza; i liberali ebbero un vero tracollo con solo 9 deputati su 475 candidati.

Per un uomo come Winston, la rimonta dei conservatori era notevole e avrebbe consentito un'opposizione più dura in modo da non far buttar via in una semplice sessione parlamentare ciò che aveva rappresentato il lavoro di intere generazioni. Churchill aveva molto cari i «brandelli» dell'impero e, a vederli staccare ad uno ad uno, si sentiva il cuore come morso in una stretta.

Faceva osservazioni sarcastiche sul partito comunista britannico; questi comunisti inglesi, nei primi giorni dopo la cessazione delle ostilità, avevano conosciuto un certo seguito; ma adesso, alla prova dei fatti, non erano arrivati a inviare in Parlamento nemmeno un deputato.

Una volta spartita la Germania in tante sezioni quante erano le potenze occupanti, cominciava a delinearsi una certa freddezza da parte russa nei confronti degli alleati. L'orso sovietico, come lo definiva Churchill, aveva intrapreso la «colonizzazione» dei paesi occupati; annotava mestamente Churchill:

«Il governo polacco, sotto l'influenza sovietica, è stato incoraggiato ad annettersi grandi proporzioni di territorio tedesco e questo ingiustamente. Milioni di tedeschi stanno ora varcando le frontiere provenienti dall'est. I partiti comunisti, che in questi stati orientali europei sono passati al primo posto acquisendo un potere assai superiore al numero degli iscritti, cercano adesso di ottenere un controllo in toto. In tutti i casi, quei governi assumono un aspetto poliziesco (...) È questa l'Europa libero da costruire e per la quale abbiamo combattuto? No, e questa Europa con contiene nemmeno gli elementi essenziali per una pace permanente. Colonne comuniste operano in paesi lontani obbedendo alle direttive che giungono da Mosca. Queste quinte colonne rappresentano una sfida crescente e un pericolo per la civiltà cristiana. E penso dover denunciare questi fatti all'indomani di una vittoria conseguita con così grande cameratismo d'armi in difesa della libertà e della democrazia (...). Non penso che l'Unione Sovietica desideri la guerra; quello che essa vuole è raccogliere i frutti della guerra e l'indefinita espansione del suo potere e delle sue dottrine».

Era l'enunciazione che da Stettino al Baltico fino a Trieste era calata come una cortina di ferro che divideva in due l'Europa. Tutte le capitali degli antichi stati dell'Europa centrale e orientale si trovano nella sfera di influenza sovietica: ecco dunque «Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest e Belgrado, Bucarest e Sofia (...)» trovarsi in quella «che io chiamo coltre sovietica».

«Perfino in Grecia vi è un pericolo rappresentato dalla esistenza di un forte partito comunista...».

A queste parole si levarono applausi, ma anche biasimi. Per alcuni senatori statunitensi il discorso venne definito «sorprendente»; altri tacciarono Churchill di irresponsabilità; ma c'erano definizioni, come quella della cortina di ferro, che erano destinate a rimanere nei vocabolari.

Alle constatazioni di Churchill, la «Pravda» sovietica rispose con una bordata di accuse e cominciò così il periodo della guerra fredda destinato a durare tanti anni.

 

È il 19 settembre 1946. Un'automobile scoperta sta attraversando la città di Zurigo. A farle ala vi è una folla di persone prevalentemente giovani, in costume nazionale, davanti alla sede dell'università. L'ospite tanto atteso è Churchill che deve tenere una prolusione nell'aula magna. Gli argomenti di Churchill nel dopoguerra si assomigliano un po' tutti: si parla, infatti, sempre dell'europeismo, della necessità del mantenimento della libertà; è, quello dello statista britannico, un invito a tutti i paesi a trarre ammaestramento dall'esempio elvetico. Non vi è alcuna ragione, dice, che una fascia regionale dell'Europa possa in qualche modo entrare in conflitto con l'ONU Ma è indispensabile che si formi un coagulo dei diversi stati, troppi per una superficie così esigua.

Il primo punto, insiste lo statista, è quello di una collaborazione tra Francia e Germania, questo perché non abbia a ripetersi più quello che era successo l'anno prima nel cataclisma generale fra le città distrutte e i superstiti ridotti alla fame.

L'Europa, questo è il caloroso invito di Churchill, deve tornare ad esistere come famiglia.

 

Rimaneva sul tappeto il sempre delicato problema dei rapporti con l'Unione Sovietica: «... credo che il governo sovietico abbia paura dell'amicizia con l'occidente... le vite dei suoi dirigenti potrebbero trovarsi in pericolo se si permettesse un libero, facile ed amichevole rapporto con il mondo esterno. Non solo, ma è ricominciata la corsa al riarmo da parte dei russi e degli americani; e questo con il pericolo rappresentato dalle armi nucleari».

La bomba atomica, sottolinea Churchill, non è solo uno dei fattori dominanti nella situazione militare, ma è il più importante.

Vari sono i temi e i motivi sui quali insiste l'oratoria churchilliana. Si occupa di tutto e ha sempre parole, a volte pungenti, per ciascuno. Si accorge che l'Unione Sovietica opera degli spostamenti di intere popolazioni, in modo da avere degli stati abitati anche da genti di ceppo russo. Questo modo di comportarsi appare chiaro negli stati baltici.

Altro tema dominante, i rapporti sempre poco felici con i laburisti: «Molti anni fa», dice Churchill, «mi servivo di una frase: fare avanzare la retroguardia, cioè secondo il dovere che ha il più forte di aiutare il più debole e di elevare il livello medio di vita e di lavoro (politica che oggigiorno tutti i partiti perseguono). Ma adesso abbiamo la nuova dottrina socialista che non è più quella di far avanzare le retroguardie, bensì quella di far retrocedere l'avanguardia».

Da molti episodi appare tuttavia che il seguito di Churchill non è più quello di una volta. C'è chi lo considera un guerrafondaio. Il deputato Bevan dice che l'ex primo ministro usa un linguaggio ottocentesco, tipico di chi non veda altro che battaglie.

Nell'ennesima prova elettorale, i conservatori continuano a risalire la china: su trentacinque milioni di votanti, i conservatori giungono a 13.724.000 voti contro i 13.948.000 dei laburisti. Uniti con i voti liberali (730.551), la maggioranza in Parlamento è garantita.

Churchill, nello sforzo di rendersi più moderno, tenta di comporre un rimpasto in cui siano presenti anche i deputati non legati strettamente al partito, cercando di fare una compagine la più allargata possibile, includente, oltre ai liberali, anche degli indipendenti. Una volta formatasi la nuova ristrutturazione, Winston avverte di essere più libero e di poter prendere quei contatti con gli Stati Uniti che tanto gli premevano.

C'erano stati scambi di acciaio americano contro piombo, stagno e alluminio inglesi, ma non si trattava solo di intese commerciali, c'era anche una precisa volontà di unificazione, sia sul piano politico sia su quello militare.

La difesa dell'Europa dipendeva adesso da un'alleanza permanente con gli Stati Uniti: era l'abbozzo della NATO.

Nel quadro di questa alleanza vennero trattati i temi di uniformazione delle dotazioni militari, in modo che le truppe fossero equipaggiate con le stesse armi e gli stessi calibri. Poi tornò il tema dell'argine dell'espansionismo sovietico, la creazione della Corea del nord e la presenza di truppe militari permanenti nei paesi dell'Europa orientale.

Il 6 febbraio del '52 moriva Giorgio VI, il sovrano che aveva retto lo scettro nei giorni più bui della guerra. Winston Churchill ne tessé l'elogio parlando della sua «dignità di vita, delle sue virili virtù, del suo senso del dovere, del suo fascino, della sua felice natura». Né mancò di sottolineare le sue qualità di padre esemplare e il suo coraggio in pace e in guerra.

Il suo discorso finì per tesserne gli elogi e toccò anche il tema della sua morte, dolce e semplice, affrontata, dopo lunghe sofferenze, con il sorriso.

Altre lodi, sempre in punta di penna, ebbe per la regina Elisabetta subentrata al trono.

La sua attività era inesauribile: mentre presiedeva la presidenza dei paesi del Commonwealth, si occupò nello stesso tempo del ministero degli esteri, rimasto vacante a causa di una malattia del titolare Anthony Eden. E lo aspettava all'orizzonte la conferenza interalleata delle Bermude.

A causa dello stress, fu colpito da una paresi al lato sinistro e, sebbene amici e colleghi gli suggerissero di ritirarsi nella tranquilla residenza di Chartwell, egli non volle abbandonare il suo lavoro parlamentare, e dopo un breve periodo di assenza, tornò con la sua eloquenza a trattare i problemi che si stavano accumulando, dalla guerra che divampa in Indocina, alla questione delle due Cine.

 

Il 30 novembre 1954, in occasione del suo ottantesimo compleanno, si svolse una celebrazione senza confronti, quanto di più bello si potesse offrire per festeggiare un simile avvenimento.

La famiglia reale gli presentò del vasellame d'argento; altre due anfore d'argento vennero recate a nome dei diversi deputati: era il regalo più prezioso perché si trattava di oggetti appartenuti al fratello di quel Marlborough, suo antenato. (Per inciso la biografia scrittane da Churchill continuava ad essere un libro letto e venduto). Il Parlamento gli fece dono del suo ritratto e la consegna avvenne nella sala di Westminster con tanto di rullo di tamburi.

Il 4 aprile 1955 vi fu un altro importantissimo evento: i coniugi Churchill offrivano un pranzo in onore della regina; fatto inusitato, quest'ultima brindò in onore del primo ministro; al pranzo erano presenti anche la vedova di Neville Chamberlain e quei membri di gabinetto che avevano fatto parte del consiglio di guerra. Era l'ultimo giorno in qualità di primo ministro. L'indomani infatti si alzò per tempo e si recò a palazzo reale a offrire le sue dimissioni. D'ora in avanti si sarebbe dedicato alla pittura.

 

Gli anni seguenti registrarono il continuo successo della sua monumentale opera sui popoli di lingua inglese, ma furono anche anni contraddistinti da acciacchi e da fastidiose polmoniti. Ogni tanto si recava ancora in Parlamento e le sue apparizioni erano diventate così rare da essere celebrate come eventi straordinari.

Un giorno, mentre si trovava a Roquebrune, sulla riviera francese, si ruppe una gamba e ne portò a lungo le conseguenze.

Infine un mattino, erano le 8 del 24 gennaio 1965, Churchill non si alzò più dal letto. Era morto.

La radio trasmise l'annuncio con le note della quinta sinfonia di Beethoven. La regina decretò funerali di stato e in Inghilterra, ma anche in Francia, la bandiere vennero calate a mezz'asta.

Lo statista venne sepolto nel piccolo cimitero di Bladon, minuscolo villaggio di fronte al luogo dov'era nato: il castello di Blenheim. La sua tomba fu collocata all'ombra della chiesa di Saint Martin, fra quelle dei suoi genitori.

Era stato il suo ultimo volere...

 

 

APPENDICE

CRONOLOGIA ESSENZIALE

 

1874: nasce il 30 novembre, viene educato ad Harrow e Sandhurst.

1895: fa parte del 4° Ussari; si reca a Cuba.

1897: campagne in India.

1898: battaglia di Omdurman (col 21° lancieri).

1899: guerra boera, corrispondente del «Morning Post».

1900: elezioni ad Oldham; concorre con i conservatori.

1904: fa parte come indipendente del partito liberale.

1906: sottosegretario di stato alle colonie.

1908: si sposa; diviene presidente del ministero del commercio.

1910: ministro degli interni.

1911: primo Lord dell'ammiragliato.

1915: in guerra (6th Royal Scots).

1917: ministro delle munizioni.

1919: segretario di stato (della guerra e dell'aria).

1921: segretario di stato alle colonie.

1922: si ritira dalla vita politica per un biennio.

1924: ad Epping come costituzionalista; cancelliere dello scacchiere.

1931: si occupa del problema indiano e del riarmo.

1939: primo Lord dell'ammiragliato.

1940: primo ministro e ministro della difesa.

1941: membro della Società Reale.

1945: convegno di Yalta.

1946: Ordine al Merito.

1951: primo ministro, cavaliere della giarrettiera.

1953: Premio Nobel per la letteratura.

1955: rassegna le dimissioni.

1963: è cittadino onorario degli Stati Uniti.

1965: muore il 14 gennaio all'età di 90 anni.

 

 

HA DETTO...

 

I problemi della vittoria non sono più piacevoli di quelli della sconfitta, né sono meno difficili.

Non sono diventato primo ministro per assistere alla liquidazione dell'impero britannico.

C'è una sola risposta alla sconfitta ed è la vittoria.

Se vinciamo, questo non interessa a nessuno e se perdiamo nessuno si preoccuperà.

Se Hitler invaderà l'inferno, dalla Camera dei comuni gli invierò una migliore raccomandazione per il diavolo.

Ognuno ha sempre sottovalutato la Russia: essa cela i suoi segreti ad amici e nemici.

Mai nella storia dei conflitti umani fu dovuto tanto a così pochi. Le prerogative della corona sono divenute privilegio del popolo.

Non sono di quelli che han bisogno d'esser stimolati: se sono un qualcosa è perché sono io il pungolo.

Ho sempre avuto la tendenza — dalla quale devo guardarmi — di nuotare controcorrente.

Il compito del Parlamento è di trovare temi che non prestino il destro per delle scazzottature.

È certo meglio avere un mondo unito che non diviso; ma è meglio avere un mondo diviso che non un mondo distrutto.

Ho sempre considerato importante che si stringano le mani ai russi il più a est che sia possibile.

Nessuno pretende che la democrazia sia perfetta o sensata. È stato infatti detto che la democrazia è la peggiore forma di governo salvo tutte quelle altre forme che sono state di tanto in tanto sperimentate.

 

 

 

 

 

 

 

   
   
   
   
 

 

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